LIBERTÀ ALL’ORIZZONTE di Anita e Giulia Giannasio
Foto di Iván Tamás da Pixabay
1. Una prigione d’oro
Nel maggio del 1682 re Luigi XIV di Borbone aveva stabilito che Versailles sarebbe divenuta la residenza fissa della famiglia reale e si era trasferito nella sontuosa reggia assieme a uno stuolo di cortigiani.
Versailles divenne parimenti sede del governo francese, luogo ufficiale di esercizio del potere e seconda capitale del regno dopo Parigi.
All’epoca Jeannine, figlia di Jean-Bastien e Luise conti de Tourville, aveva solo undici anni, ed era stata costretta ad abbandonare la sua magione di campagna per recarsi a palazzo assieme ai genitori e ai suoi fratelli maggiori Jean e Guillaume.
“Molto è cambiato da allora” pensò Jeannine, immersa nei ricordi mentre scrutava fuori dalla finestra della reggia di Versailles in una soleggiata mattina di luglio dell’anno 1690.
I conti de Tourville erano deceduti, stroncati da una malattia che aveva colpito anche Guillaume, di appena quattro anni maggiore rispetto alla sorella.
Guillaume era fortunatamente guarito. Il suo corpo, sebbene ancora recante i segni del vaiolo, si era allungato e irrobustito, permettendo al giovane di dedicarsi alla carriera militare. Jean invece era rimasto illeso e perfetto, dannatamente bello, tanto che a corte veniva chiamato il sospiro di Versailles. Nonostante la sua popolarità tra le fanciulle dell’alta aristocrazia francese, Jean aveva preso moglie poco dopo la dipartita del padre, comprendendo quali fossero le sue responsabilità in quanto figlio maggiore ed erede al titolo di conte de Tourville.
«Responsabilità tuttavia facili da eludere» avrebbe detto Guillaume se fosse stato lì in quel momento. «Lui diventa conte e a me tocca il lavoro sporco!»
Jeannine sospirò e si sforzò di sorridere per non lasciarsi travolgere dall’angoscia.
Proprio in quell’istante Guillaume si trovava a Fleurus e combatteva come soldato dell’esercito regio contro le armate alleate di Inghilterra, Spagna, Province Unite e Sacro Romano Impero. Le probabilità per la Francia di sbaragliare una tale schiera di nemici erano assai poche, Jeannine ne era consapevole, ma non aveva intenzione di abbattersi. Suo fratello sarebbe tornato, ne era certa.
«Tornerà e sarà in forma smagliante!»
La fanciulla si fece il segno della croce, poi si voltò e dette le spalle all’alta finestra.
Come molte altre famiglie nobili invitate a Versailles, ai fratelli de Tourville era stato concesso di alloggiare in un lussuoso appartamento nei pressi della reggia di Luigi XIV. La camera da letto di Jeannine si trovava nell’ala est, così come quelle di Jean e Guillaume, mentre nell’ala ovest risiedeva la famiglia ducale dei Verneuil, la cui numerosa e giovane prole era solita riempire l’appartamento di chiassose risate infantili.
Jeannine si era abituata con fatica a quell’ambiente sfarzoso e vivace, così diverso dalla sua amata campagna. Quando era giunta a Versailles era una bambina silenziosa e composta, abituata a spazi ampi e incolti in cui passeggiare o andare a cavallo, mentre i giardini di Versailles erano sì, sterminati, ma decorati da statue imponenti, roseti variopinti e fontane dorate dalle quali zampillavano getti d’acqua dalla mattina alla sera. Le sale della residenza reale erano altrettanto ricche di decorazioni: quadri raffiguranti battaglie storiche e ritratti dei sovrani del passato, orologi a pendolo, statue in bronzo e argento di piccoli putti, mobilio dallo stile ricercato, tendaggi pregiati… Tutto a Versailles sembrava un’ostentazione della ricchezza della famiglia reale, e non solo all’interno della reggia, ma anche negli appartamenti.
