L’OROLOGIO SMEMORATO di Vito Della Bona

L’orologio da polso si fermò per l’ennesima volta.

Voleva capire come mai dovesse misurare il tempo in quel modo: dodici ore, sessanta minuti, sessanta secondi.

È vero, ho tre lancette: quella delle ore e quella dei minuti che sono entrambe inserite nel canotto al centro del quadrante”, aveva ripreso a pensare. “Poi c’è quella dei secondi, un po’ più sotto, che sembra andare per i fatti suoi. Ma non è vero perché ogni volta che compie un giro completo, quella dei minuti fa sempre un saltello in avanti. Ecco, tutti questi movimenti non li riesco proprio a capire e mi sembrano di una estrema monotonia.”

Questi pensieri continuavano ad assillare l’orologio. Da quando era caduto a terra, per un maldestro movimento del suo proprietario, non si era più riavuto. Quel colpo, proprio dalla parte della corona, gli era stato fatale. Gli ingranaggi, all’apparenza, sembravano essere rimasti intatti, ma qualcosa di strano doveva essere successo all’orologio perché, da quel momento, non era più riuscito a comprendere cosa stesse facendo.

Il suo proprietario, quando aveva visto l’orologio scivolargli dal polso e cadere a terra, aveva avuto un attimo di paura e il battito del suo cuore era salito a dismisura. Lo aveva raccolto, guardato davanti, dietro e di fianco, poi lo aveva avvicinato all’orecchio per sentire il suo ticchettio.

“Meno male che non è successo niente”, era stata la considerazione finale. “Non ha alcuna ammaccatura. Il movimento sta funzionando.”

Così se lo mise al polso con grande attenzione.

Quell’orologio lo aveva ricevuto molti anni prima come regalo di laurea.

In quell’occasione suo padre non aveva badato a spese. Era d’oro, a carica manuale, e con un cinturino di pelle nera.

Il neolaureato dottor Giorgio Rossi era rimasto entusiasta quando lo aveva ricevuto. Ora lo poteva esibire al polso con noncuranza, sapendo però che tutti lo avrebbero notato.

Quello stesso pomeriggio il dottor Rossi si accorse che qualcosa non andava.

Arrivò tutto trafelato davanti al portone del suo studio. Era un lussuoso palazzo, recentemente ristrutturato, e proprio al limitare del centro storico della città. Prima di entrare diede un’occhiata per vedere che ora aveva fatto. Il pranzo al ristorante con il suo cliente era andato per le lunghe e lui, entro sera, aveva ancora molte cose da sbrigare in ufficio.

L’orologio segnava le 12 e 45.

Lo avvicinò all’orecchio pensando che fosse fermo, ed effettivamente non sentì il suo caratteristico tic-tac.

“Che strano!”, disse ad alta voce “Vuoi vedere che stamattina quando mi è caduto mi sono dimenticato di dargli la carica.”

Si fermò un attimo a parlare con il portiere, poi salì al primo piano dove aveva lo studio. La segretaria aprì la porta, gli consegnò una cartelletta dicendo che aveva una chiamata urgente da parte del direttore della banca: lei gli aveva assicurato che lo avrebbe fatto richiamare non appena il dottore fosse tornato in ufficio, comunque entro le 15.

“Adesso che ora è?”

“Sono le 14:45”, rispose la segretaria, un poco stupita vedendo che lui aveva al polso il solito orologio.

Andò diretto nel suo ufficio si tolse la giacca, slacciò il cinturino dell’orologio e lo stava appoggiando sulla scrivania quando si accorse che segnava le 12:50.

Rimase un attimo perplesso. Era sicuro di aver visto, solo pochi minuti prima, che la lancetta segnava meno un quarto. Lo riprese in mano, lo portò all’orecchio e sentì il suo inconfondibile ticchettio.

“Non è possibile!”, pensò.

In quel momento squillò il telefono. Era la segretaria che gli passava il direttore della banca e, quindi, fu costretto ad appoggiare l’orologio sulla scrivania.

