LO STRANO CASO DEL RAGAZZO SERIO E DEL PIANETA DEL SORRISO di Silvio Nizza
Tutti sorridevano su Nubiru.
Ai bambini appena nati i genitori sorridevano subito radiosi, non solo e non tanto (come ovvio) per esprimere la felicità per il lieto evento, quanto soprattutto per sollecitare (quanto meno per imitazione) il pargoletto a fare altrettanto per ringraziare il buon Dio di averlo messo al mondo in quel delizioso e felice pianeta che era Nubiru.
Tutti gli abitanti di Nubiru sorridevano il più spesso possibile tutte le volte che ne avevano la possibilità e le circostanze lo consentivano per esternare a tutti l’eterna riconoscenza tributata al Creatore per averli messi al mondo e poi su quel pianeta felice che era Nubiru.
Il sorriso splendeva sempre sul viso di tutti. Si può quasi dire che l’intero pianeta Nubiru mostrasse all’Universo intero un unico grande sorriso impresso sulla sua superficie e rivolto al resto del creato.
Il neonato però non voleva adeguarsi ai voleri ed agli auspici generali.
Dopo i primi vagiti, le prime urla ed i primi strepiti comprensibilmente non proprio di gioia e dopo essersi rasserenato un pochino non c’era proprio stato verso di indurlo a sorridere.
Erano passati ormai diversi giorni dalla nascita, ma lui continuava immancabilmente a scrutare intorno a sé ed a strizzare gli occhi rivolgendoli verso i presenti con espressione invariabilmente corrucciata, seria e (si potrebbe quasi dire) indispettita.
Com’è ovvio che sia, tutti i parenti, i conoscenti ed i vicini attribuivano questo strano fenomeno al fatto (a tutti noto) che a pochi giorni dalla nascita i suoi occhietti non riuscivano a mettere a fuoco bene ciò che intravvedevano e non arrivavano a restituirgli una visione confortante e rassicurante della realtà felice che lo circondava.
«Vedrete,» dicevano rassicuranti i più intimi «non appena il piccolino si renderà conto di esser venuto al mondo in un pianeta felice come Nubiru esploderà in sorrisi da non credere, anzi recupererà tutti i sorrisi che non ha voluto mostrare finora.»
I genitori assentivano convinti, ma un po’ preoccupati nel loro intimo per quello strano fenomeno che aveva colpito proprio loro.
In effetti, a tutte le nascite a cui avevano assistito, il neonato, dopo pochi strilli di prammatica all’inizio e qualche pianto sporadico in seguito, aveva incominciato a sorridere immancabilmente ai genitori, ai parenti ed al mondo intero che lo aveva accolto.
Era bello vedere una nuova vita sorridere a Nubiru ed alla vita serena e felice che si conduceva in esso.
I mesi passavano, ma non un solo sorriso si era non dico visto, ma neppure neanche lontanamente indovinato, su quel viso immancabilmente serio, non più corrucciato o indispettito, questo no, ma immancabilmente serio, questo purtroppo sì.
Già i parenti incominciavano a far loro visita con qualche imbarazzo ed i conoscenti e i vicini accennavano ad evitare di incontrarli e si limitavano a salutarli affrettatamente, senza intrattenersi in quei convenevoli consueti con neosposi appena divenuti genitori.
I due poveri genitori incominciavano già a chiedersi in cuor loro, senza neanche avere il coraggio di esprimere chiaramente la loro preoccupazione, se per disgrazia la sorte avesse voluto far loro dono di un bambino anormale, colpito già alla nascita da qualche rara malattia, da qualche sindrome insolita ed anomala che impediva al loro figlioletto appena nato e tanto desiderato di sorridere al mondo come fanno tutti i neonati conosciuti e veduti finora.
I giorni passavano, le settimane passavano, ma non un solo sorriso era ancora mai comparso su quelle tenere labbra sempre immancabilmente serrate e quell’espressione immutabilmente seria non abbandonava mai quel visetto, a dire il vero, per il resto gradevole e tenero.
