L’ARCANO PROFONDO di Mario Filocca (seconda parte)
genere: THRILLER
Capitolo sei
La mattina successiva Anna, la segretaria di Emma, non si dette pensiero al fatto che la dottoressa non fosse arrivata in ufficio, se non per il fatto che non l’aveva avvisata come faceva sempre. La mattina successiva ancora Emma non si presentò ed allora Anna telefonò a Gianni:
«Buongiorno signor Gianni. Questa mattina la dottoressa Emma non è venuta in ufficio e neppure ieri. Il fatto è che non ha neppure avvisato e non risponde al telefono. Lei ne sa qualcosa?»
«No. L’ho vista l’altro ieri al golf e mi è sembrata come sempre.»
«Pensa che dobbiamo preoccuparci?»
«Ora cerco di chiamarla io e ti faccio sapere.»
Il telefonino suonava a vuoto.
«Anna, al telefono non risponde. Provo a passare da casa sua e poi ci sentiamo.»
Gianni, lasciato il suo studio, passò a casa di Emma: l’appartamento al terzo piano di una palazzina pretenziosa era normalmente chiuso a chiave e sembrava non ci fosse nessuno.
Scese dal portinaio:
«Signor Arturo, ha visto recentemente la dottoressa Lee?»
«Non vedo la dottoressa Emma da due o tre giorni.»
«Sono salito, ma il suo appartamento è chiuso a chiave e nessuno risponde. Non vorrei che le sia successo qualcosa, che non stia bene.»
«Vuole che proviamo ad entrare? Io ho tutte le chiavi degli appartamenti.»
«Sì, la ringrazio.»
La casa era in ordine, Emma non c’era.
Mentre si avviava verso casa Gianni passò in rassegna le possibilità:
“Partita per andata a trovare sua mamma? Non ci sarebbe rimasta per due o tre giorni.”
“Un appuntamento di lavoro in località lontana? In ufficio ne sarebbero al corrente: la segretaria, quell’Anna, tiene l’elenco di tutti i suoi impegni e appuntamenti”.
“Fuggita con un nuovo uomo, pazza di lui?” Gianni non volle neanche prendere in considerazione la possibilità.
Escluse queste normali possibilità ed altre analoghe, rimanevano solo ipotesi preoccupanti cui Gianni non voleva pensare.
Cosa fare?
Gianni concluse che quando Emma fosse rientrata gliene avrebbe dette quattro: “non si fa così, ci hai fatto preoccupare!”
E se invece domani non si fa viva?
“Domani chiamerò Gerardo, l’amico del golf: è un detective privato e dovrebbe conoscere queste situazioni, può darci un consiglio.”
Capitolo sette
Gianni chiamò l’amico del golf, Gerardo Corti investigatore privato.
«Ciao Gerardo, tutto bene? Ti devo chiedere un consiglio per una situazione che non riesco a capire. Da tre giorni Emma non si fa trovare, non risponde al telefono e non va in ufficio. Non so cosa pensare.»
«Avete litigato?»
«No. L’ultima volta che l’ho vista è stato al golf, c’eri anche tu.»
«In ufficio non sanno niente?»
«No. Dicono che di solito avvisa quando non si presenta perché è impegnata altrove; ma questa volta la segretaria dice che non si è fatta viva.»
«Hai provato a casa sua?»
«Sì, ci sono stato, sono pure entrato nel suo appartamento con l’aiuto del portinaio: l’appartamento è normalmente in ordine, ma di lei nessuna traccia.»
«Dove può essere andata?»
«Non ne ho la più pallida idea.»
«Certo è tutto molto strano. Vedrai che presto o tardi tornerà e tutto si accomoderà. Però…»
«Però cosa?»
«Se oggi ancora non compare bisogna andare alla polizia.»
«Alla polizia, addirittura?»
«Alla polizia per la denuncia di persona scomparsa.»
Come accade spesso noi tendiamo a non voler mettere a fuoco delle situazioni che sappiamo poter essere preoccupanti: è una forma di difesa dalle negatività che la nostra mente costruisce a nostra protezione. Poi però le situazioni permangono ed allora pian piano iniziamo a considerarle e non possiamo più trascurarle. Gianni incominciò a rendersi conto della rilevanza della situazione che si era creata: la scomparsa di Emma forse era un fatto grave che poteva significare di tutto, anche cose allarmanti. Per tutto il giorno Gianni fu preso dal pensiero e prima di sera telefonò a Gerardo chiedendogli se la mattina successiva lo poteva accompagnare alla polizia per denunciare l’accaduto.
Capitolo otto
Era in cucina: Gerardo detective privato finì di bere il sesto Gin Tonic e andò al lavandino a lavare il bicchiere. Era il suo bicchiere preferito, ultimo rimasto di una terna di bicchieri in vetro colorato che due anni prima Adelaide gli aveva regalato in occasione del compleanno. Lo trattava con particolare riguardo perché era rimasto solo quello: degli altri uno gli era caduto e l’altro l’aveva rotto la donna che veniva a fare le pulizie due giorni la settimana.
Lo asciugò e lo mise con cura nella piccola scatola blu, la confezione in cui gli era stato regalato, nella quale ormai due posti erano vuoti.
Si soffermò lungamente a guardare i due posti vuoti, poi la scritta sulla confezione, poi l’angolo della dispensa dove li stava riponendo: sperava di distrarre la mente e di indurla ad allontanare i pensieri che l’avevano portato a bersi mezza bottiglia di gin. Ma era tutto inutile perché poi il demone, dopo l’ennesima giornata insignificante che aveva vissuto, tornava e lo aggrediva con le sue domande.
Da piccolo avrebbe voluto fare lo scrittore: per lui uno scrittore era un qualcosa di eccelso, etereo, inarrivabile, una entità quasi astratta che metteva nei libri un mare di cose sconosciute che la gente beveva estasiata. Proprio questa inarrivabilità, questa estraneità alla vita degli uomini comuni eccitavano la sua fantasia: anche lui voleva raggiungere l’inarrivabile e diventare famoso.
A diciotto anni finì invece col lavorare nello studio paterno di investigazioni private.
“Cosa hai fatto oggi? Cosa farai domani? Chi sei Gerardo?”: quella sera se lo domandava.
“Qualcuno sospetta l’infedeltà della moglie ed io devo investigare. Una ditta teme la fuga del back ground ed io devo scoprire il colpevole. Un ragazzo è fuggito da casa ed io devo ritrovarlo: che senso ha tutto questo? Quale è il senso della mia vita?”
“Cosa vorrei fare se mi fosse consentito scegliere?”
La domanda che si poneva guardando il bicchiere pieno rimaneva senza risposta anche quando il bicchiere era vuoto: quella sera se l’era posta sei volte e sei volte il bicchiere era rimasto vuoto e la domanda senza risposta.
“L’unica cosa che ha un senso l’ho fatta ieri”.
