L’ISOLA DEL DIAVOLO di Federico Berlioz

genere: THRILLER

Prologo

Si può fantasticare molto sul carcere, che rappresenta una drammatica immagine della libertà negata e di un rifiuto radicale della società di fare i conti con sé stessa.

Le dinamiche che avvengono al suo interno sono inimmaginabili.

Il carcere ha una sua materialità dalla quale non si scappa: muri di cinta, sbarre, chiavi, lunghi corridoi, suoni che echeggiano, radio accese qua e là, televisori ad alto volume, file di celle con tanti uomini e donne dentro.

Il concetto di tempo e del come gestirlo risulta totalmente stravolto rispetto a quello in cui si è abituati fuori. Si allunga ma nello stesso tempo si piega su sé stesso. È tanto, tantissimo, troppo, ed è terribilmente scandito, programmato, al punto di annullarsi totalmente.

Non tutti i detenuti riescono a trovare la forza necessaria di convivere non solo con la privazione della libertà in sé, ma anche con la privazione della libertà di gestire il proprio tempo e il proprio spazio.

La vita dei singoli e cadenzata dalla conta dei detenuti, cioè il controllo numerico dei presenti all’interno dei reparti detentivi e nel cortile dei passeggi, ripetuta più volte, in alcuni casi anche di notte; dalla battitura delle sbarre da parte dei secondini, ritenuto da tempo un rito inutile, ad ogni passaggio delle guardie carcerarie; dalle perquisizioni, sempre all’alba, con la devastazione delle celle.

In carcere i controlli non si fermano mai, sono eseguiti sempre a sorpresa, scandiscono il tempo.

I cancelli sono chiusi e le luci sempre accese. La vita è segnata dalla coercizione. Un virus devastante impregna l’aria, colpisce e trasforma le condotte di ogni personalità senza distinzione.

Non c’è pietà né umanità, tutti obbediscono alla retorica cieca e odiosa delle regole carcerarie.

In carcere si vive con le spalle al muro. Nessuno può far finta di essere un benemerito del dovere e della virtù.

In queste condizioni è difficile che riaffiori un sentimento di umanità.

L’attesa di un dono gratuito, di una felicità improvvisa è una speranza vana.

Nessuno si scandalizza più della cattiveria umana.

Quello che, magari, si era intravisto da bambino, qui non è più visibile. Le circostanze e le avversità della vita lo hanno portato lontano, molto lontano…

Capitolo 1

Uccidere un uomo guardandolo dritto negli occhi non è facile, nemmeno se questo è un pezzo di merda.

Per i ragazzi di Porto Azzurro, invece, è la cosa più naturale del mondo.

Bere un caffè o uccidere un uomo è qualcosa che gli viene naturale.

I quattro uomini, che erano diventati amici per la pelle, si sedettero attorno a un tavolino.

Dovevano prendere delle decisioni.

Giancarlo chiuse gli occhi e disse:

«La questione si chiama D’Agostino, lo sappiamo tutti.»

A uno come Gerardo, non servivano altre spiegazioni per fare due più due.

Tra loro c’era stato un giuramento. Un impegno che pretendeva la totale e autentica dedizione poiché il patto tra loro era di sangue.

Questo era il motivo per cui il loro gruppo era stato tanto duramente e pazientemente selezionato.

Solo dopo aver spezzato un uomo, ti rendi conto chi egli sia veramente e, soprattutto, di quanto ti puoi fidare di lui.

«Ok, me ne occuperò io!» disse Gerardo.

Non potendolo ringraziare apertamente, Giancarlo indugiò con disagio.

Quello che avevano fatto a Giancarlo era gravissimo e Gerardo non aveva alcuna remora a occuparsi della faccenda.

Anzi, non vedeva l’ora di farlo.

Gerardo e Giancarlo si alzarono e si strinsero la mano.

In quel momento la porta si aprì all’improvviso: era il comandante Mario Ruotolo.

La scena che si trovò davanti era molto curiosa.

Tiger Agimor e Massimo Viti erano seduti, mentre Gerardo Matali e Giancarlo D’Arienzo stavano in piedi uno di fronte all’altro, alle due estremità del tavolo che si stringevano la mano.

Il comandante capì immediatamente che in quella stanza, con quella stretta di mano, era stata fatta una promessa solenne.

Fermo sulla porta, con la mano ancora sulla maniglia chiese:

«Che sta succedendo qui?»

Nessuno gli rispose.

Gli occhi erano tutti fissi sui due uomini in piedi.

Era come se il tempo si fosse fermato per tutti.

Poi, all’improvviso i quattro uomini scoppiarono a ridere.

Chi cantava, chi rideva, chi diceva a Giancarlo di essere un pervertito.

Ridevano, e tutti e quattro si davano pacche sulle spalle.

Il comandante alzò gli occhi al cielo.

«Bene, vi state divertendo! Sono contento per voi!»

«In questo posto non si ride molto!» rispose Massimo.

«Di solito ride il più forte» riprese il comandante.

«Spesso ride chi è più sveglio, o più furbo» aggiunse Giancarlo.

«Altre volte, invece, sono semplicemente i più violenti a ridere» esclamò ancora il comandante.

«Ecco perché non si ride molto qui!» concluse Gerardo.

L’argomento, sempre presente sull’isola del diavolo, era l’onnipresente tema di come evitare di essere ammazzato o violentato.

Due cose contavano a Porto Azzurro.

La prima era la forza di volontà che faceva la differenza; ma non era l’unico fattore in gioco.

L’altra era il fisico che doveva essere all’altezza della sfida quotidiana.

«Questa è la realtà, quella vera… quella con cui dovete conviverci. E sapete qual è l’errore che fanno, spesso, le persone qui?» aggiunse il comandante.

«No!» rispose Matali.

«Pensano troppo!» rispose quegli, sorridendo mentre chiudeva la porta.

Il vitto che passavano, nessuno capiva perché si chiamasse così, era talmente disgustoso e ripugnante che neanche gli scarafaggi lo mangiavano.

La luce pallida delle lampadine al neon sempre accese, anche di notte, rendeva l’ambiente angosciante.

Tutto era studiato come se si volesse far assomigliare quel posto a un luogo lontano dai confini della realtà.

Più soffrivi, più diventavi forte o debole, punto e basta.

Capitolo 2

Appena scendo due gradini mi placcano tre secondini e mi trascinano via.

Arriviamo al “blocco D”: la sezione di transito-isolamento. Mi spingono all’interno di una “cella liscia”, così chiamata nel gergo carcerario perché dentro non c’è nulla, non ci sono sanitari, né maniglie, nessun tipo di appiglio o arredamento.

Una tavola di ferro, imbullonata sul pavimento, funge da letto e da tavolino.

I bisogni si fanno in un buco aperto sul pavimento che puzza di urina rancida.

Senza riscaldamento e senza acqua calda.

Vieni rinchiuso in questo reparto, per motivi di sicurezza nell’ambito di situazioni che comportino pericoli più o meno gravi, per poche ore, o anche per settimane.

Mesi, per motivi di opportunità.

Sei lasciato lì da solo, abbandonato a te stesso.

Senza televisione.

Senza libri o riviste.

I soggetti ivi tenuti stabilmente sono, quasi sempre, trans, drogati in crisi di astinenza, pedofili, immigrati clandestini, malati psichiatrici….

Questi urlano e sbraitano tutto il tempo.

Topi e scarafaggi sono ovunque, nel corridoio, nelle celle, nelle docce e sul carrello porta-vitto.

Un posto davvero orribile, durissimo, raccapricciante…

L’intera sezione sembra un covo di maniaci.

Senti imprecazioni del tipo:

«Figlio di puttana. Mi sono proprio rotto le palle di vederti, ti uccido!»

Quando passa l’infermiera con il carrello della terapia si sentono dire le peggio cose.

«Troia, succhiami il cazzo, fammi una sega.»

Frasi impensabili.

A un pedofilo di Lucca, che imbottivano di tranquillanti, gli chiedevano tutti i giorni se volesse mangiare, e lui:

«Ah, già! Sì!»

Da solo non se lo ricordava proprio.

Volete sapere perché mi trovo in questo reparto di maniaci?

Semplice! Perché ci sono due modi con cui le autorità carcerarie affrontano chi percepiscono come una minaccia: o lo assorbono, o lo annientano!

In effetti, sono stato un cattivo ragazzo, questo sì.

Un delinquente risoluto e un assassino per sbaglio.

Oh, mi sono preso la mia parte di colpe senza collera e senza risentimento.

Ormai da oltre un ventennio, più o meno, calpesto il suolo carcerario.

Sono diventato la memoria vivente di molte atrocità accadute in questo inferno.

Ricordo ancora come fui accolto all’arrivo in questo posto insieme con gli altri novellini.

I secondini ci fecero spogliare nudi, poi ci spinsero sotto le docce dove ci spararono addosso un getto vaporizzato anti-pidocchi.

Quello fu il benvenuto.