La tensione in casa si faceva sempre più consistente e la preoccupazione cresceva.
A memoria d’uomo non era mai successo che un neonato giungesse al terzo mese di vita senza aver mai sorriso alla benevolenza di Nubiru che aveva avuto la condiscendenza di accogliere in sé una nuova vita.
I mesi passarono ed incominciarono le prime uscite col bimbo in braccio o in carrozzina ed era sempre più imbarazzante attraversare un mondo di sorrisi con al seguito un bimbo sempre serio.
Alcuni di quelli che si incontravano per via e che sfoggiavano sorrisi splendidi si voltavano addirittura increduli, osservando quella insolita e singolare scena.
C’era già chi, di sottecchi, immaginando di non esser visto, indicava la sfortunata famigliola e quell’anomalo caso.
I poveri genitori non sapevano più che pesci pigliare.
Essi erano sempre stati specchiati e rispettabili cittadini di Nubiru, felici di far parte di quella splendida comunità e sorridevano di continuo con convinzione ed entusiasmo per esprimere la loro soddisfazione di esser parte integrante di quella splendida collettività.
Non ci fu modo, comunque, di far sorridere il bimbo.
Capitolo I
Giunse, così, il momento del primo giorno di scuola.
Mamma lo accompagnò trepidante fino all’edificio scolastico, si fermò davanti all’ampio ingresso, guardò tutte le altre mamme ed i loro pargoletti, tutti ugualmente lieti e sorridenti, poi abbassò lo sguardo su quel suo povero figlioletto sempre serio e senza neppure l’abbozzo d’un sorriso su quel visetto, a dire il vero, dai lineamenti delicati e nobili.
Sempre tenendolo per mano, mamma si avvicinò con timore e trepidazione alla maestra e con un ampio sorriso si rivolse a lei:
«Glielo raccomando, abbia pazienza con lui!»
Quella ricambiò il sorriso con trasporto, poi abbassò lo sguardo e rimase un pochino perplessa.
Raddoppiò l’ampiezza del sorriso rivolta al frugoletto, poi, visto vano il suo sforzo di cogliere in risposta su quel visetto un analogo felice sorriso, alzò lo sguardo sulla signora e disse:
«Non si preoccupi, avrò cura di lui in modo particolare» indovinando un qualche problema a lei sconosciuto in quel bimbetto spaurito, privo di sorriso ed immutabilmente serio.
La mattinata si svolse, come di consueto ogni primo giorno di scuola, facendo reciproca conoscenza, più che vera e propria lezione.
Tutti sorridevano felici e distesi parlando, bambini, maestre e bidelli, solo lui rimaneva sempre serio senza accenno di sorriso.
Ad un certo punto, però, la maestra non poté fare a meno di avvicinarsi a quel bambino privo di sorriso e gli chiese:
«Ma hai qualcosa, ti senti male?»
«No maestra, sto bene» rispose lui con la sua vocina delicata e sottile.
«Ma hai paura di qualcosa? Non sorridi mai» riprese quella con un sorriso smagliante stampato sul viso.
«Non vedo motivo di sorridere, tutto qui, ma mi trovo bene con lei e i compagni» rispose quello serio e compunto come sempre.
«Sì, ma i compagni sorridono tutti, li vedi? Tu sei sempre triste e scontento, perché?»
«Non sono triste e scontento, anzi, ma non vedo perché dovrei sorridere senza motivo.»
«E non è un motivo sufficiente per sorridere avere la fortuna di esser nato su questo splendido pianeta, dove tutto scorre a perfezione e dove i governanti si prendono cura di tutti noi come amorevoli genitori? Non è questo motivo sufficiente per dimostrare la nostra gratitudine e la nostra riconoscenza con un sorrisino ogni tanto?» insistette quella con invariato sorriso stampato sul viso.