Eppure, Gerardo aveva incontrato il successo nel suo lavoro, prima come Ispettore di polizia, poi nella attività di investigatore privato, cui si era dedicato sfruttando l’esperienza fatta nello studio del padre. Si era creato la fama di essere un investigatore di successo al punto che, miracolo del passaparola, lo cercavano spesso e lo pregavano di accettare l’incarico, perché dicevano: “Lei è l’unico che può risolvere il mio problema”.
Più che fare come tutti i suoi colleghi Gerardo aveva un metodo suo: invece che dedicarsi a raccogliere elementi con cui imbastire delle ipotesi lui, per prima cosa, voleva conoscere da vicino le persone connesse alla ricerca; così, se si fosse trattato di controllare una moglie infedele e scovare il suo presunto amante, per prima cosa l’ avrebbe seguita nei suoi spostamenti per quasi tutta una giornata: poteva così farsi un’idea di che tipo lei fosse, quali i suoi interessi, i suoi pensieri, i suoi aneliti, i suoi desideri, le sue manie. Mettendola in relazione col marito committente riusciva così a individuare le ragioni, spesso profonde, che avevano portato al tradimento.
“L’unica cosa che ha un senso l’ho fatta ieri” si ripeteva quella sera, perché il giorno prima era successo quello che in tanti anni di professione ancora non era successo.
Il Green Golf Country Club era frequentato da persone di tutti i tipi: molti erano i soci boriosi che esternavano un alto livello economico, vero o presunto che fosse. A Francesca, che lavorava in segreteria, costoro erano antipatici perché la trattavano con superiorità, come se lei fosse un’inferiore. Gerardo Corti invece era nelle sue simpatie perché era sempre sorridente e con lei aveva un rapporto alla pari, cioè normale. “E’ sempre meglio avere con la gente un rapporto simpatico, si può averne bisogno” pensava Gerardo.
«Bellissima Francesca, mi serve un piacere.»
«Dica signor Corti.»
«Vorrei essere inserito nella partenza delle 13 e 50.»
Francesca consulta il foglio delle partenze:
«Il gruppo delle 13 e 50 è già completo, ma non ho problemi ad inserirla al posto del signor Miller da cui non ho ancora avuto conferma.
Gerardo parte dalla buca uno con una squadra di donne: una delle tre è Giovanna. Il marito di Giovanna, uno dei boriosi pieni di soldi, l’aveva incaricato di investigare sulla moglie.»
«Le costerà una bella cifra se vuole un’indagine completa di foto, registrazioni, ecc.»
«Non ci sono problemi; mi farà il conto.»
Una partita di golf, diciotto buche, dura circa quattro ore e mezza e c’era tutto il tempo per far parlare Giovanna e conoscere la sua personalità.
Alla buca dieci Gerardo va all’attacco: per estorcere confidenze non c’è niente di meglio che approcciare la persona esternando le proprie
«Sa Giovanna che nel mio mestiere incontro tante situazioni di coppia che talvolta mi lasciano perplesso?»
«Davvero? Ad esempio?»
«Non posso dirle niente di preciso perché nel nostro lavoro siamo tenuti alla segretezza, ma spesso si incontrano situazioni nelle quali la donna è trattata senza alcun rispetto dal marito.»
«Non credo sia un caso poco frequente.»
La conversazione era cominciata così e prima che si arrivasse sul tee della buca 13 già Gerardo sapeva quello che doveva sapere su Giovanna e sul suo rapporto col marito.
“Non ce la faccio più: ieri ancora mio marito mi ha urlato contro. Non gli basta che io badi alla casa, ai figli, non gli basta che io lavori – lavoro più di lui- nella nostra azienda familiare. Quasi tutti i giorni si rivolge a me rabbioso per rimproverarmi piccole imperfezioni sul lavoro, vere o presunte; quasi ogni giorno si lamenta di me con atteggiamento duro ed ostile.
Si è dimenticato totalmente che io sono donna ed io mi sono completamente disamorata di lui. Per anni ho scusato i suoi comportamenti sapendo delle sue delusioni, delle sue amarezze, sapendo che io ero il suo parafulmini e che scaricava su di me delusioni ed amarezze derivate dai suoi sogni malamente tramontati. Lui però non ha mai avuto un pentimento, non c’è mai stato uno scusarsi per il suo atteggiamento che sarebbe stato più che doveroso.
Non mi peserebbe tanto la fatica di ogni giorno, cui sono stata abituata fin da piccola, se non mi arrivassero in cambio solo urli di rimprovero: è la cosa più insopportabile”.
Fin qui era stato facile raccogliere lo sfogo di Giovanna, ma Gerardo voleva sapere dell’infedeltà:
Gerardo:
«In questi casi talvolta si sente l’esigenza di avere un amico che ci comprenda.»
Giovanna:
«È vero: per questo, per estraniarmi dalla realtà, una sera sono andata sul web ed ho incontrato Marco. È stato uno squarcio di sereno nel cielo tempestoso.
Ad un primo felice fantasticare ha fatto seguito il sospetto che anche lui si rivelasse come altri uomini che avevo conosciuto, quelli più comuni, quelli che ti fanno la corte con l’unico obbiettivo di averti nel letto.
Non è stato e non è così: io con lui sfogo tutte le mie amarezze e lui mi sta ad ascoltare senza interrompermi, anche se a volte esagero.»
Gerardo quella sera, dopo aver riascoltato sul registratore lo sfogo che buca per buca Giovanna gli aveva riversato addosso, telefonò al marito per dirgli che rinunciava all’incarico perché proprio non aveva tempo. Gerardo stava dalla parte di Giovanna, aveva valutato che lei avesse mille ragioni per tradire quel borioso marito e non voleva certo essere lui a mettersi di mezzo: ogni persona ha bisogno di un po’ di aria pura e Giovanna se la stava cercando per sopravvivere.
Gerardo si diceva che per una volta avesse fatto la cosa giusta perché anziché agire da investigatore aveva agito da uomo.
Quando Gianni lo chiamò per dirgli che Emma era scomparsa Gerardo non ebbe dubbi: “salvare un’amica, questo ha un senso”
Capitolo nove
Emma, tutta nuda come si era trovata con la mano ammanettata alla spalliera del letto, era riuscita a scivolare sotto il lenzuolo che in qualche modo sentiva comunque come una pur labile protezione.
Dopo alcuni minuti, frastornata dalle vicende in cui era incappata, era piombata in una incerta sonnolenza popolata da mille fantasmi.
Non era lucida, ma neppure del tutto incosciente: attorno un silenzio fragoroso stipato di suoni inesistenti, di musiche mute, del rumore del vuoto. Nell’aria un odore di pulito lasciato dal Deo Mix con cui da poco dovevano essere stati puliti i pavimenti.
Riviveva più volte, come in un sogno, il momento in cui aveva aspirato il cloroformio e sentito il contatto di quella mano ostile che la sorreggeva mentre si accasciava. Nel dormiveglia il volto del rapitore, che non aveva visto, le era comparso davanti sogghignante e le aveva rivolto a voce alterata spaventosi monosillabi che non capiva.
