LA SINGOLARE STORIA DEL NULLATENETE VON COLLA di Roberto Cristiano

Francesco Ludovico von Colla era il secondogenito del barone Colla di Stracciapolizze.

Fin da piccolo, non si era dimostrato in possesso di una spiccata personalità; non aveva grandi interessi né mostrava particolari attitudini per alcunché.

Anche a scuola, il suo rendimento non superò mai, nel migliore dei casi, una grigia mediocrità. Non era nemmeno particolarmente vivace o sfrenato nel gioco o turbolento.

I suoi compagni usavano chiamarlo “von Nulla”.

In considerazione della mancanza di ben determinate inclinazioni, il padre decise di avviarlo alla carriera militare. Ma anche all’accademia non fu un allievo particolarmente brillante, tanto che non riuscì a conseguire la media sufficiente per la nomina a sottotenente: ottenne soltanto il grado di nullatenente, con il quale fu destinato a prestare servizio nella guarnigione di confine di Zucalovo.

Il giorno stabilito, il nullatenente Colla, sciabola al fianco, sciarpa azzurra a tracolla, stivali lucidi, guanti bianchi, chepì ben calzato in testa e fermato col soggolo, si presentò di primo mattino al comando di reggimento.

Il comandante di reggimento era il colonnello Carlo Federico von Pantano, che lo ricevette con molta affabilità.

Il colonnello von Pantano era un brav’uomo, e quel giorno, per giunta, si era alzato perfettamente riposato dopo un sonno di quelli che ormai, alla sua età, faceva raramente; cosicché si sentiva particolarmente benevolo e paterno nei confronti del nuovo giovane ufficiale, anche se si trattava di un nullatenente. Si informò della sua famiglia, dei suoi professori in accademia, della salute del generale Lucchesi Palli (che era il direttore dell’accademia); non si soffermò sul suo grado poco lusinghiero né sulle poco brillanti note di qualifica che lo accompagnavano.

“Vedrà che qui si troverà bene” disse benignamente. “Avrà il comando di un buon plotone, al 21° battaglione, si troverà bene, vedrà, vedrà” e si alzò in piedi. “La accompagno io stesso dal suo comandante di battaglione; è una bella giornata e voglio fare due passi. Venga!” e se lo prese sottobraccio e uscirono nel cortile.

Era una bella mattinata, l’aria era fresca, gli uccelli cantavano; Francesco Ludovico von Colla non aveva mai incontrato un colonnello così affabile e ben disposto: non aveva nemmeno storto il naso a sentire “nullatenente”.

Francesco Ludovico von Colla cominciava quasi a pensare al suo grado di nullatenente come ad una cosa alla fin fine trascurabile, un particolare di secondaria importanza.

In quel momento, al richiamo di una sentinella, dei soldati si affrettavano ad aprire il portone. “Rientrano dal pattugliamento” disse il colonnello von Pantano, e chiese al capoposto del corpo di guardia:

“Chi è stato fuori, stanotte?”

“Il signor sottotenente Gabrieli, signor colonnello” rispose il capoposto.

“Ah, Gabrieli … venga, Colla, così glielo presento. È del suo battaglione; un ottimo ufficiale” e si avviò verso il portone, dal quale stavano rientrando i soldati col fucile in spalla e gli zaini carichi.

“Gabrieli!” chiamò il colonnello von Pantano.

L’ufficiale che comandava il plotone si staccò dai suoi soldati e si diresse verso di loro, poi si fermò alla dovuta distanza, sbatté i tacchi irrigidendosi sull’attenti, si portò la destra alla visiera e disse:

“Comandi, signor colonnello.”

Però faceva tutto questo sorridendo amichevolmente, in un modo che faceva uno strano contrasto con quel serioso cerimoniale che, peraltro, compiva impeccabilmente.

Colla lo guardò: aveva più o meno la sua stessa età, però sulle sue spalline luccicava una stelletta d’oro, radiosa come un sole.

A Colla parve emanasse un fulgore abbagliante, e si sentì come abbacinato; la bella mattina gli sembrò oscurarsi; e di nuovo vide sé stesso come quello che era, un semplice nullatenente con una misera stelluccia di stagno sulla spallina.