… una notte mi alzai per pisciare, protesi le braccia in avanti a causa del buio e della mancanza di appigli, con le mani tese in avanti urtai un ostacolo.

Seguivo il muro della parete laterale sinistra, camminando a tentoni verso la turca.

Il pavimento era umido e sdrucciolevole.

Procedetti ancora per qualche attimo, poi inciampai e stramazzai a terra.

Avvertii un forte dolore alla mano destra.

«Cazzo, me l’ero fratturata!»

Chiamai il secondino di guardia alla sezione e restai diversi minuti con le orecchie tese, ma non ottenni nessuna risposta.

Niente.

Un lieve fruscìo attirò la mia attenzione e buttando un’occhiata sul corridoio della sezione, nella direzione da cui proveniva lo strano rumore, vidi due topi giganteschi che lo attraversano indisturbati.

Veri topi di fogna neri, grossi e con il pelo nero e lucido, mentre la coda era rosa.

Provenivano dallo scarico della fogna posto al centro del corridoio sprovvisto di grata.

Lesti, con occhietti avidi, stimolati dall’odore dei rifiuti nei bustoni neri accumulati in fondo alla sezione, avanzavano sicuri e decisi.

Era trascorsa mezz’ora o forse anche un’intera ora, senza che nessuno si fosse fatto vedere.

Sentivo un dolore pulsante salirmi fino al gomito destro.

In attesa che si affacciasse qualcuno, aprii il rubinetto e misi sotto l’acqua fredda la mano dolorante per trovarvi un po’ di refrigerio.

All’improvviso sentii un urlo straziante. I sorci spaventati indietreggiavano come in allarme e se ne tornavano veloci dentro lo scarico della fogna.

Un tossico in crisi di astinenza si era tagliato con una lametta.

In carcere tagliarsi è un atto quotidiano, un modo per richiamare l’attenzione o per dimostrare un’arrogante disprezzo verso i secondini.

Dalle urla che lanciava pareva che lo stessero sgozzando.

A quel punto giunsero alcune guardie accompagnati da un ispettore.

Al loro passaggio, provai ad attirare la loro attenzione, ma ottenni solo un cenno da uno di loro, come per dire:

«Aspetta non vedi che siamo impegnati.»

Quando aprirono la cella il tossico sanguinava dalle braccia, era in crisi d’astinenza e chiedeva qualcosa per i dolori.

I secondini, che indossavano guanti di protezione e scudi antisommossa, gli si misero intorno in attesa dell’arrivo del medico di guardia.

Il tossico tirò fuori da sotto la lingua un’altra lametta e iniziò a tagliarsi le cosce fino ad arrivare ai testicoli; poi con un gesto rapido li recise e li buttò in faccia all’ispettore. Sentii un brivido come quando si produce lo sfregamento della stoffa.

Quando gli arrivò addosso la sacchetta di pelle con i testicoli, l’ispettore impallidì come un lenzuolo e svenne cadendo lungo sul pavimento.

Dopo un prolungato spasmo di agonia, il tossico cadde pesantemente in terra.

Sembrava tutto così irreale, mentre restavo immobile a guardare la scena dalla mia cella.

Dalla fogna uscirono altri sorci di grosse dimensioni. Il più ardito del gruppo, mosso dalla voracità, prese a correre veloce verso l’ispettore disteso per terra.

Gli annusò la faccia leccandosi i baffi

Era il segnale prestabilito per un’invasione generale.

Il pavimento attorno all’ispettore, si riempì di topi.

Erano eccitati, audaci, affamati e i loro occhietti rossi erano fissi su di lui.

Un secondino staccò rapidamente un estintore attaccato alla parete e iniziò a sparare, in successione, brevi e prolungati getti di polvere per ricacciarli indietro.

Le bestie affamate, spaventate dall’improvviso getto dell’estintore, indietreggiarono come in allarme, alcune se ne tornarono nella fogna, altre indugiavano.

Ma solo per un breve istante.

Poco dopo ne arrivarono a frotte.

I guardiani avevano sottovalutato la loro voracità.

Presero l’ispettore sotto le ascelle e lo trascinarono al riparo dietro gli scudi.

Un topo, più intrepido di tutti, si avvicinò al tossico disteso per terra e prese a leccargli il sangue che gli sgorgava dalle ferite.

Su una delle scale d’accesso alla sezione si affacciò un giovane medico titubante.

Il suo aspetto rifletteva un’espressione di perplessità.

Mi passò davanti trepidante; poi proseguì verso il gruppo dei carcerieri avvolti in una nuvola di polvere bianca.

Un trans, svegliato dal casino, urlò imbestialito contro gli agenti di custodia.

Prese a lanciare fuori dalla cella le sue feci proprio mentre passava il medico che ne fu colpito in piena faccia.

Questi vomitò all’istante.

Intanto, al riparo degli scudi, le guardie carcerarie arretravano verso il fondo.

Un topo imbiancato fece dietrofront e velocissimo, prese al volo i coglioni del tossico e sparì all’interno della fogna.

Mentre sgambettava via veloce, scorsi un ghigno di soddisfazione sul suo musetto.

Buon appetito, mi venne da dire.

Nel tentativo di respirare tra il puzzo di merda, il vapore soffocante dell’estintore, l’odore intenso del sangue e il vomito, mi ritirai verso il centro della cella.

Il mio cervello si rifiutava di credere a quello che stava accadendo.

Mentre contemplavo la scena, provavo una nausea invincibile.

Mi distesi sulla branda stanchissimo e con la mano destra dolorante.

Poi, senza nemmeno rendermene conto, mi addormentai in un sonno agitato, popolato da immagini di topi che mi guardavano con una vivacità sinistra.

Capitolo 3

Sono le due di pomeriggio.

Osservo dalla finestra della cella, posta vicino ad un vecchio cannone francese, il cortile dei passeggi dove guardie e detenuti se le stanno dando di santa ragione.

Il cannone, lasciato lì sul cammino di ronda della controscarpa dall’esercito invasore francese, che nei secoli precedenti aveva più volte conquistato l’isola, è un pezzo di storia.

Non riesco a sentire quello che dice il direttore al comandante, perché gli urli cupi e tremendi dei detenuti sono sovrastanti.

La giovane ispettrice Silvia Ruotolo, la figlia del comandante, guarda quella scena di guerriglia come se stesse in uno stato di trance.

Viene spesso sull’isola, anche se assegnata al carcere di Livorno.

Non è bella, anzi, diciamo che non è il tipo da far smaniare di desiderio un uomo.

È una donna piuttosto schiva.

Una volta a un’adunata in cortile, mi sono trovato vicino a lei e osservandola di sottecchi, ho notato che aveva un naso grosso.

Poi ho fatto caso alle sue unghie, mangiucchiate a sangue. Era evidente che portava un reggiseno imbottito per far stare in posizione di sparo i seni.

In un certo senso mi fa pena.

Quello che però mi piace di lei, è che non ci rifila mai le merdate di suo padre.

Io sono qui, in cella d’isolamento.

Il direttore si sente più tranquillo così.

Sono la sua stramaledetta nemesi.

Una settimana prima, ero andato con altri due detenuti, a chiedergli se avesse potuto autorizzarci l’accesso ai locali della biblioteca per studiare.

Lui ci aveva chiesto:

«Cosa studiate?»

«Signor direttore, stiamo facendo una ricerca sulla noce di mare» avevo risposto io.

Gli altri due detenuti avevano abbassato gli occhi, come a guardare il pavimento.

«Ah, e che cos’è?» aveva replicato.

«È un animale che ha l’ano mobile.»

Mi aveva fissato per alcuni istanti, pensieroso.

Poi aveva domandato:

«Cioè?»

«La noce di mare è un piccolo animale marino trasparente di cui non c’è differenza tra ano e bocca, il buco da cui entra il nutrimento è lo stesso da cui escono gli scarti. Le ricorda qualcosa signor direttore?»

La sua faccia aveva cambiato colore.

È molto divertente ripensare alla scena; ma il direttore non aveva riso per niente e aveva detto:

«No, la biblioteca è inagibile.»

Quindi, sono tornato al mio solito posto, in cella d’isolamento.

Sono stato avvisato più volte di non mettermi contro di lui, specie durante i periodi delle rivolte, ma io niente, proprio non riesco a non dirgli quello che mi passa per la mente.

Ad ogni modo è agosto, l’aria e caldissima come i capezzoli di una donna in calore.

Ho addosso soltanto una maglietta di cotone vecchia come la mia condanna e un pantaloncino verde corto fino alle ginocchia.

Giorni fa, qualcuno è entrato nella mia cella mentre ero a fare la doccia, e mi ha rubato tutti gli indumenti estivi.

A Porto Azzurro ci sono un sacco di delinquenti e farabutti.

Senza scherzi, ci sono una quantità di uomini che provengono da famiglie poverissime.

Un carcere più è povero e più ci sono ladri e farabutti.

Vicino a quel vecchio cannone arrugginito, osservo la rivolta in corso.

