LE VARIAZIONI DI GIUDITTA di Sabrina Sciabica

Ogni forma d’arte, di letteratura, di musica deve nascere nel sangue del nostro cuore.

L’arte è il sangue del nostro cuore. Edvard Munch

Roma, gennaio 2064.

Un foglio A4 sul tavolo.

C’è un disegno arzigogolato e bizzarro.

Le lettere N e Y occupano lo spazio centrale.

Sono attorniate da disegni morbidi, rami che si attorcigliano su sé stessi, fiori con petali enormi, forme intersecate e fantasiose.

Ci sono anche delle note che volteggiano, come se le linee dei rami si fossero trasformate in pentagramma.

Il nero dell’inchiostro sembra emergere e ampliarsi nell’aria, lasciandosi alle spalle lo spazio bianco.

Andrea quella domenica ha prenotato la cucina, può rimanerci con calma.

Ma non ha mangiato molto, gli è subito passata la voglia; ha aperto una scatoletta di salmone e l’ha aggiunta a quella del riso pronto, in un unico piatto veloce.

È rimasto a lungo seduto per leggere la sua guida; poi ha scarabocchiato su un foglio a mano libera, con il pennarello nero a punta fine.

Dopo un po’, senza troppa energia, è tornato in camera, con la guida di New York tra le mani, dimenticando sul tavolo la sua opera d’arte improvvisata.

CAPITOLO UNO

Finalmente era arrivata la domenica, pensava Nya mentre si preparava.

Finalmente avrebbe rivisto Antonella, una delle sue migliori amiche.

In quell’unico giorno libero della settimana, Nya poteva usare la cucina soltanto su prenotazione. Ogni coabitante doveva rispettare la prenotazione dell’altro, per non incontrarlo e infastidirlo mai.

Per nessuna ragione.

In genere Nya approfittava della domenica per pranzare fuori con le amiche.

Spesso ripensavano a come fosse bella la vita quando erano più piccole; quindi, le ragazze avevano scelto di vedersi in uno dei pochi ristoranti slow-food rimasti, con tanto di sedie, tavoli e rilassanti divani.

La domenica almeno, non volevano neanche sentir parlare di quei luoghi dove si bevevano alimenti liofilizzati contenenti accenni di carne e pesce.

Per preservare gli animali da macello, che erano sempre meno, parecchi ristoranti erano stati chiusi, sostituiti da luoghi angusti, zeppi di distributori.

“Cibo al gusto di” era la parola chiave. “Succo al sapore di” era la frutta disponibile, e così via.

Quel giorno Nya prese la metropolitana che la portò a sessanta chilometri da casa, in soli venti minuti, per entrare in un luogo costoso particolarmente piacevole.

Lì si potevano mangiare uova vere, carni vere, pesci interi, che le ricordavano l’odore del mare.

Forse anche per quello alla ragazza era mancato l’appetito, di recente.

Per la domenica, almeno, voleva mangiare “veramente”.

Ordinarono un secondo piatto e un dolce per ognuna.

«Nya, sei dimagrita tanto!» notò con aria preoccupata Antonella, che si accorse subito della sua inappetenza.

«Ricordi quel periodo in cui mi hai ospitato? Mentre aspettavo l’assegnazione del mio tugurio definitivo?

Tu sei stata l’unica in grado di farmi ridere di gusto dopo tanto tempo», cercò di cambiare argomento la ragazza.

«Oh, tesoro, non dirmi che ti manco! Hai tanto voluto la tua libertà!» disse l’amica seriamente.

«Mi manca la vita insieme, Antonella. Sì. Mi manca qualcuno che creda in quello che fa. Mi manca qualcuno capace di scovare un gusto, o un odore, in mezzo a tutta questa immondizia. E tu sei così, sei diversa da me, lo sai» spiegò Nya.

«Ricominciamo con il pessimismo cosmico?» la guardò l’amica con aria sconfitta. Continuò: «cos’altro ti succede? Cominciamo dalla cosa più importante: dormi la notte?» le chiese spostandosi gli occhiali sul naso, imitando ironicamente un tono da medico.

Nya prese fiato faticosamente e cominciò a parlare più piano, come se non volesse far sentire a nessuno la lunga confidenza che stava per fare.