Rimase in questo stato, momenti di lucidità alternati a brevi periodi di sonno cupo, fino all’alba quando le prime luci che entravano dalla finestrina a soffitto la riportarono alla realtà:
Apri gli occhi, guarda la realtà attorno a te, decidi cosa fare.
Qualcosa le impediva di aprire gli occhi che le avrebbero rivelato la realtà di una prigionia esposta ad eventi inimmaginabili. Non provava panico, ma paura sì e rabbia, tanta rabbia, contro cosa e contro chi non lo sapeva.
Dischiuse prima a fatica una piccola fessura del campo visivo e quasi subito si decise ad aprirli del tutto. Si sedette sul letto, appoggiata alla spalliera cui era vincolata con il braccio sinistro, e cercò di mettere a fuoco la situazione.
Si guardò in giro: la sera prima non aveva visto la sedia alla sua destra dove stavano piegati con cura i suoi vestiti. Il rapitore si era disturbato a piegarli con cura,
Non farti prendere dal panico, sei una donna forte.
Emma sentì palesarsi dentro di sé una forza sconosciuta; è quella forza che sta nascosta nel profondo e che non sappiamo di avere, ma emerge improvvisamente nei momenti difficili della nostra vita: in quei momenti drammatici è lei che ci salva. L’avrebbe salvata questa volta?
“Certo, sono una donna forte, ho vinto tante battaglie per arrivare alla presidenza della società; un percorso difficile, reso più difficile dal fatto di essere donna e di dover lottare contro la corrente mentalità maschilista che non accetta una donna in posti di alta dirigenza.”
Puoi confidare solo in te e nella tua forza.
Ora la sua mente si era messa a ragionare: ogni volta che, nel lavoro come nella vita, aveva dovuto affrontare una situazione difficile si era sempre costruito due possibilità, cioè una soluzione ed il piano B.
Il piano di fuggire da quella prigione si presentava al momento poco praticabile, a meno che il suo rapitore nel proseguo della prigionia si fosse lasciato andare a qualche palese errore.
Il piano B: “se il riscatto che chiederà sarà accettabile tanto vale fargli avere i soldi ed uscire del tutto dalla drammatica situazione in cui mi trovo”. Emma, fra contanti, titoli e fondi in cui aveva investito, possedeva una piccola fortuna: bastava riuscire a svincolare gli importi richiesti e Gianni, su sua indicazione, sarebbe riuscito a farlo.
C’era però qualcosa che non quadrava, non tutto era chiaro: se la finalità del sequestro era chiedere un riscatto, fatto certo plausibile per la sua consistenza economica, perché lasciarla completamente nuda sul letto? E poi quei vestiti piegati con tanta cura cosa potevano significare?
“In ogni caso, in un modo o nell’altro, risolveremo anche questo”: così si disse Emma, ma non ne era del tutto convinta.
Questi pensieri stavano passando per la sua mente quando si percepì un cigolio metallico che feriva le orecchie abituate al silenzio surreale di quel locale. E’ lo stridio che riduce la difesa del Pokémon avversario di due livelli, pensò Emma.
Lo spioncino della porta rossa si era aperto e da fuori un occhio blu scrutava l’interno.
Capitolo dieci
A Franco B. mancavano pochi mesi per andare in pensione. Aveva passato una vita dietro alle scartoffie della centrale di polizia; da giovane era stato operativo sul campo, ma dopo due anni lo avevano messo dietro la scrivania e lì ci era rimasto. Non è che rimpiangesse di non aver potuto fare l’eroe: dietro la scrivania non correva rischi, poteva pensare ai fatti suoi e spettegolare sulle vicende dei colleghi.
Naturalmente, come tutti, si ricordava del brillante investigatore Gerardo Corti che aveva lasciato il dipartimento.
«Ciao Franco.»
«Ciao Gerardo. Bello rivederti.»
«Come butta?»
«Come butta a te; starai guadagnando un mucchio di soldi, non come noi che dobbiamo essere sempre sul pezzo e che ci dobbiamo accontentare della briciole.»
«Ogni professione ha i lati positivi e quelli negativi. Ti presento l’amico Gianni Sambruna.»
Franco non si scompose neppure per dire un laconico “Piacere”.
«Siamo qui per denunciare la scomparsa di una comune amica, Emma Lee, la presidentessa della Software Custom, una società che tratta informatica.»
«Da quanto tempo è scomparsa?»
«Da tre giorni.»
«E tu dopo solo tre giorni vieni già a sporgere denuncia? Saprai che abbiamo un mucchio di lavoro qui con le persone scomparse.»
«Chi si occupa delle persone scomparse?»
«Siamo io ed Ettore C., ma oggi lui è fuori. Quando c’eri tu non lo avevamo ancora, ma ora abbiamo un locale apposta. Vieni.»
Franco li accompagnò lungo il corridoio e li fece entrare in uno stanzino non più grande di un tre per tre. Un tavolo mal messo, una sedia traballante e sulle pareti tante fotografie.
«Vedi queste? Sono tutti scomparsi nell’ultimo anno ed ancora non sono stati ritrovati. Passato un anno li rimuoviamo.»
C’erano foto di uomini e donne, alcune belle donne, molti anziani, ma anche bambini. Persone di ogni età, sesso, colore della pelle: scomparire era un vero fatto democratico, non si facevano differenze. Molti erano sorridenti e a Gianni la cosa fece senso, perché la foto li ritraeva in un momento felice mentre ora chissà dov’erano.
«E voi cosa fate?» chiese Gianni
«Dopo la denuncia interessiamo chi di competenza e iniziamo le indagini: i soliti problemi con la famiglia che vuole interferire, che sollecita, le solite richieste. Talvolta poi il soggetto ritorna e noi abbiamo perso tempo per niente.»
Gerardo non si staccava da quelle fotografie appese chissà da quanto tempo su quella parete: sentiva su di sé lo sguardo di tutte quelle persone che gli dicevano: ”Dai Gerardo, fai qualcosa anche per me, cercami, Hai visto come sorridevo, come ero felice? Fammi tornare così.” Poi si scosse e pensò al fatto contingente: era lì per ottenere qualche promessa da Franco, in fondo erano stati colleghi:
«Puoi dedicare una attenzione particolare al il mio caso?» intervenne Gerardo.
«Certo, volentieri, nei limiti del possibile. Incomincia a compilare la domanda con la foto sul modulo FN203.»
«Già fatto: eccola.»
L’agente la esaminò con cura, chiese che venissero fatte alcune specifiche nelle note e barrate due caselle lasciate vuote.
«Bene, ora provvedo a diffondere il modulo a chi di dovere.»
«Passerai la foto alla TV perché la diffonda?»
«Ora, dopo appena tre giorni? E poi dobbiamo prima avere l’autorizzazione del Commissariato per le Persone Scomparse, ammesso che ce la dia.»
«Franco…»
«Sta tranquillo, faremo il possibile.»