“Allora, Gabrieli, come è andata, eh?” chiedeva intanto il colonnello.

“Ottimamente, signor colonnello: una trentina di chili di finferli e diciotto brise” rispose il sottotenente e, voltandosi ad un caporalminore che passava lì accanto:

“Onofrio” disse “fa vedere al signor colonnello”.

Il graduato scattò sull’attenti:

“Agli ordini, signor tenente! Ecco qua, signor colonnello!” ed aprì il suo zaino mostrando con aria compiaciuta un paio di porcini enormi, freschi e sodi, dall’odore umido e penetrante di bosco.

“Sorbole!” diceva il colonnello von Pantano “Complimenti, Gabrieli! È davvero in gamba, lei! Le piace il risotto coi funghi, Colla?”

“Eh? Ah … signorsì, signor colonnello” disse Colla, ridestato di soprassalto da una specie di contemplazione estatica della stelletta d’oro del sottotenente Gabrieli.

“Ecco, Gabrieli, questo è un suo nuovo collega” diceva adesso von Pantano “il signor Colla; Colla, il sottotenente Gabrieli”.

Proprio così aveva detto, pensava Francesco Ludovico: il signor Colla, il sottotenente Gabrieli. Aveva cercato di usare delicatezza, non pronunciando quella brutta parola: nullatenente; ma non c’era riuscito fino in fondo, o forse l’aveva fatto apposta?

Ad ogni modo la differenza c’era, e si sentiva. Il signor Colla, il sottotenente Gabrieli. I due intanto si erano salutati, poi Gabrieli si era congedato, dicendo cordialmente a Colla:

“Ci vediamo più tardi.”

Il colonnello von Pantano riprese Francesco Ludovico a braccetto e proseguirono verso il comando di battaglione.

Però gli uccelli adesso avevano smesso di cantare.

Erano circa duecentocinquant’anni che in quel paese non si facevano più guerre, e nessuno aveva la minima intenzione di farne una per gli anni a venire. Perciò i militari avevano dovuto trovarsi delle occupazioni per passare il tempo senza annoiarsi e non fare la figura dei fannulloni.

La guarnigione di Zucalovo si trovava in una località ricca di boschi, e così se ne approfittava per andare a funghi durante i pattugliamenti che, a norma di regolamento, si dovevano fare lungo il confine, anche se, da due secoli e mezzo, da quel confine non era più venuto nessuno a disturbare.

All’epoca della mietitura e della vendemmia c’erano le manovre rurali: il borgomastro di Zucalovo, grossa borgata agricola, chiedeva, tramite il sottoprefetto della sottoprovincia, il concorso delle forze armate per i lavori agricoli e, su ordine del comandante della guarnigione, il generale di divisione Cartuscelsky, le truppe entravano in campagna per dare una mano ai contadini del posto.

Il giorno di San Venceslao, patrono del paese, era il gran giorno del colonnello Radaček, comandante dell’artiglieria divisionale, cui era affidata la cura dello spettacolo pirotecnico che doveva allietare la festa patronale.

Gran giorno, per il colonnello Radaček!

I suoi cannoni, muti per tutto il resto dell’anno, ma tenuti in perfetta efficienza, con amorosa quotidiana sollecitudine, in vista di quel giorno, ora, tirati a lucido, potevano sfogarsi finalmente a sparare salve fragorose, illuminanti, shrapnel colorati, bengala giganti e quante altre diavolerie gli artiglieri della guarnigione sapevano escogitare per incantare bambini e adulti e rendere più allegra la festa. Il colonnello Radaček dirigeva personalmente il tiro dal tetto di un mulino e, mentre la notte si illuminava di mille colori e la musica dei pezzi gli cantava gioiosamente alle orecchie, al riverbero degli spari che gli illuminava il viso, gli si potevano vedere luccicare negli occhi lacrimoni di felicità.

Il giorno della festa nazionale, si faceva poi una grande parata. L’intera divisione sfilava dalle caserme giù per il colle, in mezzo ai castagni e tra i filari di viti, e poi tra i campi di grano nella pianura, fino ad entrare in paese, con la banda in testa, attraversare le strade assiepate di gente e andare a rendere gli onori alle autorità, il generale Cartuscelsky, il sottoprefetto, il vescovo, il borgomastro, che attendevano nella tribuna d’onore.