Spesso lasciava lo sguardo dell’amica per fissare il vuoto: «Le pareti della mia anima sono sempre più bianche, gli occhi sempre più appannati.

I rumori dalla finestra aperta sempre più irritanti, la notte sempre più buia, il sonno sempre più forte, ma non dormo perché piango.

Certe sere non riesco a trattenere il fiume, è un’inondazione, è inarrestabile, è una crisi di nervi» riprese fiato e ricominciò ancora più lentamente.

«La notte è sempre più fonda, il nero sempre più nero, mi addormento, mi sveglio di soprassalto perché ho avuto un sussulto e piango.

Mi rigiro ma il letto è scomodo; le ore sono più lente e l’angoscia non va a dormire.

Mi asciugo la faccia umida e crollo» appoggiò il capo al braccio destro e restò un attimo in silenzio.

«Poi arriva la mattina, ho un nodo alla gola ma lo trattengo.

È un grande progresso quando sento che il cuore internamente piange ma io lo trattengo e non piango, almeno esternamente.

Le pareti sono sempre più bianche, le giornate sempre più tristi. Oggi è un altro giorno, ma sempre cosparso di pianto.

Ogni mattina la stessa sensazione di un carrarmato che mi è passato addosso, eppure mi alzo.

Un coltello mi ha trapassato il torace, eppure respiro.» Terminò sottovoce.

«No, così non va Nya» scosse la testa Antonella, «la nostra esistenza è già abbastanza sfigata», incalzò Antonella con voce energica. E le chiese: «Conosci la teoria delle crosticine?»

«No tesoro», sorrise Nya.

«Beh, da piccola cadevo sempre, correndo da una casa all’altra, in campagna, per tutto il mese d’agosto, tutte le sante sere nel viottolo buio tra casa nostra e casa degli zii.» Cominciò a spiegare l’amica più vispa. «Inciampavo, cadevo, sbattevo le ginocchia, piangevo e poi ricominciavo a camminare…ma la sera successiva correvo e cadevo di nuovo.

Cocciutaggine? Stupidità? Coraggio?

Ho due piccole cicatrici sulle ginocchia che me lo ricordano. E mi sono chiesta: questo mi può aiutare in qualche modo?»

«Ma tu sei forte, Antonella! Sei una spavalda! Sei un’amazzone!» rise Nya con ammirazione e chiese «continua, dai, arriviamo alla teoria.»

«Quando ci feriamo, si forma una crosta sulla pelle che, ovviamente, cade dopo un bel po’ di tempo.

La ferita all’inizio brucia, fa male, pizzica, ma col passare dei giorni tutto diminuisce, e iniziamo a ricordarcene sempre meno.

Eppure, c’è un rischio enorme in questa fase: se anche solo per un attimo ripensiamo alla crosticina, andiamo lì, la guardiamo, la analizziamo, la tocchiamo, la solleviamo… la grattiamo via, ecco che esce nuovamente il sangue…insomma, se la tocchiamo, tutto il sistema di cicatrizzazione deve ricominciare da capo.

Bisogna, invece, non pensarci a quella ferita, fare di tutto per distrarci dal dolore che provoca e, se il pensiero arriva comunque, non focalizzare la nostra attenzione là, non sfiorarla nemmeno!

Al massimo possiamo guardarla, la ferita, ma senza mai risollevare la crosticina.

Soltanto così, col passare dei giorni, mesi, anni, tutte le crosticine cadono da sole, quando la pelle sotto si è rimarginata. Ogni cosa a suo tempo, ma dobbiamo dare tempo al tempo.»

«Mhhhhh» disse Nya cercando di trarre vantaggio da questa storia.

«Nya, il succo è che tu non hai un problema grave. È umano che tu stia male, che ti senta sola in questo momento della vita.

Però non fare del tuo dolore una malattia inguaribile.

E soprattutto non toccare più le crosticine. Se ti fanno male guardale, ma lasciale lì senza toccarle.

Non gongolare nel dolore.

Solo così le ferite guariranno nel modo più naturale possibile.»

«Ci rifletterò, te lo prometto» disse Nya rincuorata.

CAPITOLO DUE

Dal diario di Nya

Roma, 2064.

La ex-capitale è riuscita a rimanere all’interno della Federazione d’Italia, nonostante l’attuale capitale abbia cercato in tutti i modi di screditarla. Milano adesso vanta il titolo di Capitale, nonché il primato di città più sicura, più vivibile, più elegante ed efficiente della nazione.