Appena usciti Gianni:
«C’è qualche speranza che facciano qualcosa?»
«Non possiamo aspettarci gran che da quell’imbecille, Faranno quello che il protocollo esige, ma i primi giorni non ci possiamo aspettare nulla.»
«Ma noi non possiamo aspettare, chissà cosa le è successo.»
«Certo.»
«Gerardo, puoi interessarti tu del caso? Professionalmente intendo. Sai che non ci sono problemi con i soldi.»
Gerardo aveva già deciso di andare a fondo in quel caso che si presentava alquanto particolare e coinvolgente: per la cara amica Emma l’avrebbe fatto anche gratuitamente.
«OK, accetto l’incarico. Oggi stesso telefono ad un contatto che ho in TV.»
Gerardo sperava di riuscire a far comparire la foto di Emma in TV chiedendo che si faccia vivo chi abbia visto qualcosa.
“Potrebbe essere un buon inizio: non saprei da dove partire altrimenti.”
Capitolo undici
La voce parlava lentamente, con toni bassi, dallo spioncino della porta rossa:
«Buongiorno Emma.»
Attese qualche attimo, ma da Emma nessuna risposta.
«Buongiorno Emma, Sono venuto a portarti la colazione. Fra poco entrerò, ma prima devi fare due cose.
La prima: nel secondo cassetto del comodino di sinistra ci sono delle chiavi; prendile e liberati dalla manetta che ti tiene avvinta alla spalliera; dovresti farcela.»
La seconda: nello stesso cassetto c’è una benda nera; legala sugli occhi per non vedere: è tuo interesse legarla bene perché, se vedrai la mia faccia…tu lo capisci…ti dovrò uccidere.
Quando avrai fatto io entrerò con caffè, fette biscottate, marmellata di mirtilli bio, spremuta d’arancia mista a limone.»
“Almeno non mi uccide subito” fu l’unica frase che passò per la mente di Emma. Non le sfuggì l’accenno alla prima colazione del tutto simile a quella che prendeva ogni mattina. Due pensieri di diverso tenore si accavallarono: da quanto tempo non mangiava e che ne sapeva lui di cosa mangiava appena sveglia?
Finito di legarsi la benda nera sugli occhi sentì il cigolio della porta che si apriva: quel cigolio scese nel suo animo, tagliando a fette il residuo di tranquillità che aveva conservato e rimestando le emozioni che si era impegnata a proteggere.
Lo sentì muoversi per il locale a passi lenti, sentì che trascinava vicino a lei il tavolinetto che aveva notato in un angolo del locale.
«Ti metto anche una tovaglietta.»
Sulla tovaglietta lui posò quello che aveva portato.
Il profumo del caffè caldo – doveva essere Nespresso – era buono e stranamente la rincuorò: può dunque un aroma di caffè, per quanto piacevole all’olfatto, rincuorare una donna rapita e lasciata nuda sul letto, prigioniera di non si sa chi, in attesa di eventi che potevano essere anche sevizie, forse anche in balia di oscenità e perversioni? Nella sua assurda lucidità Emma pensò che questa dell’aroma di un certo caffè cui non si resiste potesse essere un’idea vincente per una campagna pubblicitaria.
«Ora me ne vado e ti lascio mangiare in pace.»
Solo allora Emma aprì bocca: desiderava troppo sapere a cosa sarebbe andata incontro, cosa sarebbe successo.
«Quanto chiederai per il riscatto? Io ho delle disponibilità, ma mi devi lasciare quanto mi serve per vivere. Ci vorrà del tempo perché ho quasi tutti i soldi investiti e dovremo considerare i tempi tecnici per disinvestirli. Mi potrà aiutare un amico che, su mia indicazione, potrà dare disposizione alle banche per ogni adempimento: gli ho fatto mettere la firma disgiunta per ripararmi da ogni evenienza. Ne potrai entrare in possesso come vuoi tu, dove e quando vorrai. Voglio finirla subito e tornare alla mia vita, dal momento che già ora mi sento male e non so come reggere fino a domani, col fisico a pezzi e la mente svuotata. Quanto vuoi?»
Emma rimase in attesa della risposta.
Passò quasi un minuto, un lunghissimo minuto di silenzio nel quale Emma non ebbe il coraggio di ripetere la domanda.
Poi Emma sentì dei passi che si allontanavano, sentì il cigolio della porta che si apriva, sentì il cigolio della porta che si chiudeva; ora poteva strapparsi la benda e guardare verso la porta rossa: l’occhio azzurro la guardava dallo spioncino.
Attutita ma comprensibile, in un tono tranquillo che le produsse un incontrollabile brivido, prima che lo spioncino si chiudesse sentì la sua voce:
«Ma io non voglio un riscatto.»
Capitolo dodici
Guardare la televisione mentre si cena non è una buona norma: la cena, dicono gli psicologi, è uno dei pochi momenti in cui i membri della famiglia possono comunicare e la tv accesa lo impedisce.
I Cattani trasgredivano tale norma.
«Mangia la bistecca Leonardo, non hai quasi mangiato niente.»
Leonardo stava cenando con mamma e papà.
«Ancora un’altra? E proprio nella nostra città!» Adele, la madre di Leonardo, commentò ad alta voce la notizia che stavano trasmettendo dalla TV accesa.
Un’altra persona è scomparsa: si tratta di Emma Lee,
presidentessa della Software Custom S.p.A. quotata in borsa.
Da mercoledì pomeriggio, quando stava rientrando a casa, si sono perse le sue tracce.
Chiunque abbia visto qualcosa è pregato di farsi vivo telefonando alla nostra redazione o direttamente alla polizia.
Quella frase “mentre stava rientrando a casa” l’aveva fatta mettere Gerardo perché l’annuncio avesse un maggior rilievo, ma nessuno la poteva confermare.
Leonardo sobbalzò:
«Cosa hanno detto?»
«Hanno detto che proprio nella nostra città c’è stato un altro rapimento.»
«Quando?
«Mercoledì pomeriggio.»
«Ma forse Mattia l’ha visto.»
«Cosa dici? Mattia?»
«Sì, mentre giocavamo a palla nel campo dell’oratorio.»
«E tu non l’hai visto?»
«No. Mattia è andato a prendere la palla finita vicino alla strada e proprio lì ha visto un uomo che tramortiva una donna, la metteva in auto e poi se la filava velocemente.»
«Ne sei sicuro?»
«Me l’ha detto Mattia quando è tornato in campo con la palla… era piuttosto spaventato.»
Adele rimase zitta per alcuni secondi e poi rivolta al marito:
«Dobbiamo subito dirlo alla mamma di Mattia: la sua testimonianza potrebbe essere utile alle indagini. Ora le telefono.»
Giselle aveva risposto subito al telefono:
«Ciao, sono Adele, la mamma di Leonardo.»
«Ciao cara Adele.»
«Come va?»
«Solito. C’è qualcosa che riguarda i nostri figli?»
