L’INNOCENZA DEL DIAVOLO di Marco De Lorenzo

genere: HORROR E GOTICO

Nelle campagne bolognesi si erge in tutta la sua modesta importanza un paese che prende il nome di Castello d’Argile.

Appena fuori il paese, proseguendo verso nord e prima di arrivare a quello successivo, la strada ha una biforcazione. Lasciando la strada principale e proseguendo sulla lingua di asfalto minore, ci si addentra nella campagna, in questo periodo quasi del tutto coltivata a colza.

Non bisogna allontanarsi di molto per imbattersi in quella che definirei un’accozzaglia di alberi ad alto fusto lasciati liberi di crescere senza che un giardiniere gli avesse dato una sorta di armonia e ordine. Alcune di queste creature vegetali arrivano a protendersi quasi fin sulla strada con rami contorti e nodosi, come a voler allontanare i curiosi dal segreto che custodiscono.

Chi cede alla curiosità e decide di addentrarsi in questo giardino che potrebbe definirsi bosco, può raggiungere una dimora risalente ai primi dell’Ottocento.

Imponente, quattro piani di finestre e dall’austera facciata.

Sicuramente appartenuta a gente benestante e sicuramente un tempo abitata.

Ma poi qualcosa deve aver girato storto, perché ad un certo punto, nessuno ha più voluto abitarci.

Il tempo e l’incuria hanno fatto il loro dovere, trasformando quello che un tempo era “bello” non in brutto, ma bensì in “tetro”.

Al resto ha contribuito la fantasia umana, elaborando come fosse un abito su misura una leggenda che “giustificasse” l’abbandono della casa.

Così come quella casa è tuttora in piedi (ho verificato di persona) nel suo stato di abbandono e nascosta nella boscaglia, così anche la leggenda ancora permea le sue stanze, narrando che in quella casa non ci si può vivere perché è diventata la casa del diavolo. Chiunque provi ad abitarci o anche solo a entrare ne esce pazzo.

È solo una sciocca storiella per spaventare i bambini direte voi, ma come ogni leggenda, alla base c’è sempre una seppur minima verità.

«Ehi cagasotto, allora sei deciso a entrare nella banda?» chiese con un ghigno Giorgio il più grande (e grosso, date le prime tracce di obesità che i vestiti non riuscivano a nascondere) del gruppo, posando il suo sguardo di maschio alfa sul piccolo Luca.

«Non chiamarlo così! Ha un nome. E questo gioco non mi piace» l’ammonì Sara, scostandosi dietro all’orecchio un ciuffo biondo ribelle.

«Non me ne frega niente se non ti piace. Io non vado in giro con gli sfigati. Se vuole fare parte della banda deve dimostrare il suo coraggio.»

I subalterni di Giorgio sghignazzarono.

Sara alzò gli occhi al cielo e poi si rivolse a Luca, il più piccolo di statura e di età.

«Luca lascia stare, se non te la senti torniamo a casa. Lascia perdere questi qui, non capiscono niente. Nemmeno loro ci sono mai entrati, hanno paura.»

Il bambino ascoltava quello che l’amica gli stava dicendo, ma il suo sguardo era catturato dalla casa. Quell’imponente dimora lo stava guardando di rimando dalle molteplici finestre dai vetri ridotti a brandelli dagli innumerevoli sassi che, bambini come Giorgio, nel tempo gli avevano scagliato contro.

Già solo entrare nel giardino gli aveva messo strizza alle chiappe.

Stavano in quello spiazzo, davanti a quell’imponenza architettonica, circondati da un bosco (chiamiamolo con il suo nome e non giardino) in grado di attutire anche il più piccolo rumore esterno.

Tra i rami se ne stavano nascosti e silenti uccelli che, come spettatori, sembravano godersi lo svolgersi dei fatti.

A Luca parve di essere isolato dal resto del mondo, lui e i suoi amici. I Robinson Crusoe di un’isola tutt’altro che rassicurante.  

Oltre a Giorgio, anche la casa lo stava sfidando, ne era sicuro.

Allora piccolo Luca, che vuoi fare? Vuoi entrare a vedere come sono fatta dentro? O te la stai facendo nelle mutande? Inutile cagasotto.

La porta di ingresso si era leggermente allargata come a formare un sorriso di scherno. Ma era solo una illusione ottica dovuta alla paura, Luca ne era sicuro, le case non ridono.

«Non ho sentito ancora la risposta, cagasotto» lo incalzava quell’altro.

«Piantala Giorgio!» alzò la voce Sara.

«Non rompere! Se ti dà tanto fastidio tornatene a casa.»

Poi Giorgio si rivolse nuovamente all’involontario iniziato canzonandolo «Il piccolo moccioso ha bisogno dell’amichetta per farsi difendere gne gne gne» con le mani finse di asciugarsi le lacrime.