Certo, agli ospiti aristocratici era consentito portare le proprie cose nelle nuove residenze, ma i più, consapevoli che i loro ammennicoli, seppur in materiali di qualità, avrebbero sfigurato in un tale contesto, preferivano portarsi dietro solo beni di prima necessità, come gli abiti e la servitù. Il resto lo avrebbe gentilmente fornito il buon re Luigi, in cambio della compagnia dei suoi adorati nobili sudditi.
Jeannine e Guillaume, in verità, sospettavano che il re ambisse a ben altro: dimostrandosi tanto generoso e ospitale, il sovrano aveva in mente di accattivarsi le simpatie della classe aristocratica, centralizzando così l’esercizio del potere nelle sole mani della monarchia. O almeno, questo era ciò che i giovani de Tourville pensavano.
Jean, dal canto suo, amava trovarsi nella posizione di nuovo conte e fidato cortigiano del re; lo faceva sentire importante, e lo sapeva il Signore quanto gli piacesse sentirsi così.
“Guillaume ha ragione” si ritrovò a pensare Jeannine, voltandosi nuovamente a guardare dalla finestra. “A Jean sono toccati l’onore e il titolo, mentre lui è rimasto con un pugno di mosche.”
Come ogni figlio cadetto, Guillaume era stato escluso dall’eredità di famiglia ed era stato costretto a scegliere tra la carriera ecclesiastica e quella militare. La scelta era stata semplice: la vocazione religiosa non era mai stata una virtù innata nel giovane de Tourville, né erano serviti a granché gli sforzi della madre per spingerlo in quella direzione. Guillaume era sempre stato vivace e caparbio, perciò l’unica rimostranza che aveva mosso il giorno in cui era partito per la guerra era stata contro il lassismo del fratello. Jean, tutto l’opposto del fratello minore, era garbato e di una calma che sfociava quasi nella freddezza, preparato da una vita a diventare il capo della sua casata. Jean era la mente, Guillaume era il braccio… e Jeannine era il cuore.
«Oh, Gui» sospirò la fanciulla, sfiorando con una mano il tendaggio verde acqua «torna presto, ti prego! … »
Nonostante Versailles fosse la sua casa da ormai otto anni, si sentiva sola senza il fratello prediletto.
Non lo avrebbe mai ammesso, ma da quando Jean era diventato conte e aveva iniziato a darsi un sacco di arie, Guillaume era l’unico a cui tenesse veramente. Sua madre Luise e suo padre Jean-Bastien erano un affezionato ricordo del passato e Jeannine pregava sempre per la salvezza delle loro anime, ma sapeva che non serviva a niente circondarsi di spettri, specialmente in un ambiente tanto vivo quanto la corte di Versailles.
Da bambina si era sentita inadatta rispetto agli altri cortigiani, sempre così eleganti e impeccabili, e le cose non erano diverse ora che aveva compiuto diciannove anni.
Certo, la vita a palazzo e l’educazione impartitale da Jean l’aveva trasformata in una creatura composta e raffinata, tanto che chiunque avrebbe pensato che si sentisse perfettamente a suo agio tra quelle mura opulente, ma in realtà la timidezza di Jeannine non l’aveva mai abbandonata del tutto e la pressione di rischiare di commettere un errore ed essere vilmente smascherata la portavano ad assumere un atteggiamento riservato, persino distaccato dal resto dei cortigiani. Solo Guillaume la conosceva davvero e la capiva, lui così selvaggio nell’animo, così caparbio e tremendamente indisciplinato.
«Chissà se gli avranno insegnato le buone maniere nell’esercito!»
La voce di Jean fece sussultare Jeannine, che si voltò di scatto a guardarlo varcare la soglia della sua camera.
«Buon dì, fratello!» lo salutò lei con un piccolo inchino.
Jean le si avvicinò con un sorrisetto malizioso e le afferrò delicatamente la mano.
«Mia cara sorella» disse in un soffio, sfiorandole appena le dita con le labbra.
«A chi vi riferivate poc’anzi?» chiese Jeannine.
«Ma al nostro Gui, naturalmente!» Jean esitò, guardandola incerto. «Non stavate forse pensando a lui mentre fissavate al di fuori della finestra con tanto ardore?»