«No, stai tranquilla…anzi sì. Hai sentito della scomparsa di quella donna? Ne ha parlato anche la TV proprio adesso.»
«Ho sentito, un fatto inquietante.»
«Ebbene sembra che i nostri figli abbiano visto tutto, anzi si tratta di tuo figlio Mattia.»
«Cioè?»
«Stavano giocando sul campetto di calcio dell’oratorio quando Mattia si è allontanato per recuperare una palla finita lontano, nell’erba alta verso strada. In quel momento ha visto un uomo bloccare la donna che passeggiava sul marciapiede, l’ha spinta in macchina ed è partito a tutta velocità: sembra un sequestro.»
«Mattia non me ne ha parlato.»
«Credimi, è andata così. Mentre ora stavamo seguendo i programmi televisivi hanno interrotto per dare questa notizia e chiedere a chiunque abbia visto qualcosa di farsi vivo alla polizia. Leonardo mi ha confermato quello che ti ho detto.»
«Mi stai dicendo che dovremmo andare alla polizia a riferire quello che i ragazzi hanno visto?»
«Proprio così: una testimonianza, per quanto limitata, può essere di aiuto alle indagini.»
Passò qualche secondo di silenzio, poi Giselle riprese:
«Testimoniare su un fatto criminoso non è un fatto da poco: ci sono conseguenze consistenti, anche imprevedibili. Per non parlare del fatto che Mattia è già un bambino fragile e non so come potrebbe reggere un tale ruolo. Leonardo cosa dice?»
«Lui è d’accordo che non si può far finta di niente, ma Leonardo non ha visto la scena: ne sa perché Mattia gliel’ha raccontata al suo rientro sul campo con la palla.»
«Adele, mi hai investito di un bel problema. Non so se …inoltre Mattia ha anche un padre e, come minimo, ne devo parlare prima con lui. Lasciami pensare.»
«Pensaci pure, però sai anche tu che in questi casi più passa il tempo peggio è.»
«Ti richiamo, ciao Adele.»
Capitolo tredici
Danilo era il classico uomo che piaceva: alto, abbronzato, fisico da palestra, sapeva parlare alle donne che con lui si sentivano regine. A chi gli chiedeva della sua professione rispondeva che era un ricercatore, una professione che faceva sempre colpo come il giornalista, lo scrittore o l’architetto. Nessuno però era mai riuscito a sapere cosa ricercasse, neppure lui lo sapeva, o meglio, sapeva di ricercare una donna bella e soprattutto ricca da sposare.
Giselle era tanto giovane e se ne innamorò subito; si sposarono in municipio con pochi invitati.
Fecero un figlio: Mattia.
I primi anni lei dovette chiudere più volte gli occhi: il profondo del suo animo non voleva che il sogno svanisse. Poi dovette arrendersi all’evidenza: Danilo era un impenitente donnaiolo.
Giselle aveva cercato di non mettere a fuoco il suo rapporto con Martina, la sua più cara amica. Altre donne si susseguirono, fino al giorno in cui ebbe il coraggio di affrontarlo; lui disse che non c’era niente di importante fra lui e quelle donne e per qualche mese ancora lei volle credergli: in effetti forse era vero che non ci fosse nulla di importante, eccetto il fatto che se le portava tutte a letto.
Una sera lo aspettò fino alle tre: al primo bicchierino si disse che voleva delle spiegazioni, al secondo che lui gliele doveva, al terzo che nessuna spiegazione sarebbe bastata, al quarto bicchierino di vodka alla fragola concluse che quando fosse rientrato lo avrebbe schiaffeggiato: invece fu lui a schiaffeggiarla, lo fece pesantemente e da allora continuò a farlo ogni volta che percepiva in lei un pur minimo desiderio di rivalsa.
Giselle fece un corso on line di difesa personale, rimasto fine a sé stesso; tentò più volte di chiamare il telefono rosa, ma si sentiva sollevata quando rispondeva occupato. Doveva denunciarlo, ma aveva paura a farlo.
Quando lui, curiosando sul telefonino, si accorse che lei corrispondeva con un certo Eugenio “sei una puttana” fu l’ultima frase che le rivolse uscendo per sempre da quella casa e non facendo più ritorno.
Lei non chiese mai la separazione: le andava bene interessarsi di Mattia in tutto e per tutto senza che il padre ci mettesse il becco; né di Mattia il padre mai si occupò.
In questo caso però Giselle non poteva evitare di parlargli, perché non se la sentiva di prendere da sola la decisione di far assumere a Mattia, il suo bimbo così insicuro ed indifeso, il ruolo di testimone in un fatto criminoso di tale portata.
Giselle avrebbe preferitoqualunque altra cosa piuttosto che doversi incontrare col suo ex marito: gli aveva telefonato tre volte, ma lui non aveva mai risposto; quindi doveva andare da lui alla casa della sua nuova compagna dove ora viveva. Il fatto le metteva ansia.
Il quartiere semicentrale era del tutto amorfo: molti negozi erano già chiusi e la gente che entrava nei ristoranti non sorrideva. Dalla fontana al centro della piazza si diffondeva il gorgoglio dell’acqua, che sarebbe stato una nota romantica se il suo suono non fosse sopraffatto dal rumore fastidioso dei motori in transito. Due bambini si rincorrevano, una coppia stava rientrando a casa, uno spacciatore stava appoggiato ad una colonna del porticato che contornava su due lati la piazza.
Giselle si guardava in giro e non vedeva l’ora di concludere quel colloquio col marito e di rientrare nello spazio ovattato di casa sua; aveva la sensazione che qualcuno la seguisse, ma girandosi due volte non aveva messo a fuoco nessun soggetto infido.
Bussando al primo piano di una palazzina gialla venne ad aprirle una donna più giovane di lei, coi capelli tinti di blu e lo sguardo ostile.
«Cosa ci fa qui, cosa desidera?»
«Devo parlare con mio marito. Sono…»
«So benissimo chi è lei. Non so se Danilo vorrà parlarle: ora non può venire, sta facendo la doccia.»
«Io ho l’assoluta necessità di parlargli.»
«Assoluta necessità: cosa c’è di tanto urgente?»
«Si tratta di nostro figlio. Glielo vada a dire. Posso entrare intanto?»
Ma già la porta si era chiusa. Giselle non sapeva se aspettare o tornare a bussare:
passarono due o tre minuti prima che la porta si riaprisse.
«Ciao Danilo.»
«Cosa vuoi? Qual è il problema tanto importante?»
«Nostro figlio.»
«Cosa ha combinato questa volta?»
«Niente, non ha combinato niente. Solo che ha assistito ad un fatto criminoso, ad un
rapimento, e sono venuta a domandarti se sei d’accordo che si vada alla polizia per la
testimonianza.»
«Alla polizia? Ma sei matta? Da quelli è meglio stare sempre lontani; ci mettono poco a
crearci un mucchio di guai.»
«Ma è solo una testimonianza.»