Preso dal suo lavoro non ci pensò più, fin quando la segretaria non bussò alla porta per dire che stava uscendo, dato che erano già le 18:00.

La salutò e gli venne in mente l’orologio.

Lo riprese, vide che segnava le 13:30 e si accorse subito che stava funzionando, dato che la lancetta dei secondi si muoveva.

“Il colpo di questa mattina deve aver mandato in tilt qualcosa nell’ingranaggio”, disse, ad alta voce, un po’ stizzito per la sua sbadataggine.

Decise che sarebbe andato fino al negozio di oreficeria dove suo padre aveva acquistato tanti anni prima quell’orologio, anche se non era più in garanzia. Di loro si fidava. Chiuse la cartelletta con i documenti che stava esaminando e lasciò lo studio.

Spiegò al titolare del negozio il problema che aveva riscontrato.

“Lo devo mandare alla casa”, fu la risposta. “Le costerà, ma ne vale la pena visto il modello dell’orologio. Comunque ci vorrà un bel po’ di tempo per riaverlo, dato che se la prendono comoda, ma fanno un ottimo lavoro. Le telefonerò quando sarà pronto.”

Così l’orologio finì alla casa madre, dove esperti orologiai lo smontarono, ne controllarono i meccanismi, lo rimontarono, lo provarono più volte. Tutto era in perfetto ordine. Quell’orologio non aveva alcun problema e così fu rimandato al gioielliere con il salato conto per quell’inutile intervento.

L’orefice chiamò il proprietario per il ritiro.

“Eccole il suo orologio, dottor Rossi. Dicono che è tutto a posto. Funziona perfettamente”, furono le parole dell’orefice, mentre presentava il conto.

Giorgio tirò fuori la sua carta di credito e pagò. Non si aspettava certo quella cifra, ma era contento di riavere al polso il suo orologio.

Non passarono neanche ventiquattrore che il problema si ripresentò.

Era nello studio quando la segretaria bussò.

“Buonasera dottore, io sto uscendo. Ci vediamo domani. Se ha qualcosa di urgente me lo lasci come al solito sulla scrivania.”

“Buona serata”, rispose, mentre era intento a controllare un verbale di assemblea.

Lei richiuse la porta e lui, istintivamente, guardò l’orologio per vedere a che ora lasciava l’ufficio.

L’orologio segnava le 15:10.

Non credeva ai suoi occhi. Avvicinò il polso all’orecchio e percepì distintamente il suo tic-tac.

“Ecco! Ci risiamo! Deve essersi fermato un’altra volta… e poi è anche ripartito.”

Lanciò quattro imprecazioni verso la casa madre e i suoi orologiai, finendo con un’amara considerazione: “spennato e gabbato!”

Decise di uscire a fare quattro passi per sbollire la rabbia, e così fece.

Girò per un po’, senza una meta precisa. L’aria della sera era fresca, segno che l’autunno era oramai alle porte.

Prese per uno dei vicoli laterali che non aveva mai percorso, pur avendo lo studio lì vicino.

Era una strada stretta a senso unico. Anche i due marciapiedi erano tanto stretti che un paio di persone avrebbero fatto fatica a camminare una di fianco all’altra.

Fu lì che a un certo punto, lungo il marciapiede opposto, vide una vetrina illuminata, con una porticina a vetri di fianco. Sopra c’era un’insegna: Bernardo – Il vostro orologiaio.

Attraversò la strada incuriosito dal piccolo negozio.

La vetrina era parzialmente coperta da una tenda appoggiata a una bacchetta posta poco sopra la metà del vetro. Avvicinandosi vide la scritta: “L’Orologiaio Matto. Si riparano orologi di ogni tipo e di qualsiasi marca”.

Gli venne da sorridere per quella scritta e decise di entrare. Aprì la porta che fece suonare un piccolo campanellino posto alla sommità del battente.

“Buonasera!”, disse ad alta voce andando verso il bancone e non vedendo alcuno.