I due accoliti alle spalle di Giorgio sghignazzarono nuovamente come se sapessero fare solo quello.

Il tuo amico ha ragione, sei un piagnone buono a nulla. Dagli retta, sei un perdente e perdente rimarrai. Tornatene a casa, cagasotto.

Questa volta, oltre alla porta che sembrava sorridere, la casa parve scuotersi un paio di volte come quando non si ride di gusto a una battuta.

Ma Luca era sicuro anche questa volta, era l’ennesima manifestazione della paura. Le case oltre a non ridere, non si scuotono dal divertimento.

«Cagasotto mi sto stancando. Che vuoi fare?»

…non ci sono mai entrati, hanno paura… il bambino per un attimo ripensò alle parole di Sara.

Al diavolo! Si disse.

«Ci sto!» rispose serio posando i suoi occhi azzurri in quelli di Giorgio. Ne aveva abbastanza di quel ciccione e dei suoi galoppini. Se loro non erano mai entrati lui avrebbe fatto la differenza, e poi che lo venissero a chiamare “cagasotto”!

Gli altri rimasero per un attimo senza parole, le iene smisero di ridere, come se gli fosse arrivato uno schiaffo improvviso.

«Sei sicuro Luca. Non sei costretto» gli disse Sara.

«Stai zitta!» gli urlò Giorgio, poi, tronfio, si rivolse a Luca «Bene bene bene. Allora hai deciso finalmente.»

Luca non abbassò lo sguardo.

Quegli occhi azzurri, resi ancora più azzurri dal cielo terso che riusciva a penetrare quella boscaglia, non si abbassarono.

«Io entrerò lì dentro (con un gesto del capo indicò la casa), mentre voi a quanto pare non ci siete mai riusciti. Dovrei essere io il capo, non tu.»

Quell’altro accusò il colpo così come lo accusarono i suoi tirapiedi che si guardarono senza sapere se ridere o meno.

Poi Giorgio riguadagnò la strafottenza ereditata dal padre.

«Sì sì sì cagasotto. Quando sarai più grande (e più grosso probabilmente) di me poi ne riparliamo.»

Luca avrebbe mandato volentieri e “calorosamente” il suo amico in un certo posto, ma la mamma gli aveva sempre intimato che le parolacce non si dicono e così sarebbe stato anche questa volta.

Il piccolo iniziato si rivolse verso la casa «sono pronto.»

A quelle parole Giorgio si rivolse a una delle due “iene”: «dai, tira quella palla» e con un cenno indicò la casa.

Quell’altro non se lo fece ripetere due volte. Si mise in posizione e sfoderò un potente calcio che spedì la sfera colorata verso le finestre in alto.

Successe una cosa strana.

Era palese che la traiettoria impressa alla palla non gli avrebbe permesso di centrare nessuna delle finestre, ma come se ci fosse stata una mano invisibile a guidarla, la sfera a un certo punto deviò infilandosi nella finestra in alto a sinistra.

Tutti rimasero per un attimo allibiti per l’accaduto, poi fu Giorgio che ruppe il silenzio: «Però, bell’effetto che gli hai dato.»

«Veramente io…» provò a dire l’amico, ma fu subito interrotto dal ciccione che tornò a rivolgersi a Luca.

«Allora cagasotto, mi pare che la prova sia semplice. Entri, prendi la palla e la riporti… possibilmente entro oggi» ghignò.

Luca guardò prima la finestra in cui si era infilata la palla e dopo la porta di ingresso. Deglutì e per un attimo fu tentato di dichiarare la sconfitta, ma poi ci ripensò.

Eh no, e che cavolo! Ho appena detto che entrerò lì dentro e ora mi tiro indietro? Bel cagasotto che sarei! Si ammonì.

Si incamminò, non senza titubanza nelle gambe.

Prima di varcare il portone, che trovò socchiuso come a volergli facilitare le cose, ebbe il tempo di sentire Giorgio che gli gridava che se avesse incontrato il diavolo, di salutarlo da parte sua.

Non si dicono le parolacce, però a volte è veramente difficile trattenersi.

Era dentro.

Quello che vide gli piacque in parte. Lo tranquillizzava un poco il fatto che le finestre nelle varie stanze lasciassero entrare lame di luce e che quindi non si sarebbe avventurato all’interno di quella dimora al buio più completo. Di contro non lo tranquillizzava lo stato di abbandono della casa. La muffa e la polvere erano ovunque, regnavano incontrastate su ogni parete, telaio di finestra, pavimento. L’odore di stantio e di chiuso imperversavano fino dentro il cervello del piccolo Luca che per un attimo ne rimase disgustato. Il freddo che l’umidità e la continua ombra (e diciamolo tranquillamente, anche la paura) procuravano fecero venire la pelle d’oca al bambino.