«Sì certo, signora maestra, quando avrò motivo di manifestare questa gratitudine e questa riconoscenza lo dimostrerò sicuramente con un sorriso, ma ora non ne vedo il motivo» replicò quello con la sua vocina un po’ petulante.
«Va bene, fa come vuoi, guarda però che non fa male sorridere alla fortuna di esser nato qui» replicò quella indispettita e si allontanò da lui, guardando soddisfatta il resto della scolaresca tutta ugualmente sorridente e rassicurante.
“Che bella classe” si disse la maestra fra sé e sé lasciando scorrere il suo sguardo su ognuno di quei visetti tutti sorridenti e fiduciosi, “sicuramente potremo fare grandi cose quest’anno.”
“Certo non tutti saranno svegli alla stessa maniera e qualche alunno sarà un po’ più difficile degli altri, ma faremo il possibile anche per lui” e così pensando lasciò posare lo sguardo su quello strano bambino senza sorriso.
Quello la guardava con espressione intenta, seria e per nulla incoraggiante.
Capitolo II
Non furono molti gli eventi rilevanti che segnarono la sua infanzia.
In terza elementare, ad otto anni di età, come spesso accade, si innamorò della sua nuova maestra.
Era questa una giovane insegnante appena assegnata alla, per lei, nuova scuola.
Fu amore a prima vista.
Da subito, appena fece il suo ingresso in classe per la prima volta, attrasse la sua infantile attenzione.
Non era bellissima la maestra, ma fine, biondina, azzurra d’occhi e non alta di statura.
Non era tanto il gradevole aspetto fisico della giovane che fece innamorare il giovane allievo, no, era tutt’altro.
Il fatto era che lei sembrava sorridesse in classe solo per lui, che la seguiva immancabilmente con gli occhi senza distogliere mai lo sguardo da lei, in trepidante emozionante attesa di incrociare i suoi occhi ed il suo viso che si aprivano in un sorriso ancora più ampio appena individuavano la sua esile, gracile figura in mezzo al resto della scolaresca.
Sembrava che essa avesse un sorriso speciale rivolto solo a lui in persona e a nessun altro al mondo al di fuori di lui.
Gli sembrava che il sorriso che gli rivolgeva fosse unico, speciale, straordinario, impareggiabile.
Iniziò pure lui a sorridere ogni volta che la vedeva, inizialmente inconsapevolmente per la lietezza di vederla ed incontrarla, poi più apertamente, non appena incrociava il suo sguardo, per mostrarle anche lui che solo ad essa era rivolto il suo sorriso gioioso e gaio.
Incominciò ad andare a scuola con sempre più crescente gaiezza e felicità, avendo trovato un ulteriore motivo, oltre il desiderio d’imparare che l’aveva sempre contraddistinto, caratterizzato e sostenuto, e che consisteva nell’anelito a quell’incontro per lui entusiasmante ed elettrizzante con la sua fatina.
Fu parimenti per lui una delusione non da poco, cocente addirittura, dopo poche settimane di esaltante invaghimento, scoprire casualmente che quell’interessamento apparentemente genuino e disinteressato alla sua persona in realtà era sollecitato ed indotto.
Fu ascoltando non visto uno scambio di idee fra la sua nuova maestra preferita e la vecchia antipatica che lo aveva accolto al suo ingresso a scuola ed accompagnato fino allora nei suoi studi, che si svelò e manifestò a lui in tutta la sua crudezza la crudele verità.
«Stai attenta a quel bambino gracilino che non sorride mai» sentì dire a quell’odiosa ed insopportabile megera «deve avere qualche serio problema. I genitori non se ne rendono conto ma non deve essere normale. Figurati che non sorride mai come fanno tutti i bambini spontaneamente. No, lui neanche a pagarlo. Sempre le labbra serrate e quel grugno immutabile. Non è neanche tanto sveglio a dire il vero. Il poverino studia e si impegna, ma più di tanto non può fare, è inutile che insisti con lui. Non si cava sangue da una rapa.»