Inutile dirvi per chi faccio il tifo.

Solo che alla rivolta ci bado poco.

Mentre sto lì a guardare, cerco di capire il senso di quella strana ribellione.

Voglio dire, il mio istinto dopo anni di prigionia, mi dice che sotto sotto cova qualcosa di più.

Sento che qualcuno sta per sorprendermi. È una cosa che odio essere sorpreso, ma allo stesso tempo so ammirare gli uomini che mi sorprendono.

È uno di quei pomeriggi pazzeschi, caldo da morire, senza ombra né riparo.

Ti senti evaporare come un ghiacciolo al forno.

Non ha senso iniziare una sommossa con un clima così a sfavore.

Mi passo la mano sui capelli tagliati a zero. Li faccio rasati così non c’è da usare il pettine che peraltro è vietato.

Finalmente capisco cosa stona in quella scena di guerra. Mi si è accesa una lampadina nel cervello.

Manca il capo della rivolta!

Gerardo Matali.

Una battaglia è una battaglia se da una parte ci sono i capi, e anche dall’altra parte.

E chi lo nega? Ma se stai da una parte dove di capi non ce n’è nemmeno mezzo, allora che accidente di battaglia è?

Scuoto la testa.

Scuoto la testa ogni volta che qualcosa non mi quadra.

Certe volte mi comporto come se fossi molto più vecchio di quanto in realtà sono.

Un minuto prima della battaglia nel cortile dei passeggi regnava la calma assoluta.

In mattinata l’aria era già calda e afosa; avvolgeva l’intera isola.

La campana della chiesa locale batteva dei rintocchi che giungevano come ovattati e pigri.

Per Valerio Ferri, il direttore del carcere, essi suonavano come un conto alla rovescia: non c’era cibo a sufficienza; mancava il sapone; e nemmeno la carta igienica per pulirsi il culo; il malcontento e le violenze erano in aumento.

Solo gli sconsegnati (i ruffiani del direttore) potevano permettersi dei pasti decenti, farsi la doccia e avere la carta igienica.

Alcuni detenuti erano così poveri che portavano abiti senza forma, così sbiaditi dai lavaggi che il loro colore originario era difficilmente deducibile.

Una settimana prima uno “sconsegnato”, Mario Adamo ex tossico di Ventimiglia, era stato accoltellato nelle docce.

Poi era toccato a Edoardo Pinna, era stato picchiato a sangue.

L’aggressione era avvenuta il giorno dopo che aveva fatto una spiata al direttore.

Durante l’ora d’aria nel cortile l’avevano pestato duramente.

I suoi carnefici, gli erano saltati con i piedi sulle braccia spezzandogliele.

Subito erano intervenuti i carcerieri, ma quelle erano state soltanto le prime avvisaglie.

Qualcosa di più grosso stava per succedere.

Molti, desideravano con tutto il cuore che l’isola del diavolo implodesse.

E forse sarebbe accaduto presto; forse quello stesso giorno.

L’imponente complesso della fortezza del Longone, situato in posizione dominante sulla sommità del promontorio dell’isola d’Elba, è circondato da una recinzione di pilastri in pietra, filo spinato e inferriate. Sorvegliato da sentinelle armate in uniforme.

A sessantotto anni, Ferri era uno dei direttori più anziani d’Italia. Non era la prima volta che rischiava la vita. Aveva imparato a convivere con il pericolo e a vincere la paura. Tuttavia, ogni volta che il suo sguardo si posava sui detenuti e sui loro volti, era come se una mano gelida gli accarezzasse l’anima.

Due anni prima, la sua azione più eclatante era stata quella di aprire il portone del carcere agli sconsegnati, per farli andare al mare dopo il lavoro.

Questo trattamento particolare, riservato solo a pochissimi detenuti, aveva inasprito gli animi di molti.

Capitolo 4

Con la divisa blu perfettamente stirata e inamidata, l’uomo cammina impettito sul lungo sentiero verso il primo blocco.

Sente che i polmoni gli dolgono per il caldo eccezionale di quei giorni.

Un caldo umido che non dà tregua neanche dopo il tramonto. Si fatica anche a respirare.

Si ferma davanti all’ingresso, cercando di riprendere fiato.

All’interno sente delle voci concitate.

Non ha scelta, deve entrare.

È l’unica sezione che ancora non si è arresa per via dei soggetti più pericolosi.

Sale i gradini che conducono a un corridoio buio e poco invitante.

«Sono il comandante, sto entrando!» urla.

Le voci si chetano immediatamente.

Si sente uno scalpiccio di passi, poi un correre in ordine sparso.

Poi, si odono delle parole.

Lui entra e si dirige verso l’interno della stanza adibita a infermeria.

Quattro persone lo fissano duramente, ognuna con un’espressione diversa.

L’uomo davanti agli altri, Gerardo Matali, sui cinquantacinque anni, condannato all’ergastolo per rissa con omicidio, ha indosso una maglietta bucata e senza maniche, stinta dai troppi lavaggi.

È il capo della rivolta.

Questi tira un sospiro di sollievo quando si rende conto che il comandante è da solo.

Un altro uomo, calvo e dal corpo massiccio in piedi accanto a lui, della stessa età, lo osserva con disprezzo e diffidenza.

Il comandante, Mario Ruotolo, sorride, o meglio, sogghigna, come a dire:

«Poveri illusi!»

Si fa avanti Tiger Agimor un albanese di Tirana con lunghe braccia tatuate, condannato all’ergastolo per una rapina finita con il morto, trent’anni circa, forse il più giovane di tutti in quella sezione.

In una mano massiccia trattiene una grossa sbarra di ferro, come pronto a calarla addosso al nuovo arrivato.

Indossa dei pantaloni da lavoro beige macchiati di grasso e una canottiera grigia logora.

Il suo sorriso luccica per i denti bianchissimi.

«Cosa tu vuole?» chiede, affrontando la problematica della grammatica italiana.

«Mi spiace disturbarvi ragazzi. Là fuori stanno perdendo la pazienza e l’aria si è surriscaldata. Dovete arrendervi ora, o fra pochi minuti non avrete più quest’opportunità.»

«Avrei bisogno di una pizza, lei potere darmi suo cellulare?» dice Tiger.

Ridono tutti e la tensione cala di alcuni gradi.

Il Comandante sta al gioco:

«Ho sentito dire che la compagnia telefonica ha dei problemi su quest’isola.»

L’uomo calvo incalza:

«Per il caldo o per qualcosa del genere?»

Non ride nessuno.

Giancarlo D’Arienzo, siciliano di Caltanissetta, è in galera da vent’anni.

È stato condannato all’ergastolo ostativo per omicidio e associazione mafiosa, in carcere ha procurato la morte a tre detenuti.

Si stacca dal gruppo e avanzando dice al comandante:

«La prego, entri, il nostro telefono funziona.»

«Si accomodi» dice l’uomo, che ora tiene per un gomito il comandante.

L’albanese lo squadra da capo a piedi, come fanno anche gli altri.

Sorride, è alto e muscoloso. Passa le giornate ad allenarsi, da quando è arrivato sull’isola. In quel momento, dato il caldo, la tensione e quell’insostenibile umidità, è fradicio di sudore.

Il comandante nota che ha una brutta cicatrice sul dorso della mano destra. Sembra recente, sicuramente la conseguenza di una ferita da coltello, pensa dentro di sé.

In quella stanza in penombra, dove l’impianto delle luci è staccato, fa un caldo insopportabile.

Guarda la parete destra cogliendo al volo scritte e disegni di vite trascorse in quel piccolo angolo di mondo.

Gerardo Matali condannato all’ergastolo, sull’isola da dieci anni, si accorge che il comandante è nervoso nonostante l’ostentata sicurezza.

D’Arienzo giocherella con una pinza.

«Spero di non avere interrotto la vostra merenda» esclama il comandante.

Un lungo istante di silenzio.

Nessuno ride alla sua battuta.

Sono le quattro del pomeriggio.

«No!» risponde Tiger.

«Come certamente sa, non c’è niente da mangiare» aggiunge, con una sfumatura ironica, dopo un po’.

Il comandante guarda di sottecchi l’albanese. Paventa di essere aggredito.

«Fuori fa troppo caldo» aggiunge nel tentativo di allentare la pericolosa situazione.

«Non più di qui» ribatte Tiger sarcastico…

Di nuovo quel sogghigno.

Ha le labbra della bocca grandi e arrossate, il labbro superiore è imperlato di sudore.

«Si sieda» lo invita Gerardo, con tono deciso, passandogli uno sgabello della casanza (in gergo carcerario, tutto ciò che fa riferimento alla fornitura del carcere, detta anche con connotazione spregiativa).

Il comandante si guarda intorno.

Il caldo umido e il giocherellare dell’albanese con la sbarra di ferro gli stanno per procurare un malore.

La tensione di quel momento è talmente spessa che si può tagliare con un coltello.