Non c’erano mobili, le porte si aprivano su stanze spoglie, prive di qualsiasi oggetto che facesse supporre che una volta c’era vita, c’era qualcuno che vi abitava. Niente quadri alle pareti, nessun ritratto che facesse dire ah ecco chi ci abitava!

Un decrepito e malandato involucro fatto di calce e mattoni che esisteva con l’unico scopo di spaventare adulti e piccini.

Se non ci sono mobili e tutto è coperto di polvere e muffa vuol dire che nessuno ci abita, nemmeno il diavolo. Pensò Luca.

Perciò, dedusse, che avrebbe solo dovuto cercare quella maledetta palla stando solamente attento a non farsi male.

Questo pensiero gli diede un punto in più sulla scala della sicurezza emotiva.

La palla era finita all’ultimo dei quattro piani di quella dimora, perciò decise, giustamente, di non perdere tempo a ispezionare i piani inferiori. Imboccò direttamente l’enorme scala che portava ai piani superiori.

Il silenzio che lo accompagnava era opprimente, da ogni stanza sembrava ci fossero occhi che lo stavano scrutando. L’unico rumore che giungeva da quelle molteplici stanze era una eco lontana che i suoi passi producevano su quegli enormi gradini di quella enorme scala.

Dovevano proprio essere in tanti in questa casa pensò Luca valutando le dimensioni del manufatto che gli stava permettendo di passare da un piano all’altro.

A ogni piano, abbandono, muffa e polvere erano i signori incontrastati di quella dimora.

Luca non se la stava facendo proprio sotto, era in una via di mezzo tra “lasciamo perdere, forse è meglio non disturbare il diavolo” e “il diavolo non esiste!”. Ma c’era una prova da superare, Giorgio lo aveva sfidato e Luca, di rimando, entrando lì dentro aveva ovviamente accettato la sfida.

A pensarci bene, anche Luca implicitamente aveva sfidato Giorgio. Lo aveva sfidato per il ruolo di capo banda, come aveva detto Sara, loro non erano mai entrati lì dentro, lui sì!

Loro non avrebbero riportato la palla, lui sì!

Era evidente che non poteva tirarsi indietro ora, l’appellativo di cagasotto gli sarebbe rimasto cucito addosso come una seconda pelle.

No, doveva proseguire!

E poi era già a metà della rampa che lo avrebbe portato all’ultimo piano, ed era ancora vivo e sano di mente per giunta. Del diavolo nessuna traccia, ergo, la leggenda non era altro che una storiella per mocciosi frignoni.

Visto? Il diavolo non esiste, esistono solo i cagasotto come te.

Una risata lontana chiuse quelle parole.

Luca si immobilizzò, lo stomaco si chiuse e i giovani peli su braccia e gambe si fecero dritti come aghi.

Chi aveva parlato con quella voce profonda da lupo cattivo? E poi da dove? A Luca parve che l’intera casa avesse parlato, ma qualcuno doveva essere stato, lui era sicuro di no e le case non parlano.

Oh, mamma, adesso che faccio? Si domandò.

Fermo su quella scala, la mano appoggiata al corrimano cominciò involontariamente a sudare, come il resto del corpo. E non era sudore da partita di calcio in parrocchia o corsa sfrenata dell’acchiapparella, quello era sudore da pericolo in agguato, era sudore da “ho sentito una casa parlare e ridere!”

Ma sei cocciuto? Le case non parlano! Si disse.

Quindi c’era qualcuno nascosto in quelle stanze.

Il piccolo Luca si fece ancora più piccolo: il piccolissimo Luca.

Improvvisamente salire o scendere quei gradini era diventata un’operazione impossibile, la paura lo stava tenendo fermo lì.

Magari se sto qui, gli altri non mi vedono arrivare e mi verranno a cercare, forse solo Sara, ma qualcuno verrà… possibilmente prima che quell’altro mi uccida.

Fermo immobile arrestò anche il respiro cercando di acuire i sensi per individuare rumori che rivelassero la posizione o eventuali movimenti dell’altro.

«È una casa vecchia e i rumori sono solo le sue ossa che si stanno adattando alla sua età. Non avere paura, vieni pure a prendere la palla!»

Una voce diversa, femminile e leggermente tremula nell’esprimersi. Una persona avanti con l’età, la voce di una vecchina, ipotizzò.

Allora è vero, c’è qualcuno, probabilmente più di qualcuno in questa casa pensò il bambino.

Il fatto di sentire una voce gentile gli diede un vago senso di sicurezza e quel briciolo di coraggio per muovere le gambe di qualche gradino, rimanendo comunque sul chi va là.

«Chi c’è?! Signora non sono un ladro, mi chiamo Luca e sono solo venuto a prendere la palla!»