In autunno, quando si apriva la stagione della caccia, i reparti erano impegnati spesso in battute. I cavalleggeri del nucleo di esplorazione ravvicinata organizzavano delle bellissime cacce alla volpe, cui partecipava a volte il generale Cartuscelsky in persona.

Per il resto, gli ufficiali non avevano molto da fare, e passavano il tempo tra il circolo, i caffè, le osterie.

Si giocava, ma con le carte Colla non era bravo e nemmeno fortunato. Si beveva, ma Colla non amava l’alcool, e lo reggeva anche poco. Si faceva salotto, ma Colla non era molto brillante in società. Ci si dava da fare con le donne, ma Colla non ci sapeva fare. Poi c’erano gli scacchi. Gli scacchi erano molto importanti, perché l’abilità in quel gioco contava non poco per la carriera. Le vittorie nei tornei ufficiali facevano punteggio per le promozioni, e una prova di scacchi ad alto livello era il clou dei concorsi per la scuola di guerra e lo stato maggiore. Al circolo e nei locali frequentati dagli ufficiali le scacchiere erano sempre contese. Si organizzavano tornei, si tenevano corsi; sfide memorabili si svolgevano, che si caricavano di tutte le ambizioni, le speranze, i risentimenti, le gelosie che ribollivano sotto le uniformi scintillanti di bottoni dorati, mostrine variopinte, cordelline argentate, medaglie rutilanti.

Era passata alla storia la grande partita, giocata proprio lì, al circolo ufficiali di Zucalovo, una decina d’anni addietro, tra il colonnello Spara ed il maggiore Pallaver.

Pallaver e Spara erano stati compagni di corso in accademia; ma poi Spara, che aveva più faccia tosta e più savoir faire, aveva soffiato a Pallaver tutti gli incarichi più importanti ed anche la figlia del generale Biedermaier, con la quale Pallaver era quasi fidanzato; così aveva fatto una carriera più veloce e brillante, e Pallaver se lo era ritrovato dopo alcuni anni come comandante di reggimento.

Un giorno, al circolo, Spara gli aveva detto:

“Dai, Pallaver, te la senti di giocare una partita con me?” ed era cominciata la grande sfida. Tutta la guarnigione li seguiva con gli occhi puntati, in religioso raccoglimento.

Pallaver giocava in silenzio, senza alzare la testa dalla scacchiera; giocava con determinazione, con accanimento, quasi con una muta rabbia.

Ogni mossa era una stoccata.

Giocava come se quella partita, quella scacchiera, quei pezzi, dovessero dimostrare una volta per tutte se c’è o non c’è, su questa terra, la giustizia divina.

Spara aveva ben presto compreso che a quella scacchiera si stava giocando il suo prestigio, l’ascendente sui subordinati, la sua reputazione di ufficiale e di uomo; costretto ad una affannosa difesa del suo re, aveva cominciato a sudare freddo. Con la faccia stravolta, i capelli scarmigliati, la giubba sbottonata fino a mezzo il petto, ribatteva con la foga disperata di uno che si sente mancare la terra sotto i piedi alle mosse sicure ed implacabili di Pallaver. La partita durò giorni e giorni.

Ad un certo momento la situazione si rovesciò: Spara era riuscito a mettere il suo re al riparo dai continui attacchi dell’avversario ed aveva preso lui l’iniziativa, e sorprendendo Pallaver tutto sbilanciato in avanti affondava i colpi nelle sue retrovie seminando strage.

Con una smorfia di feroce soddisfazione sulle labbra, una espressione da esaltato sulla faccia disfatta dalla tensione, accompagnava ogni mossa con parole di sfida, motti di scherno, imprecazioni, sghignazzate.

Pallaver continuava a giocare muto, immobile sulla sedia, fissando la scacchiera, sulla quale pendeva curvo e stretto nelle spalle; solo una leggera ombra sulla fronte contratta dalla concentrazione lasciava trapelare qualcosa del suo interno stato d’animo.