«Posso offrirle qualcosa?» continua a rivolgersi con ironia, Gerardo.

«Forse un po’ di vino, una birra se non le è di disturbo» prosegue.

Il comandante si asciuga la fronte con la mano.

«Be’, non volevo…» comincia a balbettare.

Gerardo gli fa cenno di tacere.

«Non si sta divertendo, come ai vecchi tempi? Quando ci chiudeva per intere settimane nella sezione d’isolamento senza acqua e senza cibo, e passava a testa alta, superbo, col petto di fuori, chiedendoci: “come va ragazzi?”» dice sarcastico.

Il comandante tiene lo sguardo basso sul pavimento. D’un tratto percepisce qualcosa, un rumore curioso, come se qualcuno raschiasse qualcosa…

«Matali!»

«La prego, mi chiami Gerardo.»

«Gerardo, dovete arrendervi non avrete un’altra possibilità oggi. Fuori di qui c’è un esercito di polizia e carabinieri, ci sono cecchini pronti a spararvi. Io sono l’unica persona che può farvi uscire vivi da questo locale, se vi arrendete a me.»

«Comandante pensa di trattare con dei bambini, è questo che crede?» dice Matali.

«Oh, no!» risponde subito. «Lo faccio solo per aiutarvi a uscirne vivi, non voglio offendere nessuno.»

D’Arienzo ci pensa su per un minuto e poi proferisce:

«Io faccio un lavoro manuale… sa che cosa faccio?»

Sul volto del comandante appare un’ombra che svanisce poco dopo.

Rimane turbato da quella domanda così diretta.

Risponde:

«Non lo so. Io mi occupo solo della sicurezza e di organizzare i turni di guardia degli agenti.»

«Strano, sono lo stesso idraulico che le ha fatto le riparazioni nel suo appartamento sull’isola.»

«Sei sicuro?»

«Ne siamo tutti sicuri signor comandante!»

«Be’, non voglio annoiare nessuno con questa storia.»

D’Arienzo batté le sue grosse mani sul tavolo.

«Ce l’ha una famiglia, comandante?»

«Sì!» risponde.

«I miei familiari invece sono morti. I miei parenti più prossimi, intendo.»

«Tutti quanti?» chiede Ruotolo.

«Mia moglie, mia figlia e i miei genitori.»

«Come sono morti? Un incidente?»

D’Arienzo fa un cenno affermativo.

«Come?»

Il rumore del motore del frigorifero dei medicinali pare svanire.

Il comandante si sente schiacciato dal silenzio delle persone in quella stanzetta soffocante. Sente una serie di rumori provenire dal corridoio, come di qualcuno che batte da dietro una porta chiusa di un’altra stanza.

Nessuno però se ne accorge.

D’Arienzo ha un attimo di sbandamento.

«Sono morti l’anno scorso in un incidente stradale, mentre stavano venendo qui a trovarmi. Lei è stato così gentile da dirmelo; dopo che le ho riparato le tubature del suo bagno; due settimane dopo che sono morti» aggiunge, poi, senza mostrare alcun segno di emozione.

«E tu, Tiger?» chiede D’Arienzo.

«Di che cosa ti occupi? Vuoi dircelo?» insiste.

«Faccio carpentiere» risponde quegli.

«Ci sai fare?»

«Beh, sì.»

«Perché non ci parli del tuo lavoro nel carcere?» lo incalza D’Arienzo.

A Tiger non dà fastidio parlarne.

«Lavoro dodici metri sopra da terra, sostituisco valvole di tubi che portano gas, faccio senza la maschera di ossigeno. Sull’isola non esserci. Molte volte, tornare la sera fine turno in cella con nausea e male di testa da scoppiare. Il mese scorso ho aiutato Daniele Moro che essere sentito molto male a causa di perdita gas. È inodore e insapore, perciò più insidioso. Ho cominciato avere vertigini e male di testa anch’io. Sono andato da brigadiere per chiedere di accompagnare Daniele da medico. Lui telefonato davanti me per chiedere a lei cosa fare. Lei, signor Comandante, ha risposto:

“Non possiamo permettere di bloccare lavoro ogni volta che qualcuno avere un po’ di mal di testa, devono lavorare e resistere fino fine turno, se no licenziati”. Daniele morto due giorni dopo, per esalazioni di gas che respirato senza maschera di sicurezza. Spero di non averla annoiata signore comandante» dice infine Tiger stringendosi nelle spalle.

Poi si rivolge agli altri compagni:

«Sapete cosa viene in mia mente?»

Gerardo Matali guarda gli occhi stranamente divertiti di Tiger.

Lui continua:

«Io pensato che al punto di cui troviamo non esserci differenza tra vita e morte. Che dite?»

D’Arienzo guarda gli altri; sorridendo si batte con un dito la tempia destra; e dichiara: «Andato! … »

Tiger, con aria professorale, enuncia:

«Spiego meglio:

prendete in esempio una persona cattiva e malvagia. Usate in questo caso il comandante, visto che essere uomo senza scrupoli verso altri uomini.

Che ne dite?

Okay, quello che volere dire è che il suo corpo e sua morale disonesta, quando muore che cosa rimanere di sua anima?»

«Pensiero interessante Tiger, ma potresti concludere?» dice Matali.

«Per come vedo io, corpo di comandante essere solo involucro disonesto, che una volta morto nessuno noterà sua assenza.»

«Era! Non è! …» esclamano tutti insieme.

«Quando non esserci più…» continua Tiger con aria da filosofo.

«Ok, non c’è differenza tra la vita e la morte. Quindi? …» chiede Gerardo.

Il comandante si accorge, che Tiger non porta i calzini e intravede un grosso tatuaggio molto colorato che parte dalla caviglia destra e risale lungo la gamba. È risaputo che i tatuaggi fatti sulle caviglie sono tra i più dolorosi. L’ago deve toccare l’osso ripetutamente. In carcere i tatuaggi sono qualcosa di più di una semplice decorazione del corpo. Sono un promemoria che certifica che a chi li porta non gli importa niente del dolore.

«Il punto essere» continua Tiger «una persona malvagia, anche morta continua a darmi fastidio. Un balordo da vivo è un balordo da morto. Dio gli ha dato un’anima di merda. Tu credere in Dio, Giancarlo?»

«No, io credo nella vendetta. Tutto qui!»

«Allora questa potrebbe essere tua vendetta» Tiger fa un sogghigno tra le labbra che si arricciano. «Dato che essere ancora vivo!»

Il comandante Ruotolo deglutisce.

Le mani gli tremano.

Il rumore dietro la porta torna a farsi sentire, e stavolta è più forte, sopra il gemito del motore del frigorifero.

È qualcosa che gratta e che batte ritmicamente.

«Non saprei» dice Giancarlo.

«Sarà per il caldo» risponde Massimo Viti, condannato all’ergastolo per rapina, sequestro di persona e omicidio.

«Ascoltate! Alla radio stanno parlando di noi, della sommossa a Porto azzurro.»

«Pazzi!» esclama il comandante.

«Pazzi?» ripete Tiger «Chiediamo al comandante se essere pazzo.»

«Non dicevo di te.»

«Di chi allora?» chiede Giancarlo.

«No, a me non sembri pazzo» aggiunge, poi, rivolto verso Tiger. «Lo dici tanto per dire? Forse hai l’anima di un bugiardo,» si massaggia la faccia con entrambi le mani, «ma non sei pazzo!»

«Accidenti come sudo!» esclama improvvisamente Tiger.

Gerardo si accorge che Tiger sta perdendo il controllo.

«Lascia che ti dica una cosa amico mio, dobbiamo restare uniti se vogliamo ottenere il nostro scopo.»

In quel momento bussano al portone.

Per un istante nessuno si muove.

Poi Gerardo si porta verso l’ingresso.

Sulla soglia si presenta un uomo in divisa con i capelli tagliati a spazzola.

«Non abbiamo notizie del comandante da parecchio tempo. Tutto ok?» chiede, con voce rauca.

«Nessun problema. Stiamo facendo una partita a tresette col morto. Vuole partecipare anche lei?»

«Mi spiace, devo proprio andare.»

«È sicuro di non volersi trattenere?»

«Sì!»

«Già,» dice Gerardo «deve proprio andare!» Le luci vengono riaccese a piena potenza.

Gerardo si guarda intorno e affretta il passo.

Presto avrebbero fatto irruzione, pensa tra sé.

Tiger, Giancarlo e Massimo si voltano verso la porta, palesemente a disagio.

Nessuno però fa commenti.

Giancarlo chiede:

«Stanno arrivando?»

«No!» risponde Gerardo.

«E tu che ne sai?»

Negli occhi di acciaio dell’uomo calvo, si legge esattamente il contrario.

«Da dove ti viene questa certezza?»

Gerardo stima che può ridurre Massimo all’impotenza in meno di due minuti; anche se potrebbe riportare qualche danno collaterale.

Non vuole che uccidano il comandante.

«Accidenti, qui fare più caldo che fuori» dice Tiger.