«Tanto meglio se non sei un ladro, sono anziana e non saprei come difendermi! Allora cosa aspetti? Vieni a prendere la palla, così gli fai vedere a quelli là fuori di che pasta sei fatto!»

Luca, a quelle parole, si decise a salire gli ultimi gradini.

Sbarcato su un enorme corridoio, vide che tutte le stanze erano mal illuminate dalla luce che riusciva a penetrare dalle finestre e nello stesso stato di abbandono di quelle dei piani inferiori.

Tutte le stanze tranne una che era rischiarata da una luce calda e tremolante, la luce di un fuoco, pensò.

«Vieni pure piccolo Luca, non avere paura. Te la porterei volentieri la palla, ma sono vecchia e le mie gambe altrettanto. Alzarmi e muovermi mi costa tanta fatica.»

Luca rimase dov’era. La voce di quella vecchina veniva sicuramente da quella stanza.

Immaginò una nonnina seduta davanti a un camino con la coperta sulle gambe, sola in quella dimora abbandonata.

Un po’ provò pena, lui aveva degli amici, un po’ fetenti, ma sempre amici. Invece quella vecchina non aveva nessuno.

Si ricordò delle parole della mamma: mai dare confidenza agli adulti che non conosci! Possono essere persone che potrebbero farti del male.

Ma c’era una prova da superare, una palla da recuperare, non poteva tirarsi indietro. E poi era una vecchina, che male poteva fare una vecchina a un bambino che poteva correre veloce come il vento?

Hai dimenticato la voce che hai sentito sulle scale? Quella da lupo cattivo? Puoi sfuggire anche a un lupo cattivo? Gli chiese il buon senso.

Hai sentito cosa ha detto la vecchina? È la casa che fa rumore da casa vecchia! Non c’è nessun lupo cattivo, hai immaginato tutto! Rispose la razionalità.

Perciò il piano era molto semplice, si sarebbe presentato, avrebbe chiesto la palla, avrebbe preso la palla, avrebbe salutato e come era entrato sarebbe uscito alla luce del giorno e con il pieno diritto di entrare nella banda di Giorgio e le sue iene (Sara esclusa ovviamente).

Si affacciò nella stanza.

Un enorme camino illuminava un ambiente che altrimenti sarebbe stato buio, lì la luce del sole era preclusa da scuri in quel momento chiusi.

Due poltrone dallo schienale alto, rivolte verso il fuoco, davano le spalle a Luca. Una era vuota, ma l’altra dava ospitalità a una persona. Dalla sua posizione il bambino poteva vedere una mano appoggiata sul bracciolo, un quarto del viso intento a fissare le fiamme e una coperta a scacchi rossi e neri, posata sulle gambe.

Il resto della stanza era spoglio di mobili o quadri alle pareti, ma questo perché Luca non aveva ancora finito di posare gli occhi su ogni angolo.

Lo stupore gli si disegnò sul volto quando vide che alla sua destra, in fondo, c’era un tavolo dove sopra faceva sfoggio ogni ben di Dio: pasticcini, torte, crostate e ogni tipo di leccornia che la mente e le mani di un pasticcere potessero creare.

Al centro di quel paradiso culinario, una teiera d’argento (o così sembrava a Luca), colpita dalla luce del fuoco, mandava riflessi brillanti e arancioni a una serie di tazze, anch’esse d’argento (o così sembrava a Luca). Le quali a loro volta scintillavano di luce arancione.

Tutto quel mangiare smosse l’acquolina al bambino, che cominciò a deglutire stupore e senso di fame sperando di calmare il brontolio di stomaco.

Una risata educata giunse da dietro lo schienale.

«Sento il tuo stomaco da qui. Tutto quel ben di Dio per una sola persona è sprecato non trovi? E poi sono vecchia, non riuscirei a mangiare tutte quelle leccornie nemmeno se avessi altri cento anni a disposizione. Perciò non fare complimenti, serviti pure e aiutami a finire tutto quel mangiare» rise nuovamente.

«Davvero posso?» chiese timidamente Luca senza staccare gli occhi da quel tavolo imbandito.

Un indice che sembrava più un artiglio che il dito di una vecchina, indicò l’oggetto dei desideri del bambino.

«Prego, fai come fossi a casa tua.»

Luca non se lo fece ripetere due volte, dimenticò la palla, dimenticò i suoi amici e dimenticò che quella era una casa che andava a braccetto con una sinistra leggenda. Si fiondò al tavolo e con educazione, come gli aveva insegnato la mamma, prese un piattino e vi posò sopra tanto cibo quanto poteva starci sul piatto e anche di più.

Finito di riempire il piatto, Luca rimase in piedi, con il tavolo alle spalle, in silenzio e con lo sguardo rapito dalle fiamme che rischiaravano l’ambiente.