Già il vantaggio del suo avversario si era fatto considerevole, quando ad un certo punto, all’improvviso, un lampo gli passò, ma solo per un momento, negli occhi; strinse tra le dita una torre, e, sempre con lo sguardo basso sulla scacchiera, dopo un momento di esitazione la spinse in avanti, e con voce sommessa e scevra di qualunque emozione chiamò il matto. Spara sbiancò di colpo; si alzò rovesciando la sedia, rimase qualche secondo a guardare, a bocca aperta e con gli occhi sbarrati, la scacchiera e l’avversario, il quale continuava a tenere gli occhi fissi verso il basso, poi uscì senza una parola.

Dopo pochi giorni, il colonnello Spara veniva trasferito, a domanda, ai magazzini centrali della Sussistenza.

Naturalmente, il nullatenente Colla non era capace di giocare a scacchi.

Sapeva, ovviamente, come si gioca (gli scacchi erano materia di insegnamento all’accademia), ma non si può dire che sapesse giocare. Dopo le scolastiche mosse di apertura, la scacchiera diventava per lui una sorta di misterioso labirinto; non un barlume di idea tattica prendeva forma nel suo cervello, né gli era possibile afferrare con la mente la concatenazione di più di due mosse successive. Ogni pezzo sembrava andarsene per i fatti suoi, spinto al suo destino da una ferrea e oscura necessità, mentre le diagonali bianche e nere si incrociavano e si confondevano davanti ai suoi occhi, come in un caleidoscopio.

Un assiduo frequentatore di scacchiere era il comandante di battaglione di Colla, il sergente colonnello Barilovich.

Proveniva da una famiglia di gloriose tradizioni marinare; un suo avo, circa tre secoli prima, si era distinto alla battaglia di Salsiccina contro la flotta barbaresca: gli infedeli poco prima avevano sorpreso e sbaragliato le forze navali avversarie al largo del Capo di Collo e puntavano ormai sicuri verso la costa, ma gli altri, con un supremo sforzo, avevano rimediato una flotta mettendo in mare tutto quello che era in grado di galleggiare: pescherecci, barche a remi, canotti, zattere, tinozze, botti, vasche da bagno, ed erano andati ad affrontarli: nell’eroico e vittorioso scontro il guardiamarina Barilovich aveva compiuto prodigi di valore, meritandosi sul campo i galloni di tenente di mastello.

Da allora, tutti i Barilovich erano stati ufficiali di marina fino al sergente colonnello, che era stato giudicato inidoneo per una grave forma di allergia all’acqua e a qualsiasi liquido che non fosse il vino, e perciò aveva dovuto ripiegare sull’esercito.

Barilovich aveva preso piuttosto male questa cosa, che gli pesava come un peccato d’origine e lo rodeva dentro come un’onta inflitta all’onore della schiatta.

Per riscattarsi in qualche modo aveva puntato tutto sulla carriera, mirando allo stato maggiore, ma i risultati non avevano risposto fino a quel momento alle sue aspettative ed ai suoi sforzi. Perciò passava giornate intere al circolo, seduto a tavolino, con la scacchiera davanti e la bottiglia di lato, e studiava aperture e finali, ripeteva le partite dei più illustri maestri, sviscerava problemi.

A volte faceva anche delle partite con altre persone, ma non molto spesso, perché in genere perdeva, e perdere una partita lo faceva diventare più idrofobo di quanto non fosse già normalmente. Allora scaricava tutto il suo livore sui subalterni, e chi ne faceva le spese più di tutti era il nullatenente Colla, al quale rinfacciava continuamente la sua nullità; questo dava particolare sollievo al suo oscuro senso di colpa nei confronti del proprio illustre casato. Per un altro verso però Colla gli piaceva, perché con lui poteva giocare a scacchi in tutta tranquillità; difatti presero a giocare spesso insieme; per meglio dire, il sergente colonnello Barilovich costringeva frequentemente Colla a quello che per lui era una specie di supplizio. Il nullatenente annaspava davanti alla scacchiera come un pesce fuor d’acqua, mentre Barilovich dottoreggiava soddisfatto, facendogli notare con lunghe, didascaliche dissertazioni tutte le bestialità che commetteva, e con aria di compatimento scuoteva la testa dicendo:

“Ragazzo mio, se lo lasci dire, per gli scacchi non ha la minima disposizione. Male, molto male! Non credo che potrà fare molta strada continuando così. Già, del resto, non ha cominciato affatto bene: nullatenente, già…Ai miei tempi uno nelle sue condizioni non avrebbe nemmeno avuto le spalline; ma erano altri tempi, oggi come oggi, si sa, da un nullatenente non si può pretendere gran che. Ma sarà dura, a far carriera, non si faccia illusioni. Anche se oggigiorno il merito non conta più niente, e si va avanti a forza di calci nel sedere…” e qui il sergente colonnello Barilovich masticava amaro.