“Mi dica pure!”, rispose un piccolo omino che era seduto a un banchetto in fondo al laboratorio, intento ad armeggiare con qualcosa in mano sotto una lampada da tavolo.

“Voi riparate orologi?”, chiese il dottor Rossi.

“Se non sbaglio così é scritto sull’insegna”, fu la risposta.

“Ma anche di marca?”

“Anche questo è scritto sulla vetrina”, rispose con voce tranquilla l’omino, che aveva appoggiato sul banchetto da lavoro quello che aveva in mano e ora fissava il nuovo venuto.

“Ne avrei uno da riparare. Se faccio in tempo domani glielo porto”, disse il dottor Rossi, che era ancora dubbioso se lasciare a quello strano tipo il suo bell’orologio.

“Gli orari di apertura li trova sul cartello appeso alla porta di entrata”, rispose l’omino, che nel frattempo aveva ripreso a trafficare.

Il dottor Rossi uscì, guardò gli orari di apertura del laboratorio, e si incamminò verso casa.

Strada facendo si convinse che era meglio aspettare. Quel posto gli pareva un poco strano per lasciargli l’orologio che aveva al polso, e quell’orologiaio sembrava veramente strampalato.

L’orologio, dopo tanto stress subito presso la casa madre, era tornato alla vita normale, ma con questa si era ripresentato in modo ancora più accentuato il suo dilemma.

Perciò aveva deciso di prendersi, ogni tanto, un adeguato lasso di tempo per pensare al suo problema.

Fu così che continuò a fermarsi per poi riprendere il suo lavoro fino a quando qualche altro pensiero non lo turbava nuovamente, per cui decideva di interrompere l’attività.

Ma più pensava meno vedeva una soluzione al suo problema, per cui i momenti di fermo divennero sempre più ricorrenti.

Il dottor Rossi arrivò al punto di odiare quell’orologio che per un po’ andava, poi si fermava e non voleva ripartire anche se lui cominciava a scuoterlo, e che poi, quando meno se l’aspettava, tornava a funzionare.

La settimana successiva prese la dolorosa decisione: andò dal suo orefice di fiducia a comperare un altro orologio di buona marca, in acciaio, perché già comportava un investimento non indifferente.

Propose al negoziante che gli ritirasse l’altro, ma questi rispose che non sapeva che farsene di un orologio mal funzionante.

Così, mentre tornava a casa con il nuovo orologio al polso e il vecchio in tasca, decise di passare dall’Orologiaio Matto.

Lì giunto aprì la porta, facendo suonare il campanellino e si diresse direttamente al bancone.

L’orologiaio era seduto là al suo posto, intento a osservare con il monocolo la parte interna di un orologio.

“Buona sera”, disse il dottor Rossi. “Sono tornato e ho deciso di affidarle il mio orologio che fa le bizze. Un po’ va e un po’ sta fermo, come gli garba a lui.”

“Ora sono occupato! Me lo lasci sul bancone. Ci sono dei biglietti numerati, scriva il suo nome e recapito telefonico su quello di sinistra e si prenda il tagliando a destra per il ritiro.”

Il Dottore non ebbe il coraggio di fare alcuna obiezione. Guardò sul bancone, individuò il blocchetto numerato e fece quanto gli era stato detto.

“Devo proprio lasciarlo qui sul bancone?”, chiese ancora mentre si metteva in tasca il tagliando.

“Gliel’ho già detto. Lo lasci sul bancone.”

“Quando posso passare a vedere se è pronto?”

“Provi tra qualche settimana. Appena posso gli darò un’occhiata”, fu la risposta un po’ brusca dell’orologiaio, che non aveva mai alzato lo sguardo dal suo lavoro.

Il cliente salutò e se ne uscì senza dire altro.

Giunta sera, l’orologiaio guardò il grande orologio che aveva appeso al muro, di fronte al suo banchetto. Vide che erano già quasi le otto. Doveva andare al più presto a casa dove la moglie lo aspettava con impazienza. A mezzodì le aveva garantito che per le otto sarebbe rientrato e quindi, a quell’ora, la sua pastina in brodo sarebbe stata già sicuramente in tavola.