«Statemi tutti a sentire, dobbiamo seguire il piano, niente colpi di testa. Il comandante sarà la nostra assicurazione sulla vita.»

Tutti e tre lo fissano per alcuni interminabili istanti, poi annuiscono.

«Ok, sei tu il capo» risponde per tutti D’Arienzo.

«Quando saremo fuori di qui, ci sentiremo degli eroi, invincibili e inafferrabili.»

L’anelito di libertà, la fantasia, l’arguzia, la pazienza, la costanza e il coraggio di Gerardo Matali, lo stavano premiando.

Col suo piano di fuga era riuscito a suscitare sentimenti forti. Essi andavano dall’emozione alla partecipazione e alla simpatia. Ormai Tiger, Massimo e Giancarlo erano stati coinvolti.

Si rivolge a Tiger:

«Forza, abbiamo poco tempo. Perciò fai attenzione. Vai alla sezione F e trova l’armadietto con il numero 33. Quando lo avrai aperto e preso quello che c’è dentro, lo devi portare subito qui. Poi preparati. Da ora in poi, la tua vita sarà molto più interessante di adesso!»

Il Comandante interviene:

«Matali, non ti preoccupi proprio per niente di quello che ti accadrà? Non uscirete vivi da qui!»

«Oh, ma certo che mi preoccupo» risponde Matali. «Mi preoccupo del mio futuro e di quello dei miei compagni» continua Matali.

«Non credo! Quando lo farai, sarà troppo tardi! Vorrei ficcarti un po’ di buonsenso in quella testaccia, Gerardo! Io sto veramente cercando di aiutarvi» conclude il Comandante.

Gerardo Matali stava conducendo un gioco di prestigio. Voleva ingannare il diavolo e solo un gran bugiardo come lui poteva sperare di riuscirci.

Il suo modo di fare scherzoso tendeva a fuorviare tutti.

In realtà era un uomo scaltro come una volpe e più cattivo dell’aglio.

Quando scendeva in cortile per giocare a pallone e qualcuno gli domandava con chi volesse giocare, lui con sottigliezza rispondeva: «Con tutti!»

Era un vero leader, i detenuti lo rispettavano e lo temevano.

Matali aveva lasciato posti peggiori di questo e con meno chance.

Che l’addio fosse triste o brutto non gliene importava niente; ma quando lasciava un posto… gli piaceva far sapere che lo stava lasciando.

Ora, dichiara che sarebbero andati via e che nessuno si sarebbe fatto male.

Dice che tutti lo hanno sottovalutato.

Il comandante lo guarda scettico scuotendo la testa.

Passano altri venti minuti.

Gerardo continua ad osservare i movimenti delle guardie ammassate al centro del cortile e i cecchini sopra gli spalti. Aspetta che i loro movimenti gli permettano di entrare in azione.

Ora, le guardie si trovano tutte contemporaneamente in un punto.

È il momento favorevole.

I quattro si scambiano un cenno d’intesa e scattano rapidi e silenziosi verso la grata delle fogne, posta al centro del corridoio della sezione.

Qui, due loro complici avevano grattato e scavato per mesi, in gran segreto una lunga galleria.

Un corridoio che sbuca nei pressi della Darsena Medicea, il luogo di attracco delle barche dei pescatori, dei turisti e delle motovedette della polizia penitenziaria.

Il comandante, imbavagliato e mani legate, è trascinato con loro.

Una volta raggiunta l’apertura nel pavimento dell’edificio, s’infilano dentro e nel buio della cavità prendono a muoversi il più velocemente possibile.

Ce l’hanno quasi fatta.

La luce della libertà è proprio davanti ai loro occhi.

Gerardo si porta verso l’uscita per primo.

Guarda fuori verso il porticciolo.

Due carcerieri fanno su e giù per il pontile a ritmo irregolare.

Per andarsene da lì senza essere visti, avrebbero dovuto aspettare che entrambi i guardiani fossero arrivati alla fine del molo e rivolti verso il mare.

Guarda l’orologio per la seconda volta, gli sembra che sia passata almeno un’ora.

In realtà sono passati appena dieci minuti.

Le guardie continuano a girare su tracciati irregolari, senza alcuna prevedibilità.

L’attesa è snervante, come se quella giornata non volesse finire mai.

Finalmente, Gerardo fa un cenno con la mano.

È il segnale.

Escono velocemente all’aperto.

Una volta fuori da quella specie di cavità infernale, hanno la sensazione che perfino l’aria abbia un sapore diverso.

Gli sembra di aver vissuto là dentro non una, ma due intere vite.

Tiger è il più sorridente di tutti, mentre gli altri camminano un po’ zoppicando.

Gerardo Matali è l’unico che sembra non avere alcun dolore, anche se i segni sul viso suggeriscono il contrario.

Li attende una barca.

Attraversano il breve tratto che li divide dall’imbarcazione scorrendo bassi e silenziosi.

Salgono su uno scafo d’alto mare charter 62. È una barca a vela con motore ausiliario da 62 cavalli, sportiva, dalla linea aggressiva, all’avanguardia nelle attrezzature. È in grado di garantire una navigazione sicura e confortevole, anche nelle peggiori condizioni del mare.

Sopra li aspettano Roberto Monaco e Rosario Musumeci, ergastolani anche loro, gli artefici dello scavo sotterraneo e del furto del natante.

Ora il gruppo è al completo.

Qualche minuto dopo sono tutti a bordo e filano veloci verso il mare aperto.

Gerardo chiede a Tiger:

«Ce l’hai?»

Lui con un sorriso smagliante annuisce, e gli passa una cartellina contenente le carte nautiche. In esse qualcuno ha già tracciato la rotta e vi ha annotato informazioni specifiche e dettagliate sulle direzioni da seguire.

Finalmente sono fuori dall’isola del Diavolo.

Ora devono puntare velocemente verso nord-ovest.

Si dirigono verso Porto Santo Stefano, una frazione del Monte Argentario che si estende di fronte alle coste toscane.

Vi devono giungere prima di essere intercettati dalla guardia costiera.

Una volta in vista della costa avrebbero abbandonato lo scafo con il tender di servizio, già preparato, e avrebbero raggiunto la riva.

Ogni particolare era stato preparato e predisposto dal fratello di Musumeci.

Tutto procede secondo i piani.

Li aspettano due auto con targhe regolari, abiti, documenti e pistole automatiche.

Capitolo 5

 «Li hanno presi!»

«Chi?»

«Gli evasi. Quelli scappati dal carcere di Porto Azzurro.»

«Non ne sapevo niente.»

«Spero che ne parlino al telegiornale.»

«Chi sono gli evasi?» chiede una coppia di anziani seduta vicino al bancone.

«Dicono che sono scappati in sei: sei ergastolani, uno più pericoloso dell’altro; dei veri criminali!»

«Erano sull’isola prigione dell’Elba a ottanta chilometri a nord da qui.»

«E come hanno fatto a fuggire?»

«Non deve essere stato facile, no?»

«Brutta storia!»

«Al telegiornale hanno detto che gli evasi erano in cortile e con il caldo di oggi c’è stata una rivolta. Poi si sono barricati in una sezione al buio e hanno preso in ostaggio il comandante delle guardie, per almeno tre ore. Quando hanno riattivato la corrente non c’erano più.»

«E il comandante che fine ha fatto?»

Chiede una signora bionda mentre sorseggiava un caffè.

«Sembra che se lo siano portato dietro con loro» risponde il cameriere.

«Cazzo!» esclama un uomo sui quarant’anni appena arrivato. «Non ho fatto in tempo a vedere il telegiornale!»

Capitolo 6

«No, non passare di qui. Gira sulla strada provinciale» gli dice Gerardo mentre guarda la cartina stradale.

Sono le 22.00.

Proseguono verso nord, per altri trenta minuti.

Improvvisamente davanti a loro si staglia una lunga fila di luci lampeggianti.

«Cazzo, un altro posto di blocco» esclama D’Arienzo.

«Ci stanno cercando come pazzi.»

Matali osserva delle auto della polizia di traverso sulla corsia più grande.

Decine di poliziotti fermano una ad una le auto di passaggio.

«Fermati» dice Gerardo a Massimo che sta alla guida da quasi due ore.

«Forza scendiamo, dobbiamo cambiare le auto.»

«Sicuro, capo?» chiede Giancarlo.

«Si. Se hanno un po’ di cervello, ormai conosceranno le auto su cui stiamo viaggiando. Dobbiamo rubare due macchine, ma per farlo bisogna passare quel posto di blocco. Voi entrate in quel boschetto e aspettate il nostro ritorno.»

Gerardo si rivolge verso Giancarlo. Gli stringe forte la mano e gli bisbiglia nell’orecchio:

«Stai attento al comandante è la nostra assicurazione sulla vita.»

Giancarlo inspira a fondo e annuisce con la testa, ma ha come la sensazione che gli manchi l’ossigeno.