Iniziò a mangiare.

«Perché non ti siedi, stare in piedi tutto il tempo con quel piatto in mano, va a finire che ti stanchi e potrebbe caderti.»

Il dito artiglio gli indicò la poltrona vuota.

Gli parlava senza staccare mai gli occhi da quelle fiamme, forse ha una paresi pensò Luca, può muovere le braccia, le gambe forse, ma non la testa. Povera vecchina, non doveva essere facile per lei vivere in quella enorme casa senza potersi muovere liberamente.

Allora cagasotto? Vuoi stare lì impalato o vuoi andarti a sedere?

Altra risata che si perse nelle stanze di quella dimora.

Luca si guardò attorno terrorizzato. Chi aveva parlato di nuovo? Chi altro c’era in quella casa che restava nascosto spaventandolo con quella voce da lupo cattivo che faceva rimbombare la sua testa?

Allora adesso ci credi che c’è qualcun altro lì con voi? Lo incitò il buon senso.

La vecchina lo tranquillizzò come se avesse potuto percepire la sua paura.

«Ah, non farci caso mio piccolo Luca, è una casa vecchia e come i vecchi passa le giornate a brontolare (rise). Ma non è cattiva, non ti farà del male. Te lo prometto. Ora però vieni a sederti e mangia con calma.»

La voce aveva un che di rassicurante, la melodia di quelle parole ebbero il potere di tranquillizzare il bambino che, piano piano, andò a sedersi.

È vero, le case non fanno male alle persone, non sono mica vive» disse arrossendo una volta seduto e guardando la occupante dell’altra poltrona.

Lo sguardo della vecchina si staccò dalle fiamme e si posò sul bambino e Luca poté scrutare per intero il volto di chi gli aveva appena regalato un favoloso spuntino.

Occhi color acciaio, resi luccicanti dal bagliore del fuoco, erano racchiusi in un reticolo di piccole rughe che sgualcivano un volto diafano e gentile dalle gote alte e il naso affilato. Capelli canuti erano raccolti in uno chignon tenuto in posizione da un fermaglio.

Un altro reticolo di rughe circondava labbra sottili che sorrisero al fanciullo mettendo in mostra denti perfettamente allineati e bianchi su cui si rifletteva il bagliore delle fiamme.

Sicuramente porta la dentiera come la nonna Pia, pensò Luca. Ma evitò, per buona educazione, di cercare conferma.

«Ma certo mio caro, le case non sono altro che involucri creati dall’uomo per proteggerlo. E se devono proteggerlo come possono anche fargli del male?» rise.

Poi si fece seria, pur non muovendosi dalla sua posizione, Luca ebbe come l’impressione che si protendesse verso di lui. Gli occhi cambiarono colore diventando neri e così profondi e grandi che il bambino ebbe l’impressione di cascarci dentro perdendosi per sempre, ne fu spaventato.

«Lo sai chi è che fa del male agli esseri umani? Altri esseri umani. Non è così?» Un’altra risata si perse nei meandri della dimora.

Anche la voce cambiò, più profonda, da uomo, quasi da… da orco pensò il bambino.

Luca si ritrasse nell’angolo della poltrona cercando di allontanarsi da quegli occhi enormi e dall’incombere di quella vecchina. Si era fatto così piccolo che ebbe l’impressione di trovarsi su un divano anziché una poltrona.

Il biscotto che aveva in mano cominciò a sciogliersi sotto l’azione del sudore che era comparso sulle mani.

«Non… non lo so, signora. Se lo dice lei che è grande.»

La vecchina rise tornando ad essere la vecchina gentile di un attimo prima.

«Oh, piccolo Luca, non serve essere grandi per dire quello che ho detto. È così, basta che ti guardi in giro. Basta che guardi appena oltre il tuo naso» con la punta dell’indice si indicò il naso affilato.

Luca guardò la mano, talmente grinza da sembrare appartenere a una vecchina ancora più vecchina di quella che aveva di fronte. Più artiglio che mano. Le dita terminavano con unghie affilate e di colore scuro, sembravano sporche di terra, come avesse lavorato in giardino fino ad un attimo prima e non si fosse pulita bene le mani.

Addentò con fatica un pezzo di biscotto ed evitò di fargli notare che le mani andrebbero lavate.

«Non sei forse entrato in questa casa per superare una prova? Per dimostrare a quell’antipatico di Giorgio che hai coraggio sufficiente per entrare nella banda? Quando bastava che ti accogliesse con un gesto gentile. Mandare un bambino piccolo come te in una vecchia casa e poco sicura con il rischio che ti faccia male. Non è forse la dimostrazione di un essere umano che si diverte a fare del male a un altro? E siete solo bambini, pensa cosa possono farsi gli adulti tra di loro.»