Si alzò e andò al bancone. Prese l’orologio, lo esaminò attentamente, convenendo che fosse veramente un bell’orologio. Recuperò la matrice, dove il cliente aveva segnato i suoi dati, e l’attaccò con un sottile cordino a un’aletta. Poi, controllò che fosse carico, mise a posto l’ora e lo andò ad appoggiare sul banchetto di lavoro.

Si tolse il camice che appese vicino all’entrata.

Il suo sguardo cadde sull’orologio a cucù che era appeso proprio lì, e che si era dimenticato di mettere sotto carica.

Glielo avevano portato a riparare tanti anni prima, ma il padrone non si era più presentato a ritirarlo, per cui lo riteneva oramai un componente del suo laboratorio.

“Che sbadato che sono!”, disse, e tirò verso il basso la parte libera delle due catene, facendo salire verso l’alto i due contrappesi a forma di pigna; allungò il braccio per mettere a posto l’ora e poi diede un colpetto al pendolo a forma di foglia.

L’orologio iniziò a funzionare.

“Bisogna che mi ricordi di ricaricarti ogni sera quando esco”, disse parlando all’orologio e sorridendo soddisfatto. “Così, mentre lavoro potrò continuare a sentire il tuo cucù scandire le ore.”

Prese la chiave, uscì in strada e diede due belle mandate alla vecchia serratura. Le saracinesche del negozio le lasciò su come al solito, affinché i passanti potessero vedere bene il suo laboratorio.

Poi, si avviò con passo veloce verso casa, dato che non voleva che il brodo diventasse completamente freddo.

Nel negozio scese il silenzio, rimase solo il continuo tic-tac degli orologi che si sovrapponevano gli uni agli altri.

Il nuovo arrivato continuò per un po’ il suo lavoro di misurazione del tempo. Poi decise di fermarsi per ascoltare meglio quello che avveniva intorno a lui. Così percepì tanti ticchettii diversi che provenivano da ogni parte del laboratorio.

A un certo punto si prese un grosso spavento: dall’orologio a cucù appeso vicino alla porta di ingresso uscì un uccellino che si mise a fare il verso del cuculo ben nove volte, per poi tornarsene all’interno, richiudendo la porticina da cui era uscito.

Non conosceva quel tipo di orologi, non gli era mai capitato di incontrarli, ma dopo il primo momento di panico convenne che erano divertenti.

Si sentiva esausto e finì per addormentarsi senza riprendere il suo movimento.

Il mattino seguente l’orologiaio, appena fu seduto davanti al suo banchetto, prese l’orologio in mano. Lui era ancora addormentato, e si svegliò solo in quel momento.

L’uomo si mise all’occhio la sua lente di ingrandimento e lo guardò attentamente, lo girò davanti, di dietro, di fianco e si accorse che sulla corona vi era una piccola ammaccatura.

“Questo orologio è caduto al suo proprietario”, disse ad alta voce. “Il colpo deve esser stato molto leggero, ma non è detto che non abbia prodotto qualche grave trauma.”

Aprì la cassa dell’orologio e continuò a osservare le sue parti interne.

“Per me non hai nessun problema meccanico”, sentenziò l’uomo mentre richiudeva la cassa. “Penso di aver capito il tuo problema. Hai perso la memoria e la ragione per cui si conta il tempo.”

Appoggiò l’orologio al petto.

“Senti il battito del mio cuore? Ascolti come è regolare?”, disse, traendo un profondo respiro. “La mia vita dipende da lui, dal suo pulsare regolare.”

Girò l’orologio e osservò le lancette che avevano ripreso a muoversi per poi, dopo un attimo, rifermarsi.

“Ti capisco!”, aggiunse, con un sorriso. “A volte la misurazione del tempo è talmente monotona che io stesso finisco per annoiarmi e mi fermo a guardare la gente che passa fuori dalla vetrina.”

Appoggiò l’orologio sul banchetto.