«Sì,» ammise la fanciulla, abbassando lo sguardo «mi domandavo quando rincaserà… ieri sera ho sentito alcune dame parlare del rientro imminente delle truppe e speravo che Gui…»
«Sarà sicuramente tra i sopravvissuti, altrimenti avremmo ricevuto una missiva» tagliò corto Jean, affatto preoccupato per il fratello.
Si riteneva così importante che l’idea che qualcuno non lo avesse avvisato circa un’eventuale spiacevole situazione non lo sfiorò nemmeno.
Jeannine alzò gli occhi bruni per puntarli in quelli grigio cenere del fratello, gli stessi di Guillaume.
«Quindi siete convinto che stia bene?» domandò con una vocina.
«Non dovete temere, mia cara. Il nostro torello se la sarà cavata alla grande. È di voi, piuttosto, che mi preoccupo.»
«Di me?» gli fece eco la sorella, confusa. «Ma io sto bene …»
«Siete consumata dall’ansia, partecipate poco e controvoglia alle serate mondane, toccate a malapena cibo… l’ho notato, sapete?»
A Jeannine parve degno di nota, perché era raro che Jean si preoccupasse di qualcuno oltre che di sé stesso. Neanche la recente fine del suo matrimonio lo aveva scalfito più di tanto: sua moglie Renée era morta di parto qualche mese prima, portando nella tomba anche l’infanta.
“Se avesse perso un figlio maschio forse gli sarebbe importato di più” aveva pensato Jeannine, notando come il fratello non avesse versato neanche una lacrima.
Nonostante il suo comportamento glaciale, Jean aveva curato il doppio funerale nei minimi dettagli, apparendo agli occhi delle vogliose cortigiane come un marito impeccabile e ligio ai suoi doveri coniugali per un’ultima volta.
Quella era l’immagine che Jean dava sempre di sé: l’emblema di un comportamento irreprensibile, accorto e dedicato, degno di un vero aristocratico.
Nessuno, a parte Guillaume, lo aveva criticato per non aver partecipato alla guerra, perché del resto anche gli altri nobili signori avevano fatto come lui, restandosene al sicuro nelle loro lussuose stanze e inviando i membri cadetti della famiglia a combattere. Molti giovani figli e fratelli non avrebbero fatto ritorno dalla battaglia di Fleurus, ma questo non avrebbe intaccato le casate dell’alta aristocrazia francese. Titoli e potere avrebbero avuto la meglio sulle perdite dolorose e, dopo una serie funerali ossequiosi, la voglia di far baldoria e banchettare sarebbe tornata a Versailles.
“Così va il mondo”pensava Jeannine, agitando il capo.
«Non dovete preoccuparvi, fratello adorato» tentò di rassicurarlo. «La mia angoscia sarà presto quietata, non appena Gui farà ritorno a palazzo. Sento solo la sua mancanza.»
«Ho bisogno che voi torniate a splendere, sorella» la incalzò lui, spostandole un boccolo castano dai riflessi rossicci che le ricadeva sulla fronte. «Ora più che mai la corte è scarna di uomini, le cortigiane sono in competizione come un branco di cagnette in calore per ottenere le attenzioni del Gran Delfino. È adesso il tuo momento!»
«Il mio… momento?» ripeté Jeannine, confusa. «Intendete dire che dovrei cercare di mettermi in mostra davanti al principe Luigi?»
Jean trasse un profondo sospiro, guardandola con biasimo come se fosse una bambinetta incapace di capire un ragionamento logico.
«Il Delfino è l’unico erede legittimo di Sua Maestà il re. Sua moglie Maria è morta lo scorso aprile, perciò ritengo che il re farà di tutto per spingerlo a rimaritarsi al più presto. In fin dei conti è ancora molto giovane.»
Era vero, il principe Luigi aveva ventinove anni, solo dieci in più di Jeannine; quindi, era plausibile che suo padre gli avrebbe trovato un’altra moglie. Era però altrettanto vero che, prima di morire, la Gran Delfina aveva lasciato alla dinastia dei Borbone tre piccoli pargoli, i principini Luigi, Filippo e Carlo, che godevano di ottima salute.