«Tranquilla, vedrai che qualcosa m’inventerò per riuscire a farlo sorridere almeno un poco. A volte basta dar loro l’illusione che per noi sono importanti e speciali per conquistarseli e riuscire a manovrarli come agnellini» rispose l’altra con una smorfia di disprezzo.
«Buona fortuna, io non ci sono riuscita, e dire che le ho provate tutte. Neanche i compagni lo sopportano. Nessuno che abbia fatto, non dico amicizia con lui, ma neanche lontanamente legato col piccolo infelice» replicò l’arpia con tono rassegnato.
«Vedrai, ci insegnano certe tecniche educative nelle scuole di perfezionamento rivolte proprio verso i casi più ostici ed i ragazzi più difficili, capaci di far miracoli» ribadì l’ex suo angelo custode con cipiglio e fermezza.
Il piccolino rimase paralizzato, immobile per paura di essere visto ed avrebbe desiderato proprio sparire istantaneamente, volatilizzarsi e svaporare nell’aria dissolvendosi nel nulla.
Da quel momento riassunse il suo solito cipiglio, se possibile con maggiore asprezza, rivolto proprio all’indirizzo della subdola traditrice.
Non si può dire che il fatto non lo segnò per il resto della sua vita, lasciando in lui una traccia indelebile.
Capitolo III
Fu come fu, il bimbetto crebbe, continuò ad andare a scuola, ma non accennò mai ad un sorriso, o per meglio dire sorrideva, ma solo quando lui lo riteneva opportuno.
In altre parole, se ascoltava una storiella comica sorrideva, se osservava una scena buffa accennava un sorriso, ma non c’era verso di far sì che un sorriso stabile, com’era giusto che fosse, albergasse sulle sue pur gradevoli labbra per esprimere soddisfazione e felicità, per non dire riconoscenza, per il fatto di far parte della gioiosa umanità che popolava Nubiru.
Era ovvio che, stando così le cose, non poterono certo essere encomiabili i voti riportati dall’allievo a scuola.
Lui era capace, si impegnava, cercava di adempiere ai suoi doveri scolastici ma, mentre l’intera scolaresca sorrideva con convinzione, lui rimaneva serio, concentrato sull’attività da svolgere.
Né riusciva a legare coi compagni di scuola creando dei rapporti solidi e durevoli, dato che col suo atteggiamento si auto isolava già di suo.
In sostanza più il ragazzino cresceva, più i problemi si accrescevano con lui.
Fattosi adolescente, i problemi divennero pressoché insostenibili.
Il sorriso era l’espressione stabile dei nubiresi, ma esso veniva automaticamente sostituito da un’aperta e chiara risata quando si aveva a che fare con alti esponenti dello stato o si commentavano decisioni del governo, e ciò per esprimere condivisione ed approvazione per quanto il governo mondiale faceva per il benessere e la felicità dei cittadini tutti.
È ovvio che una spontanea, convinta e fragorosa risata è quanto di più opportuno ci sia per esprimere la propria soddisfazione per le oculate scelte governative e manifestare la propria approvazione.
Il governo centrale si prendeva cura di tutti gli abitanti di Nubiru con abnegazione e dedizione encomiabile.
A tutti era garantito un lavoro ed a tutti era assicurato un vitto giornaliero.
Certo non ci si poteva permettere il lusso di scegliere il lavoro che si intendeva svolgere, ma si doveva accettare quello che veniva offerto dalle autorità in base alle esigenze generali ed alle programmazioni economiche periodiche.
Le esigenze generali della comunità venivano sempre prima delle aspirazioni personali ed i gusti di ognuno e ciò faceva parte delle più intime convinzioni e delle certezze indissolubili della totalità degli abitanti di Nubiru.
Anche il cibo, a dire il vero, era un po’ monotono, ma nutriente e adatto a garantire la sussistenza di ognuno.