“Non è colpa dei tuoi ingranaggi ma della tua mente, che ti ha fatto perdere l’interesse per il tuo lavoro e così sei diventato un orologio smemorato. Ora bisogna che ci pensi un po’; devo trovare una cura che sia in grado di risolvere il problema.”

Si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro per il laboratorio. Ogni tanto si dava una grattata in cima alla testa pelata con la mano sinistra e con la destra si tirava il lobo dell’orecchio dallo stesso lato. Poi si fermava un attimo e chiudeva gli occhi.

Non c’era alcun dubbio che stesse facendo delle profonde riflessioni per cercare una cura adatta al caso.

L’orologiaio giunse a una conclusione: era inutile mettere mano alle parti del movimento dell’orologio, che erano perfettamente funzionanti, ma andava fatto un intervento radicale sulla sua psiche.

Perciò decise che quella sera stessa avrebbe messo in atto il suo piano.

Poco prima di uscire si tolse il camice, prese l’orologio smemorato e lo mise su un ripiano che aveva nel piccolo retro, in fondo al suo laboratorio. Staccò l’orologio a cucù tirolese vicino all’entrata, e glielo appese proprio di fronte. Di fianco posizionò, da una parte, un orologio da tasca modello ferrovia e dall’altra una bella e grossa sveglia, con doppia campana come suoneria.

Alla sveglia sistemò la suoneria per le ore sette, pensando che al mattino lui non sarebbe stato in laboratorio. Si rese conto, il quel momento, che quella suoneria sarebbe stata doppiamente utile perché alla sera gli avrebbe dato il segnale che era ora di cominciare a mettere via gli attrezzi. Così poteva tornarsene a casa per tempo, in modo che la cena non fosse come al solito quasi fredda, con gran dispiacere della moglie che aveva messo tutto il suo impegno nella preparazione.

Verificò la carica ai tre orologi, sistemò i contrappesi a pigna dell’orologio a cucù, verificò che avessero l’ora esatta, e li lasciò lì tutti insieme a misurare il tempo.

Poi andò ad aprire la porta, spense la luce, e richiuse con la chiave a doppia mandata.

Era sabato sera, piovigginava e l’asfalto della strada era già tutto lucido. Si incamminò lungo il marciapiede formato da vecchi sampietrini; era deserto, dato che in zona non c’erano locali di intrattenimento. Leggere goccioline gli cadevano sulla testa pelata, ma non se ne curò, e andò verso casa tutto soddisfatto per l’idea che gli era venuta. Si mise a fischiettare: sarebbe arrivato in tempo per la cena.

Poi, pensò che il giorno dopo fosse festivo e avrebbe potuto farsi una bella dormita, ma lo aspettava il lavoro in laboratorio e la verifica della cura somministrata all’orologio da polso. La cosa gli fece cambiare umore: avrebbe dovuto trovare l’ennesima scusa per non portare la moglie a fare la passeggiata domenicale.

Nel laboratorio filtrava, attraverso i vetri, la luce dei lampioni della strada, ma in fondo, dove era stato sistemato l’orologio smemorato, era quasi tutto buio.

L’unica cosa che lui sentiva bene era il tic-tac della sveglia che aveva di fianco.

Pensò che fosse un modello vecchio tant’era rumorosa e che, se fosse stata sul comodino di una camera da letto, nessuno avrebbe potuto prendere sonno.

L’orologio da tasca lo avvertiva appena. Il suo era un ticchettio tranquillo, quasi rilassante.

Il cucù appeso alla parete di fronte faceva fatica a scorgerlo nella semioscurità, e ne intravedeva solo la sagoma. Però l’aveva guardato bene quando l’orologiaio l’aveva appeso: tutto in noce, sui lati dell’orologio era raffigurato da una parte un coniglio selvatico, dall’altro un uccello, mentre sopra montava l’effigie di un cervo con tanto di lunghe corna; tutto intorno erano intagliate delle foglie, che riprendevano quella inserita sul pendolo. Una porticina, posta proprio sopra l’orologio, era l’abitazione del cuculo.