Sono riusciti ad arrivare quasi in prossimità di Ventimiglia.

Il petto riprende a battergli forte.

Matali e Tiger si avviano con l’auto e lasciano il resto del gruppo al riparo nel bosco.

Un poliziotto, un uomo alto e snello con chiazze di sudore sotto le ascelle, si volta a guardare insistentemente la macchina in arrivo. Ha notato la Fiat Croma color grigio scuro che ha prima rallentato e poi si è fermata.

Gerardo scende e s’incammina verso di lui.

«Buongiorno! Posso esserle utile?»

Gli punta in faccia la torcia a batterie.

Matali con la mano sinistra cerca di ripararsi dalla luce accecante e si presenta, porgendogli con l’altra mano, un biglietto di uno studio legale.

Il poliziotto guarda il biglietto da visita; nota l’abito elegante; si convince che quella persona non è uno degli uomini ricercati e proferisce:

«Cosa posso fare per lei?»

«Be’, forse non è niente di che, ma ho pensato di dirvelo lo stesso.»

«Vada avanti.»

«Circa due ore fa mi sono fermato a un self-service più a sud per un caffè. Ho notato un uomo sulla trentina, aveva diversi tatuaggi sulle braccia, la barba incolta, alto un metro e ottanta, muscoloso.»

«Testa rasata?»

«Sì!»

«Pensa che potrebbe essere uno degli evasi?» chiede il poliziotto.

«Non lo so. Non so com’è fatto un evaso» risponde Matali.

«Be’, potrebbe corrispondere alla descrizione di uno degli evasi, un albanese. Ha notato qualcos’altro di strano?»

«Si, una cosa non mi ha convinto in quell’uomo.»

«Mi dica…»

«Era ora di cena, ma non stava mangiando.»

Il poliziotto prende un fazzoletto di stoffa bianca da una tasca e se lo passa sulla faccia.

«Altro?»

«Mi ha fatto paura. È aveva una brutta cicatrice sul dorso della sua mano, come se si fosse azzuffato con uno armato di coltello»

«Ok, grazie signore» dice il poliziotto, tamponandosi la faccia con il fazzoletto «facciamo subito un controllo.»

Prende la radio:

«A tutte le unità, rispondete, ho una pista sugli evasi!»

Dalla radio arrivano delle scariche elettriche e poi le risposte delle varie auto pattuglie.

Il poliziotto rivolgendosi a Gerardo dice: «Potremmo aver bisogno di lei per una testimonianza.»

«Certo. Sono a vostra disposizione.»

Si rechi alla questura di Ventimiglia. C’è una collega, l’appuntato Claudia Ferraro. Le dica tutto quello che ha riferito a me. Io intanto la chiamo e la informo del suo arrivo per il verbale.»

«Va bene» dice Matali.

Il poliziotto insieme a un suo collega balza in macchina, fanno un’inversione a U e partono a tutta velocità verso sud seguiti da altre auto pattuglie.

Gerardo li guarda sparire lungo la strada.

«Non avrei mai pensato che fosse così facile!» esclama ridendo, appena si ricongiunge con gli altri.

«La recita più emozionante che mi sia mai capitata di fare!» commenta, poi, sarcastico e soddisfatto.

Capitolo 7

Dieci poliziotti fra uomini e donne, circondano l’autogrill nell’area di servizio dell’Autostrada dei Fiori A10 – A6.

«Potrebbe essere ancora dentro. Sbrighiamoci a entrare.»

Fanno irruzione dall’uscita di servizio e dall’ingresso principale, con una tale rapidità che alle cameriere si rovesciano le bibite e i caffè che stavano servendo ai tavoli…

«State tutti bene?»

Urla il poliziotto con le ascelle sudate.

«Certo che stiamo tutti bene,» risponde il gestore «perché?»

I poliziotti abbassano le pistole.

«Lui dov’è?»

«Chi?» chiede una cameriera con il viso pallido dallo spavento.

«Il tipo con i tatuaggi sulle braccia che era qui. È un criminale evaso dal carcere.»

«Quale evaso?»

«Un ergastolano scappato dal carcere di Porto Azzurro in Toscana. Un criminale psicopatico. Sono fuggiti in sei, con un ostaggio, tutti ergastolani.»

«No!» esclama Clara, spaventata. «Proprio stasera che non abbiamo guardato il telegiornale.»

«È andato via più di due ore fa. Ha bevuto una birra, un tipo tranquillo; e ha pagato!» risponde la cassiera.

«Mi spiace dirlo, ma non è così.»

«E lui?» chiede il poliziotto mostrando una sua foto segnaletica alla cassiera.

«Sì!»

«Aveva delle cicatrici sul dorso della mano destra, come ferite di coltello?»

«Sì, mi pare di sì. Mi ha chiesto un indirizzo di uno studio legale di Ventimiglia, ma non ho saputo fornirglielo.»

La cassiera rammenta un altro dettaglio.

«Ho notato che non portava i calzini, e aveva un bel tatuaggio sulla caviglia destra. È andato via con una macchina, credo una Fiat di colore scuro.»

Il poliziotto va alla porta e fa per aprirla, ma un dubbio lo assale.

«Aspetti un momento, ha chiesto di uno studio legale?»

«Esatto!» conferma la donna «Così ha detto.»

«Ricorda qualcos’altro?»

«No!»

Il poliziotto riflette su quella curiosa coincidenza.

Ripensa all’uomo che si era avvicinato per offrirgli delle informazioni, stessa corporatura di uno degli evasi e anche i capelli tagliati corti.

«Cazzo, non gli ho neanche chiesto la patente, ho guardato solo il biglietto da visita.»

Prende dalla tasca le foto segnaletiche degli evasi. Sfogliandole vede la faccia di quell’uomo distinto, Gerardo Matali, il più pericoloso dei sei evasi.

«Cazzo, che coglione sono stato!» commenta.

«Era proprio lui!» aggiunge poi.

La mente preoccupata del poliziotto continua a ragionare.

Dannazione ormai hanno superato i posti di blocco.

Matali ha rischiato molto per mettermi su una falsa pista.

Ed io ho abboccato come un idiota.

In quel momento prova la stessa la sensazione come di un pugno nello stomaco.

Uscito dall’autogrill, corre alla macchina di servizio e chiama la questura.

Non risponde nessuno.

«Oh, Signore, ti prego, no…»

Claudia Ferraro. Il pensiero va alla sua collega in ufficio.

Si lascia cadere sul sedile, e pochi secondi dopo lancia l’auto a folle velocità, in direzione di Ventimiglia, nella notte satura di umidità.

Arrivato alla questura in via Aprosio, frena slittando sull’asfalto e va a sbattere contro un cassonetto dei rifiuti.

Pistola in mano e con il proiettile in canna spalanca la porta con una spallata ed entra con l’arma puntata davanti a sé.

Il suo collega dietro di lui controlla il lato destro.

Si bloccano di colpo, vedendo due persone nella stanza legate e imbavagliate alle sedie.

Abbassano le armi.

Il poliziotto con le ascelle sudate mormora una preghiera di ringraziamento.

Claudia è viva.

Li slegano rapidamente.

A quel punto confessa ai suoi colleghi l’errore commesso con Matali.

«Forse avrei dovuto chiedergli subito la patente. Avrei dovuto…»

Claudia dice di aver ricevuto l’uomo con le braccia tatuate che si è presentato per rilasciare una testimonianza.

Le era sembrato così sospetto, specie dopo averle detto:

«Strano che in una questura così grande siate solo in due!»

«Come con le braccia tatuate?» esclama stupito il poliziotto con le ascelle sudate.

Dalla tasca dei pantaloni prende la foto segnaletica di Gerardo Matali e la mostra a Claudia.

«Io ho parlato con quest’uomo.»

«Oh, no, quello che ci ha sopraffatti è un’altra persona.»

Gli mostra la foto di Tiger.

La donna esclama in modo concitato:

«Sì sì, questo è lo stronzo che ci ha legato e imbavagliato.»

«Prima, mi ha puntato un coltello alla gola e ha voluto che gli dicessi la password per entrare nella nostra banca dati, poi si è messo a trafficare al computer per un po’, sembrava sapesse cosa cercare.»

Il poliziotto si passa una mano sul viso, come fa una persona stanca quando cerca di darsi una svegliata.

Alza le labbra sui denti, quasi a ringhiare.

Conosceva la sensazione pericolosissima che stava montando dentro di lui…

Era stato preso in giro.

La sua mano va a tastare la “glock” che porta sempre appesa alla cintura, come a controllare che fosse ancora lì.

Si allarga il colletto della camicia. Ha la sensazione di non riuscire a respirare.

Che cosa stava architettando Matali?

E soprattutto, chi o cosa cercava, Tiger?

Gerardo e Tiger arrivano in centro a piedi vestiti abbastanza eleganti da poter entrare in qualsiasi locale.

Superano la zona del centro storico a passo sicuro.

Arrivano al posto che cercavano.

Entrano in un locale.