Le autorità, in base ai responsi del comitato scientifico, stabilivano periodicamente la dieta più idonea per garantire buone condizioni di salute ed apporto calorico necessario a svolgere le attività lavorative.
Nelle festività, poi, veniva distribuito un pasto speciale che veniva sempre accolto con soddisfazione ed entusiasmo.
Insomma, tutto scorreva sereno, felice e rassicurante su Nubiru.
Più però il ragazzo cresceva, più veniva isolato dai coetanei e più diventavano evidenti le sue anomalie rispetto alla normalità dei giovani di Nubiru.
Capitolo IV
Ebbe un solo, anzi una sola, giovane amica nella sua giovinezza.
Circa verso i suoi quattordici anni d’età, durante una delle consuete adunanze in piazza per ascoltare le importanti comunicazioni del sommo governo centrale, la sua attenzione fu attirata da un fatto inconsueto.
Gli sembrò di intravvedere, in mezzo alla folla esultante e plaudente, una ragazza invariabilmente seria e contrita.
Cercò di individuarla meglio in mezzo alla massa ondeggiante, ma l’esultanza generale faceva da barriera fra il suo sguardo e la individuata minuta figura.
Si alzò sulla punta dei piedi per discernere meglio e la intravvide di nuovo, sempre seria e compunta.
Si fece lentamente largo fra la folla, disinteressandosi totalmente, come del resto sempre faceva, dell’eccelsa comunicazione alla nazione, cercando di farsi più prossimo a lei.
Sembrava quasi sua coetanea o poco più giovane vista da vicino.
Si sincerò che anche lei come lui non abbozzava mai un sorriso, né accennava mai ad uno scoppio di riso in segno di approvazione.
Fece scorrere tutto il resto dell’eminente prolusione fingendo estrema attenzione all’oratore, ma curandosi in realtà di lanciare occhiate furtive alla sua giovane amica (sì, la sentiva già amica).
Si accertò che quel che vedeva non era un abbaglio o un’allucinazione ma una realtà assodata ed aspettò pazientemente il concludersi della nobile comunicazione e dello sciogliersi dell’adunanza.
Finita la diffusione dell’ottima comunicazione la folla soddisfatta e osannante incominciò lentamente a dileguarsi.
Fattasi più rada la ressa finalmente il giovane ebbe modo di farsi più presso alla ragazza.
«Non ti è piaciuto il discorso?» chiese con fare timoroso.
«Anzi! È stato proprio entusiasmante e grandioso» rispose quella sempre seria e accigliata.
«Il tuo aspetto e la tua espressione dicono altro però. Non hai mai sorriso un attimo, né accennato mai ad un riso di approvazione» replicò il ragazzo dubbioso.
«Ah, dici quello? Sì, spesso mi dimentico che la gente non conosce certo i fatti miei. Ho avuto una paresi da piccola e non ho più il controllo dei muscoli del viso, per cui non mi vedrai mai né sorridere né ridere.»
«Ah, è così» commentò lui deluso.
«Sì, però la paresi non mi impedisce di parlare con un ragazzo simpatico che mi rivolge la parola.»
Il ragazzo ebbe quasi l’impressione che la giovane avesse fatto seguire le sue brevi gentili parole da un vano tentativo di sorriso.
Calò un breve silenzio fra i due, e non potendolo fare la giovane fu il ragazzo ad accennare un sorriso di riconoscenza.
«Se vuoi possiamo vederci ogni tanto e fare due chiacchiere» aggiunse lei con sguardo ardito.
«Oh, sì, certo» annuì il ragazzo imbarazzato e confuso.
Sono sempre le ragazze, il sesso cosiddetto debole, a prendere l’iniziativa in fatto di pubbliche relazioni, per non dire d’altro.
Fu così che presero l’abitudine ad incontrarsi di tanto in tanto, senza nessun impegno preciso ed in totale autonomia.