«La testimonianza di un bambino non vale nulla: chissà quante domande gli faranno e
Mattia, che non è certo super sveglio, si ficcherà in un mucchio di guai e con lui noi.»
«Sta a loro stabilire se quello che dirà Mattia servirà oppure no.»
«Senti Giselle: nella vita ci sono già tanti problemi: non andiamo a prenderne degli altri che
proprio non ci competono. Il mio parere è un NO grande come una casa. Hai capito bene?»
Detto questo Danilo chiuse la porta sul muso della moglie.
Giselle non riuscì a trattenersi: le sentì salire ed uscire dagli occhi senza che potesse farci niente. Piangeva e lo faceva silenziosamente perché non voleva che quell’uomo odioso percepisse quel suo momento di debolezza.
“Ora che faccio?”
Capitolo quattordici
Quando il quinto passo ovattato in dissolvenza si perse nel nulla tornò nel locale grigio quell’odioso silenzio che le stringeva il cuore come una morsa d’acciaio.
Le pareva di sentire ancora quella voce orribilmente tranquilla che le diceva: “ma io non voglio un riscatto.”: sei parole, sei sole parole che le aprivano il baratro dove stava sempre più esiliato il suo futuro. Quale futuro? Cosa la aspettava nei prossimi giorni, cosa nel breve e lungo periodo? Cosa le avrebbe fatto di male quello spaventoso individuo che sembrava conoscere tanto di lei?
Guardò la colazione disposta in bell’ordine sulla tovaglietta gialla con disegni bianchi e blu: non mangiava dal giorno precedente ma non aveva fame.
Si alzò stancamente ed andò in bagno: seduta sul water guardava lo specchio inserito in una cornice dorata – certamente comperato in un qualunque brico – le mensole su cui erano disposti sapone liquido e due bicchieri di plastica con dentifricio, spazzolino, scovolini per i denti; c’era persino una crema depilatoria. Nella doccia si intravvedevano bagnoschiuma e shampoo naturale alle erbe, nella marca che usava lei.
I tre asciugamani di diversa dimensione erano verdi con disegni verde scuro; quando aprì l’armadietto scoprì che all’interno c’era il duplicato di tutto, come se quella dotazione dovesse servire per tanti giorni…quanti?
Tornò al letto e vi si distese: per fortuna il materasso era rigido su doghe in legno, come quello di casa che la preservava dal mal di schiena. Era il momento in cui pensare al mal di schiena?
Stesa sul letto si assopì, assorta in un susseguirsi di immagini che sembravano reali.
“Prendimi”
L’uomo l’aveva fatta girare a pancia in giù, le sue mani avevano cominciato a pervadere delicatamente il suo corpo. “Ti faccio il massaggio olistico che agisce sui meridiani energetici, all’interno dei quali scorre l’energia vitale”.
Aveva cominciato a massaggiarla dalla testa ruotando lentamente gli indici sopra la corteccia somatosensoriale del cervello;
“Stendi le braccia, piegale in su”: era sceso lentamente sul collo per poi scivolare lungo le braccia. Rientrando aveva passato indice e medio sul fianco soffermandosi all’altezza dei seni sfiorandoli solo, senza arrivare a toccare i capezzoli. “Non voglio” aveva detto lei.
Si era poi riportato al centro, ed il massaggio era sceso lungo la spina dorsale frizionando vertebra dopo vertebra, arrivando fino al coccige. “Sto infondendo energia al meridiano zanus” aveva detto.
“Non puoi, fermati”
“Questo massaggio mira a riportare il benessere nella sua globalità, agisce a livello fisico e mentale, ripristina l’equilibrio nei meridiani energetici. Ora girati.”
“No”, disse lei mentre, aiutata da lui, si girava a pancia in su.
Le passò le mani sotto il corpo andando a riprendere il punto del meridiano zanus situato in prossimità del coccige e da lì, molto lentamente, passò sul davanti.
“Ora dischiudi un poco le gambe, solo un poco”: l’aiutò.
Con le due mani scese giù lentamente lungo il pube portandosi sull’interno coscia. Cambiò la sua posizione, portandosi più in basso; riprese dal punto dove era arrivato e scese giù lungo l’interno coscia fino ai piedi.
“In questa zona dei piedi c’è un meridiano dove è concentrata la sede del desiderio”: con entrambe le mani cominciò a massaggiare con cerchi concentrici l’aponevrosi dell’arco plantare, prima delicatamente, poi più profondamente.
Si sentì un rumore secco: un oggetto leggero doveva essere caduto sul pavimento. Emma si scosse e mentre stava uscendo da quella condizione di cosciente incoscienza sentì la propria voce eccitata che sussurrava.
Era un sussurro, solo un sussurro: “prendimi”
Capitolo quindici
A volte ci prendono percezioni strane e non sappiamo se stiamo vivendo situazioni reali oppure se stiamo vagolando nell’ignoto.
Emma era ancora scossa dall’incontro surreale con quell’uomo tanto tenero e deciso che si era preso cura di lei. “Non è stata una mia fantasia, io non l’ho voluta; non ho immaginato di mia volontà un incontro così coinvolgente, non ho chiesto io a quell’uomo sognato di confortarmi con il massaggio olistico; eppure, me lo sono trovato davanti, era lì tutto per me, non si è curato delle mie ritrosie, ha continuato con tanta dolcezza a massaggiarmi fino ad eccitare i miei sensi…mi stava prendendo contro la mia volontà. Questo è l’uomo che vorrei ed è avvenuto proprio qui dove mi trovo, in una prigione, con ben altro per la testa, con ben altri problemi irresolubili da risolvere”
Emma pensava e ripensava a tutti i momenti vissuti in quello stato di incoscienza dove era precipitata: rivedeva quelle mani di maschio che percorrevano il suo corpo, prima sulla testa rilassandola, poi giù per il fianco fino a sfiorarle i seni: in quel momento aveva provato una lieve eccitazione. Poi lui aveva percorso tutte le vertebre, premendo con gli indici nel tessuto morbido a sinistra e a destra di ciascuna, giù fino al coccige: in quel punto da cui uscivano le fibre nervose del midollo spinale lui gliele aveva fatte sentire.
È per questo che, quando le aveva chiesto di girarsi a pancia in su, lei non si era rifiutata, tanto aveva le mutandine. Lui aveva infilato le dita sotto le mutandine ed aveva percorso le due valli abissali a lato del mons Veneris fino a raggiungere l’interno coscia: questo suo stare lontano dai punti nevralgici, unitamente alla lentezza del movimento, l’avevano eccitata più che se si fosse precipitato a toccarla nelle parti intime: come era diverso dal maldestro approccio di Gianni improntato sempre a impeto e furia.
Arrivato ai piedi…chi sapeva che la carezza lenta e circolare su quella parte del piede facesse partire un brivido fluido che quasi l’aveva fatta venire?