A Roma continuano a vivere milioni e milioni di abitanti che, come formiche, escono poco prima dell’alba dai loro buchi sotterranei, si dirigono verso palazzoni di uffici e fabbriche distribuiti su venti piani inferiori e venti superiori.

Macché, troppo polemico, così mi arrestano. Meglio partire dal passato. Ricomincio da capo.

Già un secolo fa, il grave problema dell’abitazione cominciava ad emergere, subito dopo il fenomeno che fu chiamato “bolla immobiliare” e dal quale il mercato non si riprese più. Sembrava inizialmente che i prezzi si fossero abbassati, ma ciò non migliorò l’andamento dell’economia in quanto il governo dovette bloccare gli stipendi dei lavoratori. Pian piano la gente cominciò ad abituarsi a vivere in spazi sempre più ristretti finché, col passare degli anni, i tuguri diventarono la normalità e l’home sharing diventò, ed è ancora, l’unica realtà possibile per le metropoli italiane. 

In tutta la Federazione e ancora di più nell’ex-capitale i costi degli appartamenti sono troppo elevati, e così si compra al 25%, se va meglio al 50%.

Come per l’auto, come per le case di vacanza un tempo chiamate multiproprietà, oggi è diventato un lusso avere la proprietà di un intero appartamento; quindi, la Federazione ha studiato un ottimo modo per agevolare la vita e la quotidianità della popolazione.

Ad ogni cittadino viene assegnata una quantità di metri quadri vivibili all’interno di ogni appartamento. I co-assegnatari non si incontreranno mai perché il sistema della Federazione è super efficiente, praticamente perfetto: gli orari di lavoro dei co-assegnatari sono all’opposto. Chi lavora le sue 10 ore diurne non incontrerà mai il co-abitante perché lavora 10 ore notturne. E più o meno così per altre tipologie di turni lavorativi. È vero, bisogna ammettere che l’orario di lavoro è aumentato rispetto agli anni scorsi, in compenso ciò garantisce un guadagno stabile e sicuro.

È stato chiesto, alla popolazione, di fare un ulteriore sforzo per risollevare l’economia della patria.

In definitiva, grazie alle scrupolose regole della Federazione in merito alle abitazioni, è stato risolto l’annoso problema dell’acquisto degli appartamenti poiché la Federazione organizza e assegna a ciascuno la titolarità della dimora in percentuale, a fronte di un piccolo contributo mensile.

Beh, dovrebbe bastare per oggi. La rivista mi ha commissionato un breve articolo sulla tematica immobiliare, e io ho cercato di descrivere la situazione in modo obiettivo.

Domani lo rileggo a mente fresca, adesso provo a dormire.

Più di così non posso fare, è l’unico modo per superare il controllo e non beccarsi la penale.

Da quando il nuovo contratto stabilisce che chi non supera la censura con il proprio pezzo deve fare un’ulteriore ora di lavoro non pagato, preferisco attenermi alle norme.

Dopotutto la vita non è poi così male…a parte che la Galleria Nazionale è diventata una fabbrica.

Certo, un tempo si scriveva di ciò che piaceva, ma tutto sommato è soltanto lavoro, non deve per forza piacermi.

Adesso che ci penso, un tempo la gente sceglieva addirittura l’appartamento in base all’esposizione, alla luce del sole. In fondo noi non avremmo neanche il tempo di farlo, con tutte le ore che dobbiamo passare in ufficio.

È proprio vero quello che dice la pubblicità: “Non pensarci. Riposa il cervello e andrà sempre meglio”.

Forse le regole approvate dalla Federazione sarebbero un po’ discutibili: che io non debba mai, per legge, interferire con il/la co-assegnatario/a parrebbe un’assurdità, ma alla fine è una regola così semplice che non fa neanche effetto.

Non siamo mai in casa allo stesso orario e l’efficace sistema di pulizia delle parti comuni garantisce meno fatica e sicuramente più tempo da dedicare al sonno.

Certo, ci sono aspetti negativi: devo rispettare tassativamente gli orari di ingresso nella cucina soggiorno, lo spazio comune di casa, ma mi sembra una giusta regola per mantenere l’ordine, soprattutto a fronte di una quota così piccola da pagare mensilmente, in cui è davvero tutto incluso.