«Non sono sicura che al Delfino prema più di tanto convolare nuovamente a nozze…» tentò di replicare Jeannine.
Jean la interruppe:
«Se anche non gli interessasse sposarti, potresti comunque diventare la sua maitresse per il momento. E in futuro, chissà…»
Jeannine sbatté le palpebre rapidamente, urtata da quella frase.
«Vorresti che diventassi l’amante del principe?» domandò sottovoce, guardandosi intorno come se qualcuno potesse essersi nascosto nelle sue stanze.
«Quello che voglio, mia cara sorella, è assicurarti un posto di rispetto» rispose Jean, tagliente. «Purtroppo, il fardello di succedere a nostro padre è ricaduto esclusivamente su di me. Guillaume può aspirare a diventare un valoroso condottiero, ma tu sei una donna; perciò, sarà il marito che sceglierò per te a forgiare il tuo futuro.»
«Per te essere l’amante di un principe è un posto di rispetto?»
«Quale partito migliore del Gran Delfino?» domandò Jean, ma in realtà era un’esclamazione che non ammetteva repliche. «Naturalmente non aspiro a svenderti come vile merce, sorella adorata. Ciò che voglio è che tu dia del tuo meglio per accattivarti le attenzioni di Luigi, usando la tua abilità oratoria e le tue… doti femminili per convincerlo a fare di te la Gran Delfina di Francia.»
Esitò, sporgendosi in avanti per portare il viso lungo e attraente all’altezza di quello della sorella.
«Sono forse un mostro perché desidero solo il bene per la mia sorellina?» chiese, e Jeannine seppe che ancora una volta si trattava di una domanda retorica.
Scosse la testa e deglutì, ricacciando indietro le lacrime. Si sentiva impotente a causa della sua condizione di donna e di sorella minore, ma non poteva fare altro che accettare la volontà del fratello, per quanto offensiva essa fosse nei suoi riguardi.
«Farò come desiderate, conte!» disse, alzandosi in punta di piedi per stampargli un bacio sulla guancia.
Le labbra sottili di Jean si distesero in un sorriso compiaciuto, ma non fece in tempo a rispondere, poiché un gran trambusto proveniente dal cortile si diffuse rapidamente all’interno dell’appartamento.
I due de Tourville si affrettarono a guardare fuori dalla finestra. Jeannine appiccicò il naso al vetro e il cuore prese a martellarle nel petto quando scorse una parata di uomini in uniforme fare il loro ingresso nei giardini di Versailles in direzione della reggia.
«Sono tornati!» esclamò la fanciulla, voltandosi di scatto e sollevando la veste ai lati per potersi muovere più agilmente. «Gui è tornato!»
Jean fu meno cerimonioso e rapido di lei, che sparì oltre la porta della camera in un batter d’occhio.
La raggiunse poco dopo fuori dagli appartamenti degli aristocratici. Ormai anche gli altri erano usciti ad assistere all’ingresso dei soldati.
Jean affiancò Jeannine e le offrì il braccio, facendole capire con un’occhiata che non poteva correre come una bambinetta in presenza degli altri nobili. Lei afferrò il messaggio e passò il braccio candido attorno a quello del fratello. Poi, i due procedettero in direzione della residenza del re, tenendo però le distanze dalla parata militare.
Nobili e soldati si arrestarono una volta giunti nel Cortile di Marmo, caratteristico grazie alla bicromia del suo pavimento, poiché re Luigi e il Gran Delfino si erano affacciati dal terrazzo dorato che dava sull’esterno.
Mentre il sovrano teneva un lungo discorso di bentornato al suo esercito, ringraziandolo per aver condotto la Francia a un’inattesa vittoria contro quattro potenti nemici, Jeannine muoveva lo sguardo impaziente per cercare tra i soldati suo fratello Guillaume.