Emma passò senza accorgersi tutto il pomeriggio con questi pensieri che non volevano andarsene. A mezzogiorno il suo carceriere era comparso velocemente lasciandole un cartone con una pizza calda ed una bottiglietta di birra artigianale: li aveva introdotti nel locale attraverso uno sportellino alla base della porta rossa. Un bigliettino scritto in stampatello diceva: “buon appetito, ci vediamo questa sera con una vera cena”.
L’immagine conturbante del bell’uomo che l’aveva accarezzata nel sogno superando le sue ritrosie si sovrapponeva a quella del suo carceriere, pure lui gentile e premuroso, l’uomo reale che l’aveva in pugno. Come era fatto “Occhio Blu”?
Alto o basso -Emma era alta 1,73-, magro o grasso, aveva tutti i capelli, aveva un naso regolare e una chiostra di denti bianchi, che età aveva? In quel momento Emma stava auspicando che il suo carceriere fosse un bell’uomo: quando si accorse dell’assurdità di tale pensiero nel silenzio di quel locale grigio risuonò la sua voce: “Sono proprio fuori!”
Capitolo sedici
Era tardi, ma l’ora consentiva ancora di telefonare senza essere maleducata. Giselle pensava che chi telefonava dopo le nove senza una giustificata urgenza era un maleducato, perché invadeva una privacy cui tutti hanno diritto, che siano a casa propria o anche in giro.
Rispose il marito di Adele:
«Te la passo subito.»
«Ciao Giselle, hai parlato con tuo marito?»
«Sì, ed è stato demoralizzante. Ha cominciato col dire che andavo a caricarmi di un problema che non ci riguarda quando nella vita i problemi sono già tanti. Ha poi detto che con la polizia è sempre meglio non averci a che fare. Ha anche detto una cosa che mi ha dato molto fastidio.»
«Cioè? Cosa ha detto?»
«Ha detto che Mattia non è sveglio e che si sarebbe ficcato nei guai rispondendo ai poliziotti e con lui nei guai ci saremmo finiti anche noi. Che considerazioni per un padre!»
«Hai ragione Giselle, te lo sei andato a prendere proprio …»
«Sì, lo so e non è mai finita, perché comunque devo per alcune cose ancora dipendere da lui.»
«In definitiva cosa ha detto? Ha accettato che si vada a rendere la testimonianza alla polizia?»
«No, ha detto un “NO grande come una casa”. Ma io questa volta non gliela do vinta. Ho già sofferto tanto per i suoi comportamenti, i suoi tradimenti, per la mancanza di rispetto, per tutte le angherie che ho dovuto subire. In questo caso testimoniare può forse contribuire a salvare una donna che sta subendo soprusi e maltrattamenti ben superiori a quelli che ho subito io, da qualcuno che forse è ancora peggio di Danilo. Ci può essere in gioco la sua stessa vita.»
«Brava Giselle: sapevo che sarebbe andata così. C’è qui anche mio marito che …»
«Brava Giselle! – interloquì il marito chinandosi a parlare nel telefonino della moglie.»
«Come facciamo allora?»
«Giselle, non ti lasciamo sola: alla polizia ci veniamo anche noi, cioè io e Leonardo che può confermare le cose che dirà Mattia. Tu non devi preoccuparti di niente: domani telefono io alla polizia, fisso un appuntamento e poi ti dico. Per me andrebbe bene la sera dopo le sei: andrebbe bene anche per te?»
Ormai la decisione era presa e non ci potevano più essere ripensamenti: Giselle non poteva nascondere a sé stessa che si stava mettendo in una difficile situazione col marito. Se la cosa fosse venuta fuori, anche solo per il fatto che lei non gli aveva obbedito, chissà cosa avrebbe fatto Danilo; se poi qualcosa di negativo ne fosse uscito…” Non voglio neanche pensarci: la cosa che faccio è quella giusta e ne sopporterò tutte le conseguenze”
“Se le persone ragionassero come Giselle il mondo sarebbe diverso”: questa ultima frase non la voglio mettere in bocca ad un personaggio perché come autore ne voglio conservare la paternità.
Telefonando alla centrale di polizia risposero che gli agenti preposti alle Persone Scomparse non erano in ufficio e che bisognava provare più tardi: a nulla valse il fatto che chi telefonava poteva dare notizie importanti in merito a una scomparsa appena denunciata.
Fortunatamente Adele abitava poco lontano dalla centrale di polizia e vi andò di persona; fu fortunata perché incrociò l’agente Ettore C. proprio nell’atrio di ingresso:
«Eccolo signora, è l’agente preposto alle Persone Scomparse. Parli con lui.»
«Buongiorno. Abbiamo sentito della scomparsa della dottoressa Emma Lee e alla televisione hanno detto di farci vivi alla polizia se avessimo avuto qualche notizia in merito. Ora penso che due nostri figli, mentre giocavano all’oratorio di Don Luigi, abbiano visto compiersi un rapimento proprio il giorno della denunciata scomparsa. Facile che ci sia un nesso visto che i tempi corrispondono.»
«Venga signora, accomodiamoci nel mio ufficio. Dunque, i suoi figli hanno visto che una persona è stata rapita?»
«Non esattamente figli miei: uno è mio l’altro, quello che ha assistito alla scena, si chiama Mattia Morabito.»
«E suo figlio non ha visto la scena?
«No, stavano giocando insieme e Mattia ha visto la scena quando si è un poco allontanato a prendere la palla calciata lontano: un uomo sceso da una macchina ha assalito una donna sul marciapiede, l’ha spinta nella sua auto e poi è fuggito a tutta velocità.»
«Il ragazzo è in grado di confermare quanto mi sta dicendo?»
«Certamente, è lui che ha visto, non io.»
«Possiamo vederlo subito?»
«Ora è a scuola, ma questa sera possiamo venire…»
«No, voglio vederlo quanto prima. Come si chiama lei e dove abita?»
«Sono Adele Conti e abito in Via Vivaldi al numero 9.»
«Oggi alle tre sono da lei per parlare coi due ragazzi.»
«Devo sentire l’altra mamma e glielo confermo.»
«Perché? L’altra mamma può non essere d’accordo sul rilascio della testimonianza?»
«No, è d’accordo anche lei: le devo confermare solo l’appuntamento.»
Adele chiese un permesso alla libreria dove lavorava, Giselle non aveva problemi. Alle tre meno cinque del pomeriggio le due donne erano a casa di Adele coi rispettivi figli, Leonardo e Mattia.
Venti minuti dopo suonò al citofono l’agente Ettore C. accompagnato dall’agente Franco B.
«Prego, salite. Secondo piano.»
«Buongiorno, ciao…tu devi essere Mattia e tu?»
«Io sono Mattia e lui è Leonardo, mio amico.»
«Giocate al pallone tutti e due?»
«Sì. Siamo nella squadra dell’oratorio che sta facendo il campionato: al momento siamo terzi.»
«Tu Leonardo in che ruolo giochi?»
«Io sono attaccante, ala destra.»
«E tu Mattia?»