Lui si mise a seguire il frastuono provocato dalla sveglia, con quel suo ticchettio infernale, e non poteva fare a meno di seguirne il tempo. Improvvisamente sentì il rumore di una molla che scattava, il cuculo uscì dallo sportello e fece il suo verso per ben otto volte.

A lui, che era tutto assorto nel seguire i tempi della sveglia, quell’improvvisa esibizione canora, a pochi metri di distanza, per poco non gli fece venire un coccolone, e persino la lancetta dei secondi rischiò di uscire dal suo sostegno. Guardò su in alto e fece giusto in tempo a intravedere quell’uccellaccio che, dopo l’ottavo verso, si rintanava all’interno dell’orologio e chiudeva lo sportello.

Poi, tutto tornò calmo come prima.

Le successive uscite dell’orologio a cucù non gli crearono più alcun turbamento, dato che oramai ben sapeva che a ogni ora quel manigoldo apriva la porticina per fare la sua cantata.

Si era già fatta l’alba, le luci della strada erano state spente e dai vetri del negozio cominciava ad arrivare la luce del giorno.

Tutto all’interno del laboratorio assumeva dei contorni più reali, e anche la poca luce che arrivava fino al retro del locale permetteva agli orologi di vedersi fra di loro.

L’orologio smemorato era lì tranquillo che sonnecchiava, mostrando da diverso tempo la stessa ora: le due e trenta.

Improvvisamente il martelletto della sveglia cominciò a battere sulle due campane.

L’orologio si svegliò di soprassalto e le tre lancette cominciarono a girare vorticosamente.

Non riusciva a capire cosa fosse mai successo. Sentiva i meccanismi interni che sussultavano e vibravano per lo spavento.

Poi, passato un minuto, improvvisamente quel rumore così come era iniziato cessò del tutto.

Poco dopo le otto, arrivò l’orologiaio.

Entrato, si mise il camice e, per prima cosa, andò a vedere la situazione sul ripiano dove aveva lasciato i tre orologi. La sveglia e l’orologio da tasca segnavano la stessa ora, le otto e dieci, mentre l’orologio del dottor Rossi, seppur funzionante, era ancora alle tre e trenta, segno evidente che aveva fatto i suoi bei riposini.

Guardò dall’altro lato, dove era appeso l’orologio a cucù. Anche lui segnava le otto e dieci.

“Qui non ci siamo!”, disse l’uomo rivolgendosi ai tre orologi. “Mi aspettavo di più da voi tre. Siete i miei migliori misuratori del tempo e pensavo che avreste compreso bene il compito che vi avevo affidato. Vedo che la situazione è ancora in alto mare.”

Poi guardò fisso l’orologio a cucù.

“Lo so che sei là dentro”, disse ad alta voce. “In particolare contavo molto su di te, e invece mi hai deluso.”

Detto ciò, andò al suo banchetto, si sedette e iniziò a lavorare.

Quella mattina, prima di uscire di casa, aveva detto alla moglie che non sarebbe tornato per il pranzo dato che aveva un sacco di lavoro da fare e la moglie, dopo avergli ricordato che era domenica, aveva subito messo il broncio.

Durante la giornata lavorò di buona lena, sistemando diversi ingranaggi che nei giorni precedenti gli avevano creato qualche problema. Non arrivarono clienti e questo gli permise di non distrarsi.

Alzò finalmente lo sguardo e diede una sbirciatina verso la vetrina. Era già buio e lui non se ne era minimamente accorto per via della lampada che teneva sempre accesa sopra il banchetto per vedere meglio tutti quei piccoli ingranaggi su cui metteva le mani.

In quel momento sentì che la sveglia suonava le sette.

Appena posati gli attrezzi e alzato dalla sedia, tornò sul retro del laboratorio, controllò la carica dei tre orologi, sistemò l’ora a quello smemorato e tirò le due catene facendo salire le pigne del cucù.

“Bene ora siete tutti a posto. Mi raccomando a voi!”