Il povero Colla annaspava più che mai, gli occhi gli si smarrivano sulle diagonali che più che mai si incrociavano e si confondevano; le sue idee si dibattevano inutilmente nella rete fitta e pesante che gli avviluppava il cervello, e languivano e si spegnevano come lampade a corto di petrolio.

Qualche volta il cielo aveva pietà di lui e gli mandava un angelo salvatore sotto le specie del sopratenente Calamaris.

Il sopratenente Calamaris adocchiava la scena dal tavolino dove usava intrattenersi a leggere il giornale o a conversare del più e del meno o a fare un tressette con i tenenti Pékory e della Candela ed il capitano Promulka; e appena vedeva che Barilovich e Colla avevano terminato la prima partita si avvicinava e diceva ad alta voce al sergente colonnello: “Ma signor colonnello, se questo ragazzo è davvero così scarso come dice lei, che gusto c’è a giocarci insieme? Lasci perdere; facciamocela noi, piuttosto, una partitina.”

Barilovich, invitato a giocare così davanti a tutti, non poteva esimersi dal misurarsi con Calamaris, che era piuttosto bravo; costretto a fare buon viso a cattivo gioco, ingoiava fiele e lanciava a Calamaris occhiate cariche di odio feroce.

Calamaris se ne accorgeva, e qua era tutto il suo divertimento; se la rideva sotto i baffi, e dopo, con gli amici, si sganasciava raccontando la faccenda e descrivendo con tratti coloriti la faccia del sergente colonnello Barilovich in tutte le sue espressioni.

Il sopratenente Calamaris era un bravo ufficiale ed un’ottima persona: intelligente, serio, alla mano e comprensivo con i sottoposti, amico sincero e compagno allegro e simpatico per i colleghi, era da questi e da quelli assai stimato e benvoluto.

Tuttavia, la sua carriera non era stata, fino a quel momento, delle più felici. Una sorda ostilità delle alte sfere aveva fatto sì che in tutti gli scrutini per la promozione a capitano Calamaris venisse regolarmente scavalcato; così era rimasto tenente per parecchi anni, fino all’arrivo al reggimento del colonnello von Pantano, che lo aveva preso in simpatia. Anche con l’appoggio di von Pantano, comunque, la promozione a capitano non era arrivata lo stesso, però lo avevano fatto sopratenente.

In quel paese, per dare un contentino a quelli che non riuscivano a diventare capitani, usavano farli  sopratenenti, o anche, qualche volta, sottocapitani. Quale fosse poi l’esatto rapporto gerarchico tra sopratenente e sottocapitano, nessuno l’aveva mai capito. Si era dato anche il caso di uno (si chiamava Francesco Saverio Polípoda) che era stato promosso sottosopratenente; ma si trattava effettivamente di un tipo un po’ scombinato.

Quali le ragioni di questo ostracismo ai danni del bravo Calamaris? Lui non aveva dubbi: “Perché non sono un leccapiedi e dico pane al pane e vino al vino senza guardare in faccia nessuno, anche a costo di contraddire i superiori.”

Così si comportava infatti il sopratenente Calamaris: pervaso da un orrore profondo per il servilismo e l’adulazione, condito da una buona dose di orgoglio aristocratico, contraddiceva i superiori pure quando avevano ragione. Contraddiceva anche il colonnello von Pantano, che pure gli aveva dato una mano per la promozione.

Von Pantano però non se ne aveva a male. Anzi, se non era riuscito a farlo diventare capitano, aveva colto l’occasione del trasferimento del capitano Panenka per dargli il comando di una compagnia.

Calamaris gli era riconoscente; ma se appena si veniva ad una discussione, si trattasse di questioni militari o di chiacchiere da caffè, non la faceva buona nemmeno a lui. Affermava così, con questa sistematica ed imparziale contestazione di quello che dicevano i superiori, la propria intransigente dirittura morale e la propria piena indipendenza di opinioni.