Questa volta ghignò e con lei si fece sentire di nuovo quella risata da lupo cattivo che si perse nell’eco di quelle stanze.

Luca si guardò alle spalle, al di là dello schienale, poi tornò sulla vecchina.

«Sì, immagino di sì» rispose, più per cortesia che per aver afferrato il concetto.

«E per cosa poi? Per questa.»

Da sotto la coperta, la mano artiglio fece spuntare la palla.

Luca riconobbe che non era una palla qualsiasi, ma era la palla. Il premio di ammissione nella banda di Giorgio e iene a seguito (Sara esclusa ovviamente).

«Ecco per cosa sei venuto fin quassù. Per un pezzo di plastica, dico bene?»  

«Sì signora, è così.»

La risposta uscì con fatica.

Poi qualcosa mutò e il bambino si ritrovò ad aver davvero paura, quella che fino ad un attimo prima gli era sembrata una vecchina per bene, ora non gli sembrava tanto per bene. Come non era più tanto sicuro che loro due fossero i soli presenti in quella dimora. Si guardò nuovamente alle spalle.

La stanza era rischiarata dalla luce delle fiamme, ma oltre la soglia era buio, buio pesto, denso, come se fuori da quella stanza il mondo fosse scomparso. Era un muro nero che non avrebbe permesso a Luca di scappare.

La vecchina richiamò la sua attenzione, la voce si fece di nuovo da orco. Gli occhi di nuovo grandi e scuri da sembrare due pozzi senza fondo. I riflessi delle fiamme saettavano in quelle oscurità perdendosi nel buio profondo.

«No, non è così! Tu non sei qui per questa (gli avvicinò l’oggetto sferico), tu sei qui per dimostrare il tuo coraggio, la tua forza, per dimostrare che non hai paura. Sei qui per dimostrare che in realtà sei tu che devi comandare quella massa di smidollati che stanno là fuori e non quel cagasotto di Giorgio!» La voce si fece di qualche tono più alto e gli occhi di qualche taglia più grandi. Per un attimo a Luca parve di intravedere fauci al posto della dentatura perfetta di un attimo prima.

Il bambino strinse con forza i braccioli della poltrona, il piatto cadde a terra riversando sul pavimento il contenuto. Ma Luca non ci badò, era ipnotizzato e allo stesso tempo terrorizzato da quella vecchina.

Avrebbe voluto scappare a gambe levate, ma la paura lo teneva inchiodato lì, su quella poltrona, in quella stanza, in quella dimora dove qualcuno rideva e parlava con voce da lupo cattivo. In compagnia di una vecchina che non era del tutto una vecchina.

Involontariamente le lacrime rigarono il volto del bambino.

Prova tangibile di un terrore incontrollato.

«Signora, ho… ho paura, posso avere la palla e andare via?»

La vecchina tornò normale (se si passa il termine), una vecchina dolce e gentile che tutti i nipoti vorrebbero abbracciare ogni volta che ne hanno l’occasione.

Guardò Luca sorridendo.

«Oh piccolo mio, non importa che piangi, non volevo spaventarti. Sono vecchia e ogni tanto mi faccio prendere la mano. Ti chiedo scusa, è che non sopporto le ingiustizie sui più piccoli. Tutto qui.»

Si girò nuovamente verso le fiamme con il sorriso stampato su quelle labbra sottili.

Luca si asciugò le lacrime con la mano che fino ad un attimo prima reggeva il piatto, mentre con l’altra teneva ancora ben saldo il bracciolo della poltrona. Non riusciva a mollarlo, come fosse la cima che tiene ferma la nave altrimenti in balia del mare agitato.

Non staccava gli occhi di dosso da quella persona. Nonostante la vecchina fosse tornata tale, la paura non lo stava abbandonando.

Un senso di allerta lo pervase, quasi fosse un radar in cerca di nemici che per adesso non si facevano vedere ma che c’erano.  Nascosti dove? Sotto la coperta? Dietro la poltrona? Nelle stanze di quella dimora?

Poi si girò per l’ennesima volta ritrovandosi a guardare quel rettangolo buio che nemmeno il chiarore delle fiamme riusciva a illuminare. Al di là di quella soglia c’erano le scale, a seguire l’uscita e poi il giardino dove dei bambini lo stavano aspettando.

Il percorso era semplice, lineare, non c’erano deviazioni o porte da scegliere. Un fuscello come Luca avrebbe potuto correre veloce come il vento ed essere alla luce del sole, in quanto? Secondi? Forse un minuto al massimo? Magari avrebbe anche stabilito il primato di fuga da una casa stregata e da una vecchina strana, pensò.

Ma c’era qualcuno ad attenderlo dietro quella soglia, nascosto in quelle stanze, lo aveva sentito parlare e ridere. Parlare con malignità e ridere in modo sinistro.