Detto questo andò verso l’uscita, appese il camice all’appendiabiti, prese la chiave e se ne andò spegnendo la luce e chiudendo la porta.

Passarono pochi minuti e il cuculo uscì dalla porticina per segnalare che erano le otto di sera. Ma non rientrò, come era solito fare, ma si sporse verso il basso per osservare i tre orologi posti sul ripiano.

“Allora? Avete sentito che cosa ha detto il nostro uomo?”, disse con una voce ferma, scandendo bene ogni singolo vocabolo.

“Certo che sì!”, rispose l’orologio da tasca. “Ma che colpa ne ho io che ho continuato a scandire il tempo con tutto il mio impegno!”

“Non capisco perché se la prende con noi”, aggiunse la sveglia. “Per quanto mi riguarda penso di avere svolto il mio compito fino in fondo. Non ho nulla da farmi perdonare!”

“Ecco! Adesso il colpevole di tutto sono solo io!”, fece il cuculo, e, detto ciò, se ne rientrò tutto offeso, sbattendo la porta.

La sveglia e l’orologio da tasca si guardarono un po’ perplessi per la reazione del cuculo.

Non avevano voluto minimamente insinuare che la colpa fosse dell’orologio a cucù e, in particolare, del suo inquilino.

Così, in attesa che il cuculo uscisse per segnalare lo scoccare dell’ora successiva, cercarono anche di parlare con l’orologio smemorato, ma questo si era addormentato e continuava a segnare le sette e cinquantanove.

Arrivarono le nove, poi le dieci e le undici, e il cuculo usciva, cantava le sue ore e se ne tornava dentro senza volgere minimamente lo sguardo intorno. La sveglia e l’orologio da tasca cercarono più volte di attirare la sua attenzione, ma lui non li degnò di uno sguardo.

A mezzanotte il cuculo uscì per le sue dodici cantate.

La sveglia e l’orologio da tasca si erano ben preparati e, appena lo videro, cominciarono a rumoreggiare, tant’è che anche l’orologio smemorato, che stava sonnecchiando, ebbe un sussulto.

Il cuculo fece quanto doveva e poi guardò in basso.

“Cos’è tutto questo baccano in piena notte?”, chiese ai due là sotto.

“Volevamo dirti”, rispose la sveglia, “che non avevamo nessuna intenzione di dare la colpa a te. Ci hai sicuramente fraintesi e, se ci siamo espressi male, ce ne scusiamo.”

“Accetto le vostre scuse”, rispose il cuculo. “Ma avete ben sentito che cosa ha detto l’orologiaio. Dobbiamo fare qualcosa per quell’orologio.”

“Io non saprei proprio come rimediare a questa situazione”, disse la sveglia.

L’orologio da tasca non aggiunse nulla, ma si vedeva che anche lui non sapeva proprio che fare.

Il cuculo rimase lì fuori a pensare.

“Io un’idea ce l’avrei”, disse infine. “Noi tutti diamo per scontato che sia nostro piacere, nonché dovere, misurare il tempo. Spesso lo facciamo così… automaticamente, senza porci il problema se questa nostra attività ha qualche rilevanza, finalità. In fondo lo abbiamo sempre fatto… Ma ora vi chiedo perché facciamo questo lavoro?”

La sveglia e l’orologio da tasca lo guardarono un po’ sconcertati. In effetti si accorsero che loro lo facevano oramai per abitudine. Lo avevano sempre fatto e avrebbero continuato a farlo.

L’orologio smemorato, che si era ripreso dal suo torpore, aveva ascoltato con interesse quelle parole. Era proprio quello il suo dilemma.

“Si! Queste cose mi interessano”, disse improvvisamente, quasi spaventando i suoi due vicini che non gli avevano mai sentito dire alcunché. “Ma chi me le può spiegare?”

“Ecco! Il punto è proprio questo”, fece la sveglia. “Chi ci può dare una spiegazione?”

“Io no di sicuro!”, aggiunse l’orologio da tasca.

E tutti e tre guardarono verso l’alto, dove il cuculo se ne stava appoggiato alla sua molla che aveva bloccato per impedire che lo riportasse dentro.