Il caso ha voluto che fosse il locale giusto già al primo tentativo.

Matali non ama bere, ma quella sera si lascia un po’ andare.

Il loro uomo è lì che beve da solo, e lo seguono con la coda dell’occhio, mentre se la spassa come se nulla fosse.

Fanno finta di bere molto.

Poi, al momento giusto, si avvicinano e lo agganciano.

Iniziano a bere con lui.

L’uomo accetta volentieri le bevute offerte; e chiacchiera con loro. A un certo punto si volta e guarda Gerardo, negli occhi.

Poi guarda anche Tiger.

Allora si accorge che i due, pur avendo bevuto tutta la notte, sono entrambi sobri.

C’è un lungo scambio di sguardi fra i tre.

L’uomo comprende che la situazione si sta mettendo male per lui.

«È stato un incidente» dice con una voce senza inflessione, quasi lagnosa.

«No amico mio, non è stato un incidente» dice Matali.

«Andiamo, adesso!»

«Devi venire con noi!»

«Vi manda D’Arienzo?»

Nessuna risposta.

«Ho capito!» dice l’uomo.

«Usciamo!»

L’uomo si avvia.

Loro lo seguono.

Il vicolo è buio e deserto.

«È stato un incidente!» ripete l’uomo.

«No che non lo è stato!» dice Tiger.

Francesco D’Agostino, l’uomo che alla guida della sua auto in stato di ebbrezza aveva ucciso la famiglia di Giancarlo D’Arienzo.

Se l’era cavata con un’assoluzione dal tribunale di Genova, perché il suo avvocato aveva sollevato la questione sull’etilometro di vecchia omologazione.

D’Agostino era stato fermato subito dopo l’incidente e sottoposto al controllo del tasso etilico con un’apparecchiatura che, pur manutentata, aveva un’omologazione di ben 12 anni prima, stilata sulla base di normative europee non più vigenti, pertanto superate da altre più avanzate.

Da lì, l’assoluzione.

«Sì, è vero Francesco, è stato un incidente, ma tu avevi bevuto molto, come stasera» dice Matali.

Tiger va all’angolo della strada per fare da palo.

Matali estrae dalla tasca un filo diamantato usato per tagliare il ferro, se lo arrotola attorno alle mani.

Tiger lo usava nel suo lavoro al carcere di Porto Azzurro.

Poi lo prova tendendolo, per sentirne l’efficacia.

La sensazione gli procura un brivido di piacere.

«Come vi chiamate?» chiede D’Agostino.

«Cosa ti serve saperlo?»

«No… Volevo dire… Non importa. Io non sono diverso da voi.»

«No, non lo sei.»

«Non fa alcuna differenza, ormai.»

«Tu non capisci… Mi mancava così poco per tornare a casa.»

«È stato un errore, una svista, ma l’ho capito soltanto dopo, quando ormai non potevo più tornare indietro.»

Matali non trova nulla da dire.

Un lungo attimo di silenzio, poi gli occhi di D’Agostino diventano lucidi, comincia a piangere piano.

Matali rigira il filo diamantato attorno al collo dell’uomo e stringe.

L’uomo cerca di dire qualcosa, ma il fiato gli muore in gola. Cerca di opporre resistenza, ma senza alcuna speranza, non può nulla contro uno come Gerardo Matali.

Matali stringe il cappio fino a spezzargli l’osso del collo.

D’Agostino diviene paonazzo in volto. Gli occhi sembrano schizzargli fuori dalle orbite. La lingua ormai fuori dalla bocca, pare gonfiarsi come un pene in erezione.

Tiger intanto controlla la strada, continuando a spostare il peso da una gamba all’altra.

Dopo una lunga e interminabile agonia, D’Agostino smette di vivere tra le braccia di Matali.

Questi lo lascia scivolare a terra morto.

Tiger si avvicina al cadavere.

«L’abbiamo fatto per Giancarlo» dice Tiger, guardando negli occhi Gerardo.

«Un favore personale… L’ha chiamato proprio così.»

«Un favore personale, solo per lui.»

«Nient’altro.»

«Vero?»

Matali annuisce:

«Giancarlo ha avuto la sua vendetta, ora dobbiamo fare in fretta per riunirci a loro. Il tempo stringe.»

Capitolo 8

Nonostante fosse sul punto di rischiare la carriera, se ne stava seduto tranquillo con le gambe accavallate, con in mano un bicchiere di birra ghiacciata.

La mente occupata di Valerio Ferri continuava a ragionare.

Ora se ne rendeva conto.

Era stato tutto organizzato da Gerardo Matali.

Aveva sabotato l’impianto elettrico con l’aiuto di Tiger.

«Dannazione, ha avuto persino il coraggio di venire da me per chiedermi di lavorare al dispositivo di chiusura a distanza del circuito dell’alta tensione. Avrei dovuto capirlo»

Tutto sembrava così sospetto, specie dopo che Tiger aveva chiesto un aiuto sul lavoro.

Ha insistito sul nome di Matali

«Io mi occupo dell’installazione e Matali della manutenzione dell’impianto elettrico e dei computer del carcere, che è un vero esperto» gli aveva proposto Tiger.

Il loro piano era semplice.

Con l’arrivo dei giorni più caldi dell’estate, è bastato avere l’accesso dei computer per disattivare l’alimentazione elettrica dei generatori di emergenza dell’isola per simulare temporanei blackout.

E poi avevano pianificato la rivolta che è servita per coprire i rumori di scavo della galleria.

Dalla tasca della giacca prende un sigaro e sfrega un cerino sul muro per accenderlo.

Tutti quei blackout dei giorni scorsi.

«Dovevo capirlo…»

Un attimo dopo il fax comincia a emettere un suono e a espellere diversi fogli.

Erano foto segnaletiche di Tiger e Matali, seguite da una relazione di servizio del dirigente della squadra mobile di Ventimiglia, dove si leggeva in breve, le spericolate avventure notturne di Tiger e di Matali in Liguria.

Erano fortemente indiziati dell’omicidio di un certo Francesco D’Agostino, avvenuto fuori da un locale al quartiere Roverino.

Sul posto si erano recati gli uomini del commissariato e i carabinieri per capire con precisione l’accaduto.

Il quarantottenne era stato trovato con il collo spezzato.

Avrebbero fornito maggiori particolari più avanti.

Ferri cercava sempre la combinazione perfetta tra resistenza fisica e mentalità giusta.

Soprattutto mentalità.

Dirigeva quel carcere perché se lo sentiva dentro quel ruolo.

Lui era una persona riflessiva.

Qualcuno gli aveva insegnato che le persone riflessive stanno bene nei ruoli dove bisogna usare la testa.

Quell’incidente alle docce! Come si chiamava quel tipo? Adamo Mario!

In quel preciso momento stava collegando tutti i fili pendenti (come li chiamava lui), ma soprattutto, aveva capito il disegno di Matali.

Emise un verso che stava tra un grugnito e un sospiro. Seppure invidioso di tanta scaltrezza, non poteva fare a meno di ammirarlo.

Posò il bicchiere e si alzò.

Si diresse verso una scala che scendeva in un sotterraneo, la parte più antica della fortezza.

Sei grandi locali, anticamente usati come magazzini e servizi vari si estendevano sotto il livello del mare.

Nella stanza centrale, quella meglio conservata, c’erano quattro grandi pilastri macchiati di sangue.

Sulla parete sinistra, due recipienti contenevano un’ampia scelta di mazze di legno e sbarre di ferro.

Un tavolo di legno grezzo con cinghie di pelle per immobilizzare polsi e caviglie.

Una morsa per la testa stava in disparte su un tavolino quadrato.

Era il luogo preferito di Ferri.

Quelle stanze non mancavano mai di fargli provare un brivido di piacere.

Rammentando a sé stesso con compiacimento, quante informazioni aveva raccolto in quel locale che avevano contribuito alla sicurezza della fortezza e a “rieducare” i suoi ragazzi.

Un rumore alle sue spalle lo fece trasalire.

Si voltò di scatto e vide sulla soglia una figura tarchiata, il volto era in ombra per via della poca luce.

La figura fece un passo avanti verso di lui e si rivelò essere il brigadiere Sanna.

Era basso e tarchiato, con un volto butterato dall’acne e capelli neri tagliati corti.

«Cosa vuole?» chiese Ferri.

«Mi scusi signore, la cercano di sopra.»

«Due nuovi giunti, sono stati appena visitati dal dottore.»

«Bene, andiamo a conoscerli!»

Capitolo 9

Quella mattina presto il cielo era ancora grigio, l’aria umida e il terreno era bagnato di rugiada.

Dopo alcuni chilometri percorsi su una strada statale, s’infilarono in una strada sterrata.

Poco dopo le due macchine si fermarono in mezzo al nulla.

Erano entrati nei boschi della Mortola superiore.

Da lì iniziarono a incamminarsi verso il valico per Mentone.