È vero, le case non parlano, non ridono e non fanno del male. Ma le persone sì!

A quella persona sarebbe riuscito a sfuggire? Alla vecchina senza ombra di dubbio, ma al tizio nascosto nell’oscurità?

Si sentiva in trappola, confidava che i suoi amici, non vedendolo ancora tornare, fossero andati a chiamare i genitori. Avrebbe preso una ramanzina e a seguire una punizione, ma meglio quello che non uscire da quella dimora se non da quella stanza.

«Non hai bisogno dei tuoi amici, non hai bisogno di quei piccoli ingrati figli di buona donna» gli disse la vecchina continuando a guardare le fiamme.

A quelle parole il bambino tornò a guardarla senza però obiettare.

«Tu sei speciale mio piccolo Luca. Tu sei meglio di chiunque tra quelli che sono là fuori ad aspettarti. Loro non hanno avuto il coraggio di entrare, mentre tu eccoti qui. Questo non ti rende migliore di tutti? Oh sì, il migliore di tutti, io sono il tuo primo sostenitore. E vuoi sapere perché sei migliore di quelli là fuori? Perché dentro di te ardono le fiamme, dentro di te hai il fuoco.»

Non lo guardava, parlava continuando a fissare le lingue di fuoco che stavano consumando un ceppo facendolo scoppiettare. Sorrideva, parlava e sorrideva, come se stesse provando un gusto perverso nel vedere quel ceppo aggredito dalle fiamme.

Luca continuava a guardare la vecchina ma senza proferire parola, era in uno stato catatonico, non sapeva perché ma si sentiva terrorizzato da quella persona e allo stesso tempo attratto dalla sua voce. La melodia delle parole che uscivano da quella bocca era come il profumo dei fiori per le api.

«Il fuoco, mio caro, è forza. È la fine per un nuovo inizio, è il passaggio tra la morte e nuova vita! E tu dentro hai il fuoco, lo so, lo vedo.»

Indicò le fiamme.

«Guarda quelle fiamme Luca e dimmi cosa vedi.»

Il bambino fece come richiesto, guardò quelle lingue di fuoco agitarsi ma senza vedere altro che delle fiamme.

«Non vedo niente.»

«Avvicinati, concentrati.»

Scese dalla poltrona e si avvicinò al fuoco, constatando che, sorprendentemente, non bruciava.

«Non sento il calore, non brucia!» allungò una mano per sotto intendere quanto aveva appena scoperto. «Però non vedo che del fuoco, signora.»

«Allora se non brucia avvicinati di più, non avere paura caro. Il fuoco non può fare male a un altro fuoco, lo può solo alimentare. Avvicinati Luca, non temere. Non hai da temere niente.»

Allora il bambino si portò praticamente a ridosso delle fiamme, con la mano indugiò per un attimo ma poi la allungò quel tanto da toccarle. Non bruciavano, stava toccando il fuoco e non si stava bruciando!

Incontenibile fu la sorpresa che si ritrovò a ridere, accarezzava le lingue di fuoco e rideva, rideva come un matto. Non riusciva a smettere tanto che le lacrime gli spuntarono agli angoli degli occhi.

«Non mi brucio!»

«Cosa ti avevo detto, ma ora che sei così vicino, concentrati e dimmi cosa vedi tra quelle fiamme, non ti sembrano vive? Non vedi forse dei bambini che si stanno divertendo come te in questo momento? Altri bambini che ardono di vita, di energia.»

Luca mise la faccia dentro alle fiamme e sì, ora li vedeva!

Prima erano volti confusi, ma man mano che si concentrava poteva distinguere occhi, bocche, mani e persino piedi. Erano bambini fatti di fuoco che si stavano divertendo, ridevano giocando spingersi tra di loro e ogni volta che si toccavano le fiamme viravano dall’arancione al rosso e allora giù a ridere come matti.

Luca lo trovava spassoso. Con la mano cercava di afferrare quei bambini di fiamme ma questi si scomponevano al contatto per poi ricomporsi.

Ridevano e ridevano ancora. Quanto si stanno divertendo quei bambini pensò Luca, chissà se mi divertirei anch’io come loro si chiese.

Poi un bambino di fuoco si fermò tremolando sul posto, come accortosi della presenza di Luca lo guardò sorridendo e gli rivolse un saluto con la mano infuocata. Luca ricambiò, come ricambiò i saluti che gli altri bambini di fuoco gli fecero a seguire.

«Vi state divertendo a quanto pare» gli disse.

I bambini fiamma non risposero, di rimando si guardarono tra di loro e risero portandosi una mano davanti alla bocca, come a voler ridere educatamente di una battuta. 