Le pulizie ad esempio! Una rogna in meno.  Doveva essere strano quando da un capello perso sul pavimento si capiva il sesso del coinquilino, prima si chiamava così. Doveva essere fastidioso sentire gli odori di qualcun altro e dei suoi pasti in cucina, mentre adesso l’igiene è una garanzia e l’aria praticamente asettica.

Io odiavo passare lo straccio, quando vivevo con Antonella. Solo tempo perso!

Aggiungi che ognuno ha il suo ingresso indipendente su corridoi diversi e che segnaliamo i periodi di ferie/assenza da casa, insomma un’ottima organizzazione.

Non riesco a comprendere pienamente i Contraristi, quando si definiscono oppositori totali della Federazione.

Non ho mai amato chi crea disordine.

La tesi sarebbe che al nostro governo converrebbe agevolare i single perché in tal modo si spende di più e “qualcuno” della Classe può guadagnare su questo.

Ma che male c’è a pensare soltanto a sé stessi e a mettere a riposo il cervello? Fanno tutto loro!

Dicono, ancora, che la Federazione non dovrebbe assegnare la capacità figliatrice soltanto alla Classe, ma che ognuno dovrebbe avere la libertà di figliare in base alle proprie scelte. E poi, cosa saranno mai queste scelte? Io sono stata obbligata a lavorare al New World e non ho mai dovuto cercare altro.

Sono stata assegnata al mio Tugurio numero 10.345.789 senza bisogno di stressarmi a selezionare appartamenti e, non essendo parte della Classe, non vorrò un figlio.

La Classe può pensare certamente ad avere figli perché si tratta di professionisti che guadagnano più di me; quindi, è giusto che ci pensino loro a popolare il mondo; potranno garantire al piccolo un futuro più promettente.

L’amore non è più l’atto egoistico di mettere al mondo una creatura senza dargli nessuna garanzia; almeno così non esisteranno bambini poveri.

Dato che la gente non aveva abbastanza coscienza, adesso è la Classe a decidere. Se puoi fare un figlio – ovvero puoi mantenerlo – ti autorizzano, altrimenti no.

Io oggi lavoro soltanto per me. Basto a me stessa e mi va benissimo così. Scrivo per loro e ho tutto il tempo per riposarmi nel resto della giornata…che poi ne rimane veramente poca.

Tra l’altro, se volessi un giorno procreare anch’io, ci sono le liste controllate alle quali potrei iscrivermi e ottenere il permesso di avere un figlio direttamente dalla Confederazione, consultando gli elenchi di uomini accuratamente selezionati.

Hanno pensato a tutto.

Sono solo pochi anni che la Federazione ha applicato queste regole, ma devo dire che per me è ok, mi sta bene così.

Nya si sistemò per la notte.

L’appartamento non era poi così male, lo spazio necessario per vivere: un piccolo divano su cui accomodarsi dopo un’intera giornata di lavoro, in una stanza di quattro metri per quattro.

Lo spazio comune per cucinare, oltre all’angolo cottura, aveva un tavolo con quattro sedie, due verdi e due viola, lucidissime, sempre perfettamente pulite, anche se in realtà soltanto due erano costantemente utilizzate.

Sopra i fuochi c’erano diversi armadietti, sempre di colore viola o verde e una colonna predisposta per il frigorifero e freezer.

Erano uno accanto all’altro, uno viola e uno verde.

L’appartamento aveva tante porte, alcune delle quali invalicabili. Nya sapeva quale era la porta della sua camera, quella viola, e da lì aveva accesso al suo bagno personale, alla camera principale, alla sua uscita personale sul pianerottolo.

Nell’ambiente condiviso con i coabitanti, la cucina, ognuno aveva i suoi orari prestabiliti.

Lei non aveva mai desiderato aprire la porta verde, anche perché avrebbe dovuto digitare un codice segreto che non possedeva o passare le sue impronte digitali.

Nella sua idea, aveva due co-abitanti. Magari due sorelle, o due fratelli, o forse una coppia precedentemente approvata dal sistema, perché fortunatamente non c’era mai stato nessun problema co-abitativo, nessuna intrusione, nessun contatto, nessuna traccia, e lei ne era lieta.

Lavorava tutto il giorno, e quando rientrava l’unica cosa che voleva era un po’ di silenzio e pace.