Lei era sciolta di lingua, una vera chiacchierona, simpatica ed originale.
Lui, col fatto di non sentirsi obbligato a sorridere e ridere a comando, visto che lei era impossibilitata a farlo, si sentiva completamente rilassato ed a suo agio, e, anche se a volte non condivideva le idee entusiaste della ragazza riguardo il governo del mondo, nondimeno la ascoltava con ammirazione e piacere.
Il loro amichevole rapporto andò avanti con reciproca soddisfazione per parecchi mesi.
Poi successe qualcosa.
Il ragazzo non capiva cosa, ma sentiva che lei non era più come prima.
Spesso il silenzio scendeva fra loro e permaneva imbarazzante e pesante.
Lei sembrava più nervosa ed inquieta.
In poche parole, non c’era più la serenità e la spensieratezza dei primi tempi nei rapporti fra loro, ed il ragazzo non capiva perché.
Lui, per parte sua, non si sentiva cambiato per nulla nei suoi rapporti verso la giovane amica, ma sentiva come una barriera fosse calata fra loro e non se ne spiegava il motivo.
Poi lei incominciò ad arrivare sempre più in ritardo ai loro incontri, che si riducevano così inevitabilmente in durata e piacevolezza.
Un giorno il giovane non poté più farne a meno e le chiese:
«Non ti fa più piacere chiacchierare non me? Se non vuoi più vedermi basta dirmelo.»
La ragazza rimase in silenzio, a testa bassa per qualche istante, poi alzando il viso verso di lui ma evitando di guardarlo diritto negli occhi gli disse:
«No, al contrario, vederti e chiacchierare con te mi fa molto piacere, ma non sapevo come dirtelo, non dobbiamo più vederci.»
«Come?» replicò lui con tono acceso «Ti piace stare con me ma non dobbiamo più vederci? E che senso ha?»
«Ci hanno visti. Tu non sorridi mai ed io neanche» replicò quella contrita.
«E allora? Tu non puoi ed io non ne ho voglia, e con questo?» ribatté il ragazzo contrariato e stupito.
«Ci hanno visto, ti ho detto, miei parenti e vicini di casa.»
«E allora? Cosa facciamo di male?»
«No, niente di male, ma i miei genitori non vogliono che ci vediamo più, non sapevo come dirtelo.»
«Ma se non facciamo nulla di male perché non dovremmo vederci?»
«Non hai ancora capito, non è perché facciamo qualcosa di male che non dobbiamo più vederci, ma proprio perché siamo sempre seri tutti e due.»
«Ora ti spiego» continuò la ragazza, «se ci incontrano le guardie e si insospettiscono del nostro strano atteggiamento, io posso sempre dire della mia paresi che mi impedisce di sorridere e ridere, ed a dire il vero questo è già successo in passato, ma tu? Mica puoi dire pure tu che sei impedito ai muscoli del viso. Te lo immagini se diciamo che siamo stati colpiti tutti e due dalla stessa strana malattia. E chi ci crederebbe? I guardiani penserebbero che ci stiamo prendendo gioco di loro.»
«Quindi non dobbiamo più vederci?» chiese deluso il ragazzo.
«Forse è meglio, sia per me che per te. Tu forse non ti sei accorto ma già è successo qualche volta di incontrare dei tutori del benessere pubblico e ci hanno guardati di traverso e si sono pure fermati e voltati ad osservarci parlottando fra loro. Prima che ci fermino e rischiamo di essere arrestati per comportamento antisociale conviene che evitiamo di vederci.»
Il ragazzo chinò il capo comprendendo infine il senso delle parole della ragazza.
«Mi ha fatto piacere conoscerti e frequentarti» disse lei.
E, con queste parole, sparì dalla sua vita.
CONTINUA
LO STRANO CASO DEL RAGAZZO SERIO E DEL PIANETA DEL SORRISO è un romanzo di Silvio Nizza
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