«Perché non mi rispondete? Non potete parlare?»

Di nuovo quel ridere pudico.

Poi una di quelle fiamme fanciullo gli fece segno di unirsi a loro e sottolineò la cosa allungando una mano in attesa di quella di Luca.

Anche le altre fiamme fanciullo lo esortarono a unirsi a quella baldoria.

Luca sorpreso allungò una mano e prese quella del bambino fiamma e con l’altra sentì che era stata presa dalla mano di un altro bambino di fuoco.

Sorrise e di rimando ricevette sorrisi.

Con incredulità e compiacimento ora si trovava dentro quel fuoco fatto di bambini come lui e anche lui era diventato di fuoco, ardeva e si sentiva felice come non lo era mai stato.

Guardava gli altri nuovi compagni di giochi e pensava che sì, la vecchina aveva ragione, lui aveva il fuoco dentro e lo avrebbe dimostrato anche a Giorgio e iene a seguito (Sara esclusa ovviamente).

Ma ora voleva giocare un po’ con questi nuovi amici, voleva essere per un po’ un bambino fatto di fuoco.

Si voltò a guardare la vecchina, voleva ringraziarla per avergli presentato dei nuovi amici, per aver acceso il fuoco che mai aveva ripreso come ora.

La vecchina, nel frattempo, si era alzata dalla poltrona e ora il volto dominava soddisfatto sopra le fiamme, come un bambino che ammira la sua collezione di figurine.

Un volto mutato in quello di una creatura dalla pelle che sembrava cartapesta, i cui denti, prima regolari e bianchi ora erano fauci aguzze e gli occhi erano masse informi di un liquido nero e vischioso al cui centro ardevano anelli incandescenti.

Quella creatura rideva compiaciuta ma il bambino non ne aveva paura.

Guardava quell’enorme volto mostruoso e sghignazzante incombere su di lui ma non ne era turbato, perché lui ora era fuoco, era forza, era invincibile.

Salutò e ringraziò quel volto e incitato dai nuovi amici si perse a giocare tra quelle fiamme, per sempre.

Quando Luca aprì gli occhi constatò di trovarsi in piedi, al centro di una delle molteplici stanze di quella dimora, rischiarata da quel poco di luce che riusciva a filtrare dalle parti danneggiate degli scuri chiusi e che in mano aveva la palla. Davanti a lui c’era un enorme camino che sicuramente in tempi passati aveva scaldato chiunque vivesse o soggiornasse in quella stanza, ma che ora giaceva tristemente vuoto e vittima dell’incuria impietosa dello scorrere del tempo.

Si guardò attorno e ghignò di soddisfazione. Ce l’aveva fatta, aveva preso quella maledetta palla, aveva dimostrato che il coraggio necessario per entrare di diritto nella banda ce l’aveva eccome.

Perché lui era Luca, lui aveva il fuoco dentro, ora lo poteva sentire, percepire chiaramente. E quelli là fuori se ne sarebbero accorti (Sara inclusa). Il ghigno si fece ancora più evidente.

Si incamminò verso l’uscita.

«Ah eccoti qua finalmente, cagasotto!» alzò la voce Giorgio quando vide che dal portone si palesò il bambino.

Gli altri si girarono nella stessa direzione, le iene risero sommessamente, Sara invece sospirò di felicità perché era tornato sano e salvo.

Luca non rispose, teneva stretta tra le mani la sfera di plastica e lo sguardo su di essa.

Non si mosse, varcata la soglia, se ne stava fermo.

Giorgio guardò per un attimo i suoi tirapiedi e fece spallucce ricevendo spallucce in risposta.

«Ehi stronzetto! Perché te ne stai lì impalato? Cerca di darti una mossa, abbiamo bisogno della palla per giocare!» gli gridò Giorgio.

«Dai Luca che andiamo a casa!» corresse il tiro Sara.

Luca non rispose ai richiami, rimanendo con gli occhi fissi sulla palla, prese a muoversi in direzione degli altri bambini.

Il volto era ghignante e la cosa inquietò i presenti.

«Cagasotto, tutto bene?» chiese titubante Giorgio quando quell’altro gli si portò di fronte.

Nessuno fiatava. I leccapiedi di Giorgio fecero inconsapevolmente un passo indietro. Sembravano in attesa di chissà quale immane reazione da parte dello sghignazzante e inquietante vincitore della sfida.

A quel punto Luca alzò lo sguardo piantando i suoi occhi azzurri in quelli di Giorgio. Occhi in cui per un attimo balenò un riflesso nero rischiarato da piccoli anelli incandescenti.

Gli allungò la palla poi scoppiò a ridere.

La più grossa risata che Luca avesse mai fatto.

L’INNOCENZA DEL DIAVOLO di Marco De Lorenzo

genere: HORROR E GOTICO

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