Questa era la sua idea di serenità e aveva spesso sentito di co-abitazioni negative, di subbugli, di tentativi di fuga dal Controllo e roba simile. A lei non importava, era una che “non alzava polvere”, come la aveva definita il capo, “anche se di certo non mite”. E quest’ultima frase Nya non l’aveva compresa del tutto.

CAPITOLO TRE

Andrea amava viaggiare, era il suo più grande desiderio, ma da quando la Federazione era al potere non gli era consentito.

Da anni cercava un modo, cercava un lavoro che potesse giustificare una trasferta; era curioso, amava scoprire, sperimentare, creare.

Le sue letture erano spesso guide turistiche, anche se ormai il turismo non esisteva più. Ogni movimento oltre Italia era controllato e doveva essere giustificato per non essere illegale.

Aveva chiesto il permesso di trascorrere un paio di mesi negli USA un anno prima, ma il rifiuto aveva la seguente motivazione: preservare la forza lavoro qualificata.

Ci aveva rinunciato, per il momento.

Il suo volto aveva dei bei lineamenti. Eppure, il pizzetto riccio e poco curato, i capelli che gli coprivano leggermente la fronte, gli conferivano un aspetto dismesso, insignificante.

Aveva appena finito la guida di New York e la voglia di andare era così grande che aveva preso carta e penna per tracciare un itinerario e una lista delle cose da vedere.

Ricordava con nostalgia gli anni trascorsi all’estero; grazie ai suoi studi, aveva lavorato in aziende internazionali poiché i tecnici con la sua esperienza erano molto ricercati.

Per lui, che adorava fare amicizia, che ricercava con curiosità tutto ciò che era diverso dalla sua cultura, l’attuale stile di vita rappresentava un abbrutimento. 

Non era stato licenziato, era un ingegnere, di questo doveva essere infinitamente grato – così gli avevano detto. Nonostante ciò, era diventato un impiegato da scrivania. Niente più lavoro sul campo, né organizzazione di squadre operative.

Lentamente, aveva perso ogni stimolo e si era adagiato alla nuova realtà fatta di calcoli, di previsioni, di ordini impartiti via e-mail.

Come un automa, si recava in ufficio nelle sue ore notturne e non si chiedeva più cosa fare per migliorare la sua condizione.

Andava avanti senza aspettative, con poche energie trascinava la sua esistenza vivendo ogni giorno uguale al precedente.

Nulla più. 

Andrea tornava a casa la mattina, dopo aver visto una splendida alba e la prima luce del giorno, la più pulita, la più fresca, la più frizzante.

A quell’ora la persona co-abitante era appena andata via e lui sapeva che avrebbe trovato una monotona fredda tranquillità, nel silenzio del Tugurio n. 10.345.789.

Aveva preso l’abitudine di camminare lentamente, molto lentamente, mentre gli altri uscivano affrettandosi per il turno giornaliero di lavoro.

Lui aveva scelto la notte e aveva cominciato un’abitudine che era diventata un vizio.

Un’azione semplicissima, un po’ pericolosa, che non aveva mai confessato a nessuno.

Nelle pause notturne, quando i colleghi si rilassavano nelle sale break, lui preferiva fare due passi nella profondità della notte. Anche soltanto 15 minuti, a volte 30 unendo due pause, bastavano.

Lentamente e ogni volta in direzione diversa, usciva dall’ufficio e camminava.

«La notte viene fuori l’anima della città, i monumenti parlano del passato e riesco ad immaginare quel mondo in cui i rapporti umani erano alla base di ogni movimento, azione, espressione» aveva confessato al collega Marco.

«La notte la città è viva, percepisco il suo battito, sento la musica che ha dentro. Sembra che il mondo non abbia limiti, che la terra si impossessi nuovamente di se stessa.

Sembra che torni pulita, naturale. Sembra che respiri. Lunghi e malinconici sospiri, rimproveri sommessi per il genere umano che vorrebbe inaridirla.»

Camminava sempre in direzioni diverse e a volte si ritrovava in vicoli poco sicuri.

Incontrava personaggi grotteschi. Era vietato elemosinare, quindi solamente misteriose sagome si nascondevano nella notte cittadina. Talvolta, le scambiava per i fantasmi della sua mente inquieta.

CONTINUA

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