Giancarlo camminava al fianco di Tiger e notò che aveva lo sguardo distante, come a cercare qualcosa che si trovava soltanto dentro la sua testa.

Matali si girò verso Musumeci.

«Da qui in poi si va in fila indiana» disse.

Era lui l’esperto del luogo.

Quella mattina il sole era aggressivo.

Dopo un’ora di marcia tutti avevano un alone di sudore sotto le ascelle.

Dopo tre ore, erano sudati e sfiancati per il caldo eccessivo.

Monaco e Musumeci avevano un passo veloce.

Si erano portati davanti a tutti.

Così facendo, superarono la colonna in marcia fino a sparire nel bosco di fronte a loro.

Gli altri invece continuavano a marciare a passo lento, ignorando qualsiasi urgenza di arrivare.

Massimo controllava il comandante.

Proseguivano lungo il sentiero guardandosi costantemente attorno.

Passò qualche altro minuto, poi Gerardo fece cenno di fermarsi.

Stavano camminando lungo un sentiero particolarmente boscoso, quando videro un lampo lontano, quasi all’orizzonte, tra le cime degli alberi.

Si fermarono tutti di colpo.

Un istante dopo vennero raggiunti dall’inconfondibile crepitio di una serie di spari.

Poi arrivarono le scintille…

In un attimo si scatenò il finimondo.

Tutto il bosco intorno a loro si riempì di divise della polizia, dei carabinieri e della forestale.

Il poliziotto con le ascelle sudate, da un megafono intimò loro:

«Arrendetevi, non avete scampo!»

Matali rimase così scioccato che per un attimo non riuscì neppure a muoversi.

Tiger lo prese per un braccio e lo tirò via.

Si tolsero dal centro del sentiero e si buttarono a ridosso di un avvallamento del terreno.

Poi, un boato cupo che rimbombò come uno schianto a circa trecento metri da loro.

Mentre la polvere si rimescolava nell’aria e i frammenti finivano di ricadere lentamente, Giancarlo si girò verso Matali, e lo guardò sconfortato.

Matali sospirò guardando verso l’alto.

Pure gli altri si erano fermati a guardarlo con gli occhi pieni di speranza, come a dire: «Gerardo trova una soluzione a tutto questo!»

In una realtà lontana, Tiger lo chiamava a gran voce, ma quel suono gli arrivava distante, irreale.

Lo choc si trasformò in rabbia, Matali tornò lucido e una scarica di adrenalina lo attraversò tutto.

La sua vita era in pericolo adesso.

La vita di tutti loro era in pericolo.

Mentre cercava di riprendere un po’ di fiato in mezzo a tutto quel casino, Gerardo si accorse di essere disarmato.

Aveva perso la pistola durante la caduta.

Fuori si sentivano ancora gli spari, ma dentro quell’avvallamento c’era un po’ più di calma, anche se non si vedeva nulla.

«Massimo» urlò Matali «porta qui il comandante!»

Si trascinò ancora più indietro e nel trascinarsi urtò qualcuno.

Girandosi lo vide e, a quel punto, fu colto dall’ira.

Era così furioso che gli pareva di poter esplodere da un momento all’altro.

Il comandante steso in terra, morto.

Era come se un detonatore gli fosse esploso dentro il cranio.

Il suo viso era schizzato di sangue in tutte le direzioni, mentre il terreno alle sue spalle era pieno di sangue e pezzi di cervello.

Matali si giro rabbioso a guardare Massimo che stava rannicchiato in posizione fetale, nella mano destra stringeva la pistola che aveva perso nella caduta, ma quello che aveva davanti a sé non era più l’amico che conosceva.

Il suo viso aveva un’espressione assente.

Come se Massimo fosse improvvisamente diventato un’altra persona.

Guardò ancora un attimo il suo amico, il cuore gli batteva nel petto fino a fargli quasi male.

Matali aveva scommesso la sua vita e quella degli altri sulla sua scaltrezza e sulla fedeltà dei suoi compagni, ma in quel momento gli era crollato tutto addosso.

«Stupido,» sibilò «maledetto stupido che hai fatto!?»

Esaminò la scena intorno a lui per cercare una soluzione, ma non vi erano vie di fuga o qualunque altra cosa che potesse essergli utile.

In altre parole, era fottuto.

Erano rimasti in quattro.

Stava riflettendo, Monaco e Musumeci erano stati sicuramente presi o uccisi.

Il comandante era morto.

Matali aveva commesso un gravissimo errore di valutazione, probabilmente l’ultimo della sua vita.

Ed era chiaro che l’aveva commesso.

«Maledizione,» urlò «non è ancora finita.»

Non è finita per niente, non aveva alcuna intenzione di mollare.

Così cercò una scappatoia, ma non fece in tempo a trovarla.

Riuscì giusto in tempo a proteggersi la testa, quando sentì il crepitio di uno sparo.

Poi un altro, poi due, poi tre…

Dall’alto della collina, le forze dell’ordine urlavano e sparavano all’impazzata contro il suo riparo.

All’inizio sentì una fitta alla schiena e riuscì anche a non urlare dal dolore, ma poco dopo gli sembrò di essere stato investito da un camion.

Si ritrovò steso sul terreno, paralizzato da un dolore atroce.

Provò a piegarsi e stringere i denti, nel tentativo di smorzare quelle fitte atroci.

Non aveva mai provato niente del genere, mai, nemmeno quando gli asportarono l’appendicite senza anestesia.

Voleva provare a scappare via…, posto che le gambe glielo avessero permesso, ma sarebbe servito soltanto a farsi ammazzare come un cane…

Non poteva più scappare, non poteva fare più niente di niente.

La sua vita stava per diventare un incubo.

Un incubo fatto di dolore, di morti, di rimpianti, di errori e di sangue.

Tanto sangue.

Capitolo 10

Quando varcarono il cancello di Porto Azzurro in catene, riconobbero subito la corporatura e il viso del direttore.

I suoi occhi erano immobili e privi di espressione, come quelli di un serpente.

Respirava con violenza, come un ringhio, come fosse un animale feroce in cerca della preda, perché sentiva già il sapore del sangue.

Il nucleo delle guardie che li accolse, era quello che i detenuti dell’isola chiamavano “comitato di accoglienza”.

Tiger e Giancarlo furono presi di peso e trascinati via in catene.

Massimo invece, che era in evidente stato di confusione mentale, fu portato nel repartino psichiatrico con freddo compiacimento dei carcerieri.

In quel preciso momento, mentre gettava un’ultima occhiata ai suoi compagni di sventura, Gerardo Matali comprese che da quel momento in poi la sua vita sarebbe diventata inutile.

Lasciò che un infermiere lo spingesse sulla sedia a rotelle e si ritrovò a passare vicino al direttore.

Il peso degli errori commessi in quella fuga stava per crollargli addosso come un macigno.

Un volto nel cortile catturò la sua attenzione.

L’ispettrice Silvia Ruotolo, la figlia del comandante, lo stava fulminando con lo sguardo e Matali si voltò subito.

Quella stessa notte, appena spente le luci dell’infermeria, Matali vide un’ombra nell’oscurità muoversi come se fosse viva.

Spalancò gli occhi e cercò di raddrizzarsi attaccandosi al triangolo sopra il letto, come se avesse visto un fantasma.

Non c’era paura in lui, forse preoccupazione, quasi ansia.

Valerio Ferri nell’oscurità dell’infermeria cominciò a battere il piede sul pavimento, come se stesse ascoltando una musica che esisteva solo nella sua testa.

Dopo alcuni interminabili minuti di silenzio, disse:

«Era una fuga impossibile. Avete rischiato di essere uccisi tutti, soprattutto durante la traversata in mare e sparire così nel nulla, com’è già successo a tanti altri evasi prima di voi»

Rimase immobile a braccia incrociate a fissarlo con commiserazione.

«Il comandante Ruotolo era una brava persona, ci mancherà a tutti!» aggiunse poi, piano.

Lentamente si avvicinò al letto, cercando di non tradire la propria soddisfazione, diede a Gerardo una sigaretta e gliel’accese.

Rimase in silenzio per qualche istante a osservarlo fumare, poi si avvicinò ancora di più e gli sussurrò nell’orecchio:

«Mentre cercherai di addormentarti di notte, ogni singola cellula del tuo corpo farà resistenza, ricordandoti che non puoi addormentarti, perché potrebbero arrivare i fantasmi da un momento all’altro. Avrai paura a chiudere gli occhi perché potresti non riaprirli più. E quando alla fine crollerai per sfinimento, perché alla fine la stanchezza vince sempre, e ti addormenterai con questa specie di lotta interiore, non dormirai mai veramente. Non sognerai mai più, semplicemente perché non puoi lasciarti andare, chiuderai gli occhi e in un battito li riaprirai, finché potrai!»

Matali si voltò dall’altra parte, sulla soglia c’erano quattro uomini in divisa che lo fissavano.

FINE

L’ISOLA DEL DIAVOLO è un racconto di Federico Berlioz

genere: THRILLER

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