«Mediano»
«Anche mio figlio gioca a calcio, ma è ancora troppo piccolo per essere in una vera squadra come voi. E mercoledì scorso eravate sul campetto dell’oratorio di Don Luigi per allenarvi?»
«Sì. Giocavamo a tirare in porta.»
«E una palla è andata a finire lontano e tu Mattia sei andato a prenderla?»
Tutti rivolsero lo sguardo verso Mattia che arrossì.
«Sì. Era nell’erba alta, ma l’ho trovata subito.»
«E allora cosa hai visto?»
«Mi chiede di quello che ho visto sul marciapiede della strada vicina? Un uomo è sceso da una macchina, ha seguito una donna che camminava sul marciapiede, le ha messo un fazzoletto sulla bocca e lei è come svenuta. Allora lui l’ha caricata in macchina ed è partito a forte velocità.»
«Che bravo Mattia, come ti ricordi bene. Sai come era vestita la donna?»
«Non ricordo.»
«L’uomo come era, alto o basso?»
«Credo di media altezza.»
«Ti ricordi come era vestito?»
A quella domanda Mattia ebbe una reazione strana, come se quella domanda normale gli avesse messo paura:
«Era tutto vestito di nero ed aveva pure stivali neri.»
«E tu Leonardo, non hai visto niente?»
«No, quello che so me l’ha raccontato Mattia.»
«Ricordi comunque qualcosa…»
«L’unica cosa che ricordo è che Mattia era sconvolto, più di quanto ci si aspetterebbe, visto che lui ha solo visto la scena da lontano. Mattia, perché eri tanto sconvolto?»«Tu non l’hai visto. Me lo sogno ogni notte.»
Giselle:
«Te lo sogni ogni notte e non me ne hai neanche parlato?»
«Scusami mamma.»
«Cosa aveva di tanto sconvolgente? Solo perché era vestito di nero?»
«No, voi non potete sapere.»
L’agente Franco B. intervenne:
«Dai, diccelo, così lo sappiamo anche noi.»
L’agente Ettore C. guardò il collega come per dirgli: “almeno stai zitto!”
«Aveva una maschera.
Tutti di colpo si fecero attenti.
«Una maschera?»
«Sì, una maschera.»
«Come quelle di carnevale?»
«No, non potete immaginare. Era una maschera spaventosa.»
«Era nera?»
«No, di tanti colori.»
«Copriva solo gli occhi?»
«No, era messa di traverso e copriva tutta la faccia.»
«Di traverso?»
«Sì. Non assomigliava alle solite maschere: era come una scultura colorata con tanti cerchi e disegni lucenti, indossata di traverso.»
«Di traverso?»
«Si era, come si dice, non un cerchio…era oblunga.»
«Come un’ellisse?»
«Esatto e non era piatta, era bombata. Aveva solo due buchi per gli occhi che erano messi storti perché l’ellisse era messo storto sulla faccia.»
«Colore?»
«Mi pare di ricordare che su un fondo color oro ci fossero tanti cerchi di diversa dimensione. Ogni cerchio era contornato da puntini d’argento e all’interno ogni cerchio aveva un colore diverso: rosso, arancio, verde…»
Seguì un silenzio prolungato: ciascuno cercava di immaginare come era fatta quella maschera tanto strana; ciascuno si domandava perché il rapitore indossasse una maschera così particolare, una maschera che non sembrava neanche una maschera. Di certo aveva fatto un grande effetto sul bambino visto che ne era stato sconvolto e neppure aveva parlato alla mamma dell’evento cui aveva assistito
«Mamma, perché quel signore ha fatto quello che ho visto?»
«Tesoro, ci sono persone cattive. Probabilmente l’ha fatto perché vuole dei soldi.»
«Non poteva rubarglieli e lasciarla andare?»
«Probabilmente la voleva rapire.»
«Cosa vuol dire “rapire”? Perché l’ha rapita?»
Uscendo l’agente prese da parte Giselle:
«Avremo ancora bisogno di lei. Dobbiamo mandare un nostro agente specializzato per disegnare la maschera e suo figlio gliela deve descrivere in ogni particolare. Quella maschera è l’unica pista che al momento abbiamo.»
La maschera.
La funzione serale era terminata e se ne erano andati tutti. Una luce intensa illuminava l’ostensorio e il resto della chiesa era in penombra, una penombra che sembrava inghiottire le due file di colonne che delineavano le navate e gli altarini ottocenteschi che davano su di esse. Inginocchiato poco lontano dalla balaustra, a testa bassa, si teneva il capo fra le mani, sentiva su di sé il peso di quel buio, il suo misterioso silenzio, l’affranto sconforto che sembrava perdersi nelle volte dorate della navata centrale.
«Ha ragione mamma: finora nella mia vita non ho combinato niente, non sono stato in grado di realizzare alcunché, sono una frana. Me lo dice sempre: “devi prendere delle iniziative, devi dimostrare che sai realizzare qualcosa, devi cambiare!” Ha sicuramente ragione, ma io non so come fare e neppure so se avrò il coraggio di modificare totalmente la mia vita
Come in tutte le notti di luna piena Ombra se ne stava accucciata in fondo alla chiesa, nell’angolo oscuro poco lontano dalla bussola in legno dell’ingresso, sopra la quale le canne dell’antico organo conservavano un blando riflesso.
La sua era una voce grave dal timbro profondo.
«Nelle notti di luna piena tutto può cambiare.»
La voce aveva attraversato tutta la navata centrale e si era adagiata nella sua mente risuonando in un rimbombo.
«Come?»
«Se non riesci a cambiare te stesso puoi mascherarti, l’effetto per tua madre e per gli altri sarà lo stesso.»
«Mascherarmi? E come?»
Si alzò in piedi e si avviò per uscire dalla chiesa; sentiva che qualcuno lo stava accompagnando verso casa: quell’Ombra sapeva cosa diceva, lo aveva già sperimentato altre volte.
Si ritrovò nel locale dove dipingeva per dimenticare le angosce che lo reprimevano costantemente: prese fra le mani un foglio spesso di cartone, lo intagliò, lo mise nell’acqua e lo lasciò asciugare fin che si irrigidì in una bella forma ellissoidale. Preparò i colori ad olio: aveva dei tubetti di rosso intenso, di giallo, di verde, un tubetto d’argento, un tubetto d’oro, tutti colori allegri.
Qualcuno guidava la sua mano che dipingeva con estro, fantasia, trasporto una forma colorata con tanti cerchi e disegni lucenti, in uno sfavillio di puntini d’argento su fondo oro.
A lavoro finito rimase ad ammirare il bellissimo oggetto che aveva creato: più che una maschera gli sembrava di aver creato qualcosa di ultraterreno.
Era opera sua?
Non aveva mai fatto un’opera così bella.
«Cosa vuoi in cambio?»
«Un altro pezzo.»
«Un altro pezzo di…»
«Sì, un altro pezzo della tua anima.»
CONTINUA
L’ARCANO PROFONDO è un romanzo di Mario Filocca
genere: THRILLER