Jean se ne accorse e le pestò il piede senza troppi complimenti, intimandola silenziosamente a darsi un contegno. Jeannine trattenne uno sbuffo e attese la fine del discorso del re.
Fu Guillaume a trovarla, una volta che Luigi ebbe terminato di parlare.
«Cercavi me, per caso?»
«Gui!» esclamò Jeannine, gettando le braccia al collo del fratello. «Stai bene, grazie al Cielo!»
«Grazie al duro allenamento che mi ha permesso di diventare bravo con le armi» scherzò lui, ricambiando la stretta con affetto e sollevandola brevemente da terra. «Mi sei mancata molto. Io ti sono mancato?»
«Ogni istante» rispose lei, sorridendo sinceramente per la prima volta da quando lui era partito.
Guillaume rispose al sorriso, poi la lasciò andare e si voltò verso Jean, il quale sorrise di rimando, ma con quel suo solito fare algido e fasullo.
«Ben fatto, fratello» si complimentò Jean, allungando una mano per stringere quella di Guillaume. «Abbiamo vinto contro gli eserciti più forti d’Europa, c’è di che essere fieri.»
«Noi abbiamo vinto!» ribatté Guillaume, altrettanto austero. «Noi soldati! Voi, rimasti a casa, non avete granché di cui andare fieri, a meno che la codardia non sia diventata una virtù elogiata a corte durante la mia assenza.»
Il sorriso di Jean si ritirò, la mano rimasta a mezz’aria fu rapidamente riabbassata.
«Ognuno fa ciò che deve fare» rispose il conte de Tourville in un sibilo. «Tu sei un soldato e devi combattere. Io devo provvedere a restare incolume per il bene della famiglia, così da poter avere eredi e dare continuità alla nostra stirpe.»
Guillaume si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito.
«Tocca a Renée mettere al mondo i tuoi figli, non a te. Giacché il suo grembo era pieno, saresti potuto partire con noi. Qui non servivi neanche a dare continuità alla stirpe, o sbaglio?»
Jeannine intervenne per evitare che il battibecco si trasformasse in una vera e propria lite.
«Naturalmente non puoi saperlo, Gui… ma la cara Renée è morta, e con lei la figlia che portava in grembo. Non poteva saperlo, Jean» ribadì in tono di supplica, rivolta al fratello maggiore.
«Non poteva, hai ragione» convenne Jean, dissimulando la sua irritazione dietro un nuovo sorriso.
«Le mie condoglianze più sentite» rispose Guillaume, altrettanto falsamente, poi lo squadrò. «Non mi pare che tu stia osservando il lutto. Sei già in cerca di una nuova moglie?»
«Ora basta, Gui!» lo zittì Jeannine, lanciandogli un’occhiataccia. «Dovremmo festeggiare il tuo ritorno, non bisticciare come marmocchi indisciplinati.»
«La nostra saggia sorella ha di nuovo ragione» disse Jean, offrendole un’altra volta il braccio. «Venite, entriamo. Sua Maestà ha indetto un sontuoso banchetto in onore della vittoria ottenuta dal regio esercito. Non possiamo mancare.»
I tre de Tourville si recarono verso il portone d’ingresso, pigiati come sarde in una latta dalla calca di nobili e soldati.
Una volta entrati, gli invitati si dispersero nell’immenso Salone di Venere, dove tavolate imbandite di cibo e bevande li attendevano. Negli attigui saloni di Marte e di Apollo si erano disposti i membri dell’orchestra musicale, pronta ad intrattenere gli ospiti e accompagnarli con le loro note soavi a balli dapprima lenti e poi sfrenati.
Guillaume adocchiò subito un paio di dame a cui più tardi avrebbe chiesto di danzare, certo che non avrebbero detto di no a un eroico soldato di ritorno da Fleurus, mentre Jean fu assalito da una schiera di cortigiane, accorse a salutarlo non appena aveva messo piede nel Salone di Venere. Guillaume parve vagamente infastidito dalla popolarità immeritata del fratello.
