L’ABITO di Giorgia Spadavecchia (13 anni – terza media)

La luce a neon dello specchio si accese e illuminò il suo viso e i suoi lineamenti delicati.
Si sedette sullo sgabello di pelle nera nella sua stanza scura di via Margutta.

Non era mai stata contenta di vivere in un luogo così trafficato e, per di più, il suo appartamento non era dei migliori.
Non era mai stata contenta di vivere in un luogo così trafficato e, per di più, il suo appartamento non era dei migliori.
Le era stato affittato dal proprietario del bar principale della via quando era arrivata.
La luce del tramonto che penetrava dalla finestra le faceva sembrare tutto più leggero. Riusciva, infatti, a rischiarare il piccolo disimpegno adibito per contenere vestiti e trucchi di cui poteva sicuramente andare fiera.
Era arrivato il momento di prepararsi per affrontare un’altra serata impegnativa.
Si diresse verso l’armadio con le idee chiare e con in mente l’abito perfetto da indossare ma, quando lo aprì, si rese conto che le cose non erano così semplici.
Ogni abito conteneva un ricordo che la faceva tornare indietro nel tempo.
Li aveva acquistati tutti nel suo Paese d’origine, in una commerciale boutique di abiti smessi ed economici.
Ogni centesimo risparmiato per quegli abiti, da indossare solo di nascosto, mamma e papà non avrebbero approvato e avrebbero fatto troppe domande.
Era felice, nonostante le gambe lunghe ma troppo definite che per lei erano sempre state un grande fardello.
Un abito in particolare, però, attirò la sua attenzione, un abito che non metteva da molto tempo e che le era stato regalato per il suo diciottesimo compleanno da un amico speciale.
Peccato che, quello stesso giorno, avrebbe dovuto lasciare lui e tutto quello che la faceva sentire al sicuro per intraprendere il lungo viaggio che l’avrebbe portata in Italia.
Il suo colore rosso fuoco la attirava e si abbinava benissimo alle scarpe nere e al rossetto che metteva in risalto le labbra carnose.
Decise di indossarlo.
Nonostante fosse cresciuta, l’abito le stava perfettamente e tutto il mondo circostante non aveva più nessun potere su di lei. Si sentiva, per la prima volta dopo molto tempo, protetta. Tutti i suoi ricordi e quello che aveva di più caro erano rinchiusi nell’odore di naftalina di quel vestito.
Legato come sempre alla maniglia della porta, la attendeva il suo foulard, silenzioso e accondiscendente come un cane. Lo portava sempre con sé e lo utilizzava per coprire le parti del suo corpo che non era riuscita ad accettare.
Spense le luci, chiuse la porta e cominciò a scendere le scale. Il palazzo era freddo e in penombra, il sole era scomparso facendo posto alla luna. I negozi erano vuoti e le strade quasi deserte. La tristezza cominciava a invadere il suo corpo scacciando via i sogni di amore e di fuga.
Era stanca.
Si sedette sulla sua sedia immersa nel buio e attese tutta la notte. Le macchine le passavano davanti a gran velocità; solo qualcuno prestò attenzione alla sua vulnerabilità e alla sua solitudine.
Un selfie improvvisato per noia le restituì un’immagine riflessa in modo confuso. Il giorno dopo avrebbe avuto parecchio da fare: la barba stava ricrescendo, il foulard probabilmente era troppo piccolo e quelle gambe…
La notte trascorse come tante altre e, quando finalmente cominciarono a vedersi i primi spiragli di luce, era giunto il momento di tornare nell’unico posto lontano dall’umiliazione.
Aprì la porta, tolse le scarpe e si infilò nel letto con il suo stropicciato abito rosso.
Si sentì finalmente al sicuro.
Chiuse gli occhi e spense il giudizio fuori e dentro di sé.

L’abito è un racconto di Giorgia Spadavecchia

(13 anni – terza media)

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