LA SPINA DEL MARINAIO (5) di Luigi De Luca
V
Il volto del vecchio, sfigurato da rughe che parevano tagli di coltello, inflittegli dal tempo, scavate dalle fatiche. Tratti bianchi sulla pelle nera, resi di tale colore dai miliardi di schizzi di mare, asciugatisi in faccia, lasciando il sale a corrodergli la pelle, resa quasi cuoio, resa quasi indistruttibile.
Con l’aspetto severo, per via delle difficoltà del suo tempo, dall’animo serenissimo invece, reso tale dalla gratitudine nei confronti di ciò che aveva avuto per grazia, per benevolenza di qualcuno o di qualcosa, ma anche grazie al suo ingegno.
La barca, sollevata da 500 metri d’acqua, sinonimo della sua riconoscenza, come se il mare, sollevandolo dalla terra, stesse lentamente conducendolo dal suo alto, tanto simile a lui, parente.
Viaggiava, con la vela rigonfia dal vento, sempre più verso l’alto, sempre più in alto dalla terra, sempre più lontano dalla riva, sempre più lontano dalla sua precedente vita.
E nel cuore?
Nel suo cuore provava il profondo desiderio che quella casa che aveva lasciato, avrebbe in futuro, dato sollievo a qualche altro bisognoso.
Infatti l’aveva lasciata nel miglior modo possibile, con altre canne da pesca, con le bombarde per pescare dalla riva, e nella dispensa, che era un fosso scavato da lui nel pavimento, chili di pesce salato; vasetti di sottaceti di verdure di ogni tipo.
Ebbene sì, aveva prodotto anche l’aceto. Dovremmo ripercorrere tutti gli anni a ritroso per potere vedere con i nostri occhi tutto quel che il suo ingegno era stato in grado di produrre quasi dal niente.
Fortuna sì, ma tanta virtù.
E pensare che tutto quell’estro sarebbe stato di enorme utilità in qualunque ambiente lavorativo, se solo qualcuno l’avesse notato, se solo qualcuno fosse riuscito a trovarlo prima che egli trovasse il mare, o meglio, in altro modo, prima che il mare lo trovasse. Ora nel cuore desiderava solo ricambiare, sperava che quel posto venisse trovato da qualche altro poveretto, da chiunque ne avesse avuto bisogno.
Così, con questi pensieri nel cuore, ma con l’espressione severa, immutabile, come se cuore e cervello non comunicassero, come se i sentimenti non riuscissero in alcun modo a mutare le espressioni di quel volto, così, quasi a sera, giunse più lontano possibile, più in alto possibile.
In quel, muto a suo modo, mare aperto, ovvero, dove non gli era possibile, con il suo sguardo da lince, scorgere nessuna terra. Altre volte era giunto proprio fino a quel punto, solo per mera indole esplorativa, ma questa volta tutto aveva ben altro sapore.
Intanto, il tramonto parziale del sole e il sorgere della luna donavano, a quel luogo di calma assoluta, un colore ancor più simile a lui. Silenzioso era il vecchio, silenzioso era il mare; scuro era il vecchio, scuro era il mare. Due gocce d’acqua.
La barca ormai procedeva lentamente, la fece fermare e legò le vele.
Il mare era di una calma sublime, una quiete totale.
Prese una ciotola metallica con dentro della carbonella che al centro della cenere spenta era ancora incandescente, vi soffiò sopra e scoppiò una debole fiamma che ravvivò con alcuni pezzetti di legno preparati poco prima, poggiò sul vivo fuoco una griglia e su di essa una padella dai bordi rialzati, nella quale riversò, senza pulire nulla, tutto quello che aveva pescato, tre o quattro pescetti e la tracina, aggiunse del pomodoro, del sale, uno spicchio d’aglio, e lasciò che il tutto cuocesse.
Mangiò, seduto sulla punta della prua, con gli occhi rivolti alla grande luna che gli inondava di luce il viso.
Ormai il giorno aveva ceduto lo spazio alla notte, con la fronte vicinissima a un nero cielo punteggiato da uno sciame di lucentissime stelle, dipinte d’argento.
Finita la cena gettò la padella all’indietro senza guardare, e questa finì vicino al timone, vicino a dove aveva governato quel viaggio.
Poi stette lì fermo, seduto sull’angolo della prua, con una gamba a dritta e l’altra a babordo.
Immobile, impassibile, con i piedi nudi ad accarezzare le immobili acque.
Spostava solo gli occhi, dirigendoli un po’ verso l’alto, verso il cielo, e un po’ verso il basso, verso il buio mare, denso come l’olio. Olio nero.
Fece tre respiri profondi, quasi rauchi, e poi “pluf”… cadde in mare a peso morto, come se fosse un pesante masso, ed emise un tonfo che risuonò compatto fin sotto la barca, e pure fin sopra di essa.
Ora stava con la faccia rivolta verso quegli scurissimi abissi, in attesa che gli finisse l’ossigeno nei polmoni, finché, ancora con lo sguardo immutabile, non consumò l’ultima riserva che gli gonfiò le guance, fu questo l’unico suo cambio di espressione.
Si diede così in pasto al mare e ai suoi abitanti.
Un vecchio solo se ne sta,
espulso dalla comunità.
Un sapiente tuttofare,
finì col fare tutto in riva al mare.
Un uomo che per i suoi secondi quarant’anni
visse felice e contento,
solo per il godimento di starsene al mondo.
Lui che ottenne il modo per campare,
finì convinto di dover annegare,
per sua volontà nel bel mezzo di quel mare.
La spina del marinaio è un racconto di Luigi De Luca
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