«Non prendertela, non sono tutte delle oche, le dame di corte» gli sussurrò Jeannine all’orecchio. «Per lo più sono le stesse che si contendono le attenzioni del principe Luigi… arriviste senza scrupoli. Troverai senz’altro una dama più discreta e assennata che vorrà ballare con te.»
Guillaume scrollò le spalle come per dire che non gli importava e si avventò su un vassoio di tartine, evidentemente famelico. Jeannine gli restò vicina per tutta la sera, facendosi modestamente da parte solo quando qualcuno si avvicinava per congratularsi con lui per le sue imprese militari.
Fu in quei momenti che Jean intervenne con fare affabile, vantandosi del lustro portato alla casata de Tourville come se fosse un suo merito e rubando la scena al fratello.
A un certo punto Jeannine pensò che Guillaume fosse sul punto di estrarre la spada e infilzare Jean da parte a parte, ma fortunatamente il re prese parola e gli occhi di tutti furono puntati su di lui.
«Miei cari sudditi, ho un annuncio importante da fare!» urlò aggraziatamente re Luigi, oltre la cinquantina ma ancora molto energico. «Tra due giorni avverrà il varo della nave Soleil Royal al porto di Le Havre.»
Un mormorio concitato e qualche applauso accolse quella notizia, ma Jeannine non ne capì il motivo. Si trattava già della terza nave a cui veniva dato il nome del Re Sole (così veniva soprannominato re Luigi da un po’ di anni a questa parte, col suo pieno consenso) e stavolta non si trattava neanche di una nave ammiraglia, ma di un semplice vascello.
«Siete invitati a partecipare al varo,» riprese Luigi, alzando la voce per sovrastare il brusio frenetico della sala «vi sarà concesso salire a bordo, se lo desidererete.»
Stavolta il cuore di Jeannine saltò un battito per l’emozione. Salire su un vascello era qualcosa che non aveva mai fatto, il mare lo aveva sempre visto da lontano. All’idea di poter galleggiare su quei giganti di legno e vedere le onde infrangervisi sotto i suoi occhi, un brivido le percorse la spina dorsale. Avrebbe pregato Jean di portarla a Le Havre finché non avesse accettato.
«Dopo il varo, si terrà un’asta» proseguì il Re Sole, sorridendo compiaciuto, consapevole di essere al centro dell’attenzione di tutti i nobili. «La merce in vendita saranno i prigionieri di guerra che i nostri impavidi soldati hanno catturato sul campo di battaglia. Coloro che vorranno acquistare un prigioniero, potranno fare di esso ciò che vorranno. Alcuni soldati proverranno sicuramente da famiglie ricche, perciò le nostre casse si riempiranno grazie agli ingenti riscatti che inglesi, olandesi, spagnoli e austriaci saranno costretti a pagare pur di riavere i loro rampolli. Il resto dei prigionieri sarà condotto nelle colonie di Louisiana e Nuova Francia, dove serviranno il nostro regno fino alla fine dei loro giorni.»
Un boato di eccitazione irruppe dalla folla di invitati che pendevano dalle labbra di Luigi XIV, mentre Jeannine e Guillaume si scambiarono uno sguardo d’intesa: la loro teoria sul perché il re avesse deciso di concentrare l’intera classe aristocratica francese a Versailles non era poi così infondata.
2. La lettera di corsa
Se in Francia l’aristocrazia si lasciava abbagliare dalla magnificenza della monarchia assoluta, in Inghilterra non fu così.
Nel 1649 era stato condannato a morte Carlo I Stuart, re degli inglesi, irlandesi e scozzesi, in seguito alle sue pretese tiranniche circa la soppressione della Magna Charta e la reintroduzione del cattolicesimo in un regno a maggioranza anglicana. Carlo I aveva sostenuto fermamente che il sovrano fosse superiore alla classe nobiliare e al Parlamento, poiché il suo era un diritto divino, e poteva quindi tassare liberamente e legiferare indisturbato nel proprio regno.
Il boia che lo aveva decapitato aveva posto fine a questo corso di pensieri e dato il via all’esperienza repubblicana sotto Oliver Cromwell, condottiero britannico e lord protettore del Commonwealth.