Dunque, il sopratenente Calamaris, come abbiamo detto, ogni tanto salvava il nullatenente Colla dal supplizio degli scacchi.

Del resto, era una salvezza relativa; perché quando la partita era finita e il sergente colonnello Barilovich aveva perso, il sergente colonnello Barilovich era idrofobo e intrattabile per tutto il resto della giornata, e se il nullatenente Colla non aveva il modo di prendere le dovute distanze, ne faceva le spese più di qualsiasi altro del battaglione, come abbiamo già avuto occasione di dire.

Tra tutti i suoi colleghi, Colla aveva fatto molta amicizia con il sottotenente Gabrieli, quello che gli era stato presentato dal colonnello proprio la mattina del suo arrivo.

Al contrario di Colla, Gabrieli era ricco di interessi e di qualità: buon giocatore di scacchi e di carte, ottimo cavallerizzo, valente schermitore, dipingeva con mano sicura e delicata sensibilità; era un conversatore colto e piacevole, spigliato e brillante in società; aveva una discreta voce di tenore, e spesso, durante le riunioni mondane, si esibiva dietro calorose richieste degli astanti, accompagnato al piano dal capitano Strumenthal, il maestro della banda, o dalla signorina Adele, la figlia del maggiore Cawalka; del resto era in grado di accompagnarsi benissimo da sé, perché sapeva suonare il pianoforte piuttosto bene. Discuteva di letteratura e di poesia con cognizione di causa e notevole acume critico, e si dilettava lui stesso, a volte, a comporre piacevoli versi. Si interessava di storia e di filosofia; aveva poi una eccellente conoscenza del latino e del greco: da liceale aveva perfino scritto alcuni piccoli lavori filologici che erano stati molto apprezzati e pubblicati su una rivista cittadina, l’“Annuario della Civica Società di Scienze, Lettere e Arti”. Ma aveva anche molta predisposizione per la matematica. Non si era mai occupato a fondo di diritto, ma suo zio, il noto avvocato Gabrieli di Marcoforte, che ne aveva a volte saggiato la disposizione all’argomentare giuridico, gli aveva predetto un luminoso avvenire nel campo della giurisprudenza, se avesse voluto abbracciare quella disciplina.

Il sottotenente Gabrieli però non sembrava prendere troppo sul serio tutte le sue eccezionali virtù.

Colla lo ammirava: senza una punta di invidia, guardava a lui come ad un essere soprannaturale. Se fosse stato più forte in latino, avrebbe potuto ricorrere, per descrivere efficacemente quello che provava, ai versi di Catullo:

Ille mi par esse deo videtur,

   ille, si fas est, superare divos.

Ma Gabrieli si schermiva, scettico più che modesto:

“In fin dei conti, con tutte queste famose cose che so fare, che cosa sono, se non un ufficialetto, esattamente come te?”

“Ma tu sei sottotenente, e farai certamente carriera; io sono soltanto un nullatenente.”

“È sempre la stessa cosa: nullatenente, sottotenente, capitano, generale … è sempre la stessa vuota, inutile stupidaggine. Si gioca, si beve, si va un po’ in giro per i boschi, si fanno gli esercizi sul piazzale, attenti, riposo, per fila sinist … noi non stiamo qua per fare delle cose, facciamo delle cose perché stiamo qua, e se no che ci staremmo a fare? E ti pare che una stella in più o in meno cambi qualcosa, a questo punto?”

“Non dire così” gli diceva Colla, turbato. “Ma è così” rispondeva dolcemente Gabrieli “È così, ma non fartene una croce, non è un problema. Basta saperlo, che è così”.