Quest’ultimo ebbe vita breve e, dopo un decennio appena, salì al trono di Inghilterra, Scozia e Irlanda Carlo II Stuart (figlio del defunto re), il quale seguì la politica antiprogressista del padre, mantenendo tuttavia buoni rapporti col partito conservatore del Parlamento britannico.
Alla sua morte, nel 1685, gli succedette il fratello Giacomo II, anch’egli despota e destinato da avere un governo breve: nel 1689 fu spodestato da suo genero nonché nipote Guglielmo di Orange-Nassau, acclamato a gran voce dal Parlamento. Il duca olandese e sua moglie Maria Stuart, figlia di Giacomo, furono incoronati re e regina di Inghilterra, Scozia e Irlanda, dove grazie all’Atto di Tolleranza fu garantita la libertà di culto religioso, e la Dichiarazione dei diritti (nota come Bill of Rights) pose dei limiti all’autorità regia, ora ufficialmente mediata dal ruolo dei parlamentari.
Tutto ciò era senz’altro molto importante per il popolo britannico, ma del tutto irrilevante per Sasha di Nergard.
Figlio di mercanti, nato e cresciuto tra i fiordi norvegesi, Sasha era rimasto orfano all’età di quattordici anni, e da allora lui e il suo gemello Bjorn si erano dati da fare per sopravvivere come meglio avevano potuto; dapprima avevano portato avanti l’attività di famiglia, ma compiuti sedici anni i due erano salpati verso ovest e avevano raggiunto il tormentato regno di Carlo II nel 1681, trovando impiego come marinai nel porto di Aberdeen. Si erano poi spostati a sud, lasciando a malincuore la Scozia per raggiungere Boston, Colchester e Londra, importanti centri commerciali inglesi. Lì, alla fine del 1689, i gemelli si erano separati: Bjorn si era arruolato nell’esercito di re Guglielmo per recarsi in guerra contro la Francia, Sasha aveva preferito prendere il mare dal porto di Bristol.
«Così sono iniziati i miei guai» disse il corsaro in tono grave, prima di scolarsi il boccale di birra.
«Quanto la fai tragica» lo derise Avery, che a differenza sua aveva a malapena poggiato le labbra sul suo boccale, ancora straripante di candida schiuma. «Non sapevo che voi norvegesi aveste la tragedia nel sangue!»
«Ho imparato l’arte quando sono arrivato qui» replicò Sasha, pulendosi i baffi con il dorso della mano. «Un anno, io e mio fratello dovevamo rifornire di stoffe una sartoria di Londra specializzata in costumi teatrali. Ho risalito il Tamigi personalmente per andare a portare il carico di merci fino al Globe Theatre, ma quando sono arrivato ho scoperto che era stato distrutto da un incendio!»
«Roba vecchia, quella. Quando prese fuoco il Globe di Shakespeare, tu non eri neanche nelle palle di tuo padre, e neppure io in quelle del mio.»
Sasha ridacchiò, alzandosi per andare a ordinare un’altra birra, ma Avery gli fece cenno di restare seduto.
«Mi hai promesso una bella storia e ora voglio sentirla!» esclamò il giovane ufficiale, di circa cinque anni più grande di Sasha, ma immensamente più saggio. «Non me ne frega un cavolo muffito della tua vita pallosa tra i fiordi di Norvegia e le pecore di Scozia. Raccontami una bella storia.»
«Non ho granché da raccontare, amico mio» rispose l’altro, stringendosi nelle spalle. «Fino a quando non ho incontrato te, non ho fatto nulla di interessante.»
Avery gli restituì uno sguardo ironico.
«E questo me lo chiami interessante?» domandò, roteando gli occhi per guardarsi intorno. «Siamo fermi in questo schifo di porto da mesi, ormai conosco a memoria tutte le sudice bettole di La Coruna.»
Sasha non seppe come ribattere.
In effetti, quando era riuscito a farsi consegnare una lettera di corsa, aveva sperato di poter intraprendere qualche avventura a pelo dell’acqua, il suo elemento preferito.
CONTINUA
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