“Ma allora come è possibile che tu, che sai fare tante cose, tu che sei così bravo in tutto …” “… Non mi sono trovato un mestiere più soddisfacente, invece di stare qua, con la sciabola al fianco, a non fare praticamente niente? Vedi, “gli diceva sorridendo Gabrieli “io so fare tante cose, è vero; troppe, forse. E mi piacciono tutte: questo è il guaio. Avrei potuto fare il filologo: a scuola c’ero piuttosto portato. Forse sarei diventato un professore illustre, magari un accademico del Regno: ma avrei dovuto concentrarmi sulla filologia. E come avrei fatto, allora, a fare tutte le altre cose? A dipingere, per esempio? E io amo la pittura esattamente quanto la filologia. E quanto andare a spasso nei boschi, suonare il pianoforte, tirare di sciabola … E se avessi voluto fare il pittore, avrei dovuto trascurare la filologia, la letteratura, e tante altre cose. Oppure potevo fare il tenore: cantare mi piace. Ma mi piace anche andare a cavallo, giocare a scacchi e dissertare sull’essenza delle cose. Invece, per diventare un professionista serio, avrei dovuto cantare e cantare, cantare molto, cantare sempre. Ma io non ho voglia di cantare sempre; non ho voglia nemmeno di dipingere sempre o di filosofare sempre. Ho voglia di fare tutte le cose, ognuna al suo momento, e in certi momenti non ho voglia di farne nessuna. Così sono un buon dilettante in tutte le cose, ma in nessuna posso essere professionista, perché le amo tutte, e non posso scegliere fra di loro. Nessuna può essere la mia vita, perché in nessuna mi posso esaurire. Così faccio tutto, e non sono nulla”.

Colla lo ascoltava e si sentiva confuso.

Era inconcepibile per lui che il brillante Gabrieli, l’ufficiale più ammirato, più amato, più invidiato della divisione, potesse mettersi sul suo stesso piano; era una cosa che non poteva nemmeno pensare, che Gabrieli potesse essere anche lui un uomo senza senso, un uomo da nulla. E non era così, infatti: checché ne dicesse, Gabrieli era un sottotenente ricco di belle qualità e dalle fulgide prospettive di carriera, e se parlava in quel modo, forse era perché aveva una ulteriore qualità: era saggio e filosofo. Non era certo un mediocre, insulso ed inetto nullatenente come Colla; lui, Colla, sì che era un uomo da nulla.

Era arrivata l’estate.

Il sole dardeggiava, dal cielo azzurro intenso, sui boschi, sui prati, sui campi di Zucalovo. Intenso era l’azzurro del cielo, intenso il verde dei boschi, intenso il giallo del sole dardeggiante. I campi traboccavano di spighe: anche quell’anno, per grazia del cielo, era stato buono. I contadini benedicevano Dio nei loro campi.

Il borgomastro salì alla sottoprefettura per chiedere il concorso delle truppe per la mietitura. Il sottoprefetto mandò un dispaccio al comando di divisione.

Il comandante della divisione firmò l’ordine.

Tutti gli ufficiali, sottufficiali, graduati e militari di truppa della divisione furono consegnati in caserma. Iniziava la campagna d’estate.

Due giorni dopo, ebbero inizio le operazioni. I

l nullatenente di fanteria Francesco Ludovico von Colla aveva condotto il suo plotone nel campo assegnatogli. In un angolo scintillavano al sole le canne dei fucili, appoggiati l’uno all’altro in fasci, vicino agli zaini ammonticchiati, e sorvegliati da una sentinella con l’arma in spalla.

Tutti gli altri avevano posato i fucili e impugnato le falci, e lavoravano in mezzo alle spighe, sparsi per il campo. Il sergente maggiore Tartuffer girava qua e là a controllare il lavoro e ogni tanto gridava qualcosa a qualcuno.

Colla invece se ne stava da una parte, in silenzio, e afferrando le spighe con la sinistra, con la destra tagliava gli steli con la sciabola. In verità, la sciabola non era proprio adatta a questo lavoro: i soldati, con la falce, andavano molto meglio. Ma, falce a parte, si vedeva che i soldati erano molto più a loro agio di Colla in quel lavoro.

Per forza, pensava Colla, i soldati appartengono allo stesso mondo dei contadini, del grano, della campagna, il mondo di fuori – stava quasi per dire: il mondo vero.

Da quel mondo venivano, a quel mondo dovevano tornare. Nell’esercito erano soltanto di passaggio; diciotto mesi e via: una parentesi.

Colla non aveva confidenza coi suoi soldati; quando stava di fronte al plotone schierato sull’attenti, si sentiva addosso i loro occhi che lo guardavano come da un altro pianeta, e avvertiva una sensazione di disagio, come un essere estraneo e diverso. E ora che lavoravano nei campi, i soldati gli sembravano una cosa sola con la campagna, con il giallo intenso del sole e del grano, l’azzurro intenso del cielo, il verde intenso dei prati e dei boschi. Tutto era intenso, in quei campi, e la stessa intensità pareva a Colla di percepire nei soldati, e si sentiva ancora più estraneo e fuori posto.

Lui non era intenso, era scialbo.

Il sole dardeggiava senza posa, senza posa frinivano le cicale, senza posa volteggiavano le farfalle tra i papaveri e i fiordalisi; senza posa lavoravano gli uomini. Colla sudava, soffocato dall’uniforme inappuntabilmente abbottonata.

Gli uomini, invece, chi si era aperto il colletto, chi si era rimboccato le maniche, chi si era addirittura tolto la giubba. Questo non era permesso, ma Colla aveva fatto capire al sergente maggiore Tartuffer che poteva chiudere un occhio. Erano soldati semplici, erano del mondo di fuori, erano solo di passaggio; non erano come lui. Lui sì che doveva vestire la divisa impeccabilmente a norma di regolamento, anche sotto l’intenso dardeggiare del sole d’estate. Per lui aveva senso: quello era il suo mondo. Non era una parentesi, per lui. Aveva la sciabola al fianco e una stella sulle spalline – anche se solo di stagno; era un ufficiale – anche se solo un nullatenente.

Sfortuna volle che quel giorno il sergente colonnello Barilovich avesse perduto una partita a scacchi (lo aveva sfidato il colonnello Frappelius del 12° reggimento, e aveva dovuto giocare per forza), e così era salito in vettura ed era andato ad ispezionare i reparti, animato dalle più feroci intenzioni.

Piombò al comando della compagnia di Colla, che era sistemato in un fienile, trovò cento cose fuori posto, fece su una mezza rivoluzione, tra galline che svolazzavano spaventate e cani che abbaiavano, poi risalì sulla vettura e partì per visitare i singoli plotoni.

Invano il capitano Skihoda tentò di prevenirli dell’arrivo del comandante mandando una staffetta: questa, per non essere vista dal sergente colonnello, dovette fare il giro da un altro lato, e intanto il sergente colonnello Barilovich aveva già raggiunto il plotone del nullatenente Colla, che era proprio il primo sulla sua strada, e il  nullatenente Colla stava già sull’attenti davanti a lui, morto di caldo nella sua divisa impeccabile, ad ascoltare in silenzio, a testa bassa, gli astiosi rabbuffi del superiore per la trasandatezza dei suoi uomini, e l’annuncio di sanzioni disciplinari nei suoi confronti.

Colla subiva lo scaricarsi della tempesta con rassegnazione.

Non poteva dire a Barilovich che per quegli uomini certe regole non avevano senso, perché non erano del loro stesso mondo. Il sergente colonnello non avrebbe capito, e lui, del resto, non avrebbe saputo spiegarlo.

Così taceva.

Dopo tutto, gli arresti non gli dispiacevano troppo.

Dovendo rimanere nel suo alloggio, dopo il servizio, evitava il pericolo che Barilovich lo costringesse a giocare a scacchi.

Spesso poi lo veniva a trovare Gabrieli, così aveva anche un po’ di compagnia.

Se no stava solo. In verità c’era anche Ignazio; il giorno in cui era arrivato, aveva trovato davanti al suo alloggio un soldato, Ignazio appunto, che lo attendeva: era infatti il suo attendente. Ma Ignazio era un soldato, apparteneva alla razza estranea degli uomini del mondo di fuori; Colla si sentiva in imbarazzo davanti a lui, e lo metteva sempre in libertà non appena aveva sbrigato i servizi principali.

Anche se restava solo, comunque, stava sempre meglio che non a giocare a scacchi col sergente colonnello Barilovich; perciò, gli arresti non gli davano troppo fastidio. Lo rattristava, per la verità, il pensiero che ognuna di quelle punizioni gli allontanava sempre di più la possibilità di diventare qualcosa di più che un nullatenente. Ma, in fondo, anche a questo era rassegnato: sapeva che dal nulla non nasce nulla.

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