“Noi all’orologio smemorato possiamo dare il buon esempio, far vedere che misuriamo il tempo in modo costante e corretto, e così via”, fece il cuculo. “Ma occorre che qualcuno racconti la ragione per cui siamo nati, per cui continuiamo e continueremo a esistere, seppur in forme diverse. E credo che la cosa gioverebbe anche a noi.”

“E chi ci può dare una mano?”, chiese la sveglia.

“Di tutto questo non so proprio nulla!”, fece l’orologio da tasca.

L’orologio smemorato guardò perplesso i suoi due vicini. Gli sembrava strano che non si fossero mai posti questi problemi.

“Io so chi ci può aiutare!”, fece il cuculo. “Ma bisogna convincerlo, e non è cosa facile. Ma ci posso provare.”

E, detto ciò, liberò la molla che lo riportò all’interno del cucù richiudendo la porta.

Quel lunedì mattina l’orologiaio arrivò che erano, come al solito, quasi le otto.

Dopo aver aperto il laboratorio e indossato il camice andò direttamente sul retro per verificare la situazione dell’orologio smemorato.

Trovò, con suo disappunto, che non c’era stato alcun miglioramento.

L’orologio del dottor Rossi era fermo all’una e trenta, segno evidente che si era riposato ancor più del solito.

Lo prese in mano, lo scosse leggermente e vide che si era svegliato perché la lancetta dei secondi aveva cominciato a muoversi.

Lo rimise al suo posto e osservò gli altri due orologi; segnavano entrambi le otto meno un minuto.

Guardò in alto, dall’altro lato dove era appeso l’orologio a cucù: anche lui segnava la stessa ora.

“Non ci siamo assolutamente!”, disse, “contavo su di voi, ma mi state deludendo!”

Fu in quel momento che scoccarono le otto e il cuculo uscì a fare le sue cantate.

L’orologiaio lo guardò e vide che, dopo l’ottava cantata, era rimasto fermo lì fuori anziché rientrare in casa.

“Voi mi fate diventare pazzo!”, disse l’orologiaio, passandosi le mani sulla testa calva e bella liscia. “Non ti ci metterai anche tu a darmi dei grattacapi?”

Ma l’uccellino restava lì immobile, fuori dall’uscio. Allora l’orologiaio prese la scaletta pieghevole a tre gradini che aveva lì vicino, l’aprì e salì a vedere cos’era successo.

Fece per toccare il cuculo, ma si fermò. Aveva avvertito una piccola voce. Avvicinò l’orecchio e stette lì fermo ad ascoltare.

Poi scese dalla scaletta, la ripiegò e la rimise al suo posto. Guardò in alto verso il cuculo che era sempre lì fermo e disse “Ci penserò!”, e se ne tornò di là al banchetto mentre il cuculo rientrava e richiudeva lo sportello.

L’orologiaio si dedicò per tutta la giornata alla sua attività, ma la mente era distratta da quanto gli aveva detto il cuculo, e fu costretto più volte a interrompere e riprendere il lavoro che stava facendo. Non che avesse difficoltà a raccontare quelle cose, dato che le conosceva benissimo, ma gli pareva bizzarra l’idea di mettersi a narrare loro una storia.

Fin da ragazzo era stato un appassionato di orologi e uno studente svogliato. Il padre, che ben conosceva questo suo interesse, dopo la scuola dell’obbligo lo aveva mandato a fare il garzone da un orologiaio suo amico, che gli aveva insegnato tutto quanto era necessario sapere per svolgere quel mestiere. Tant’è che poi aveva aperto un suo laboratorio.

Aggiustava gli orologi degli altri ma, non volendo chiedere prezzi troppo alti per il suo lavoro, aveva finito per non potersene permettere uno tutto suo. Del resto, quelli più economici non gli piacevano, se lo avesse mai avuto ne voleva uno di qualità.

Svolgendo questa attività il suo interesse per gli orologi era andato ancora crescendo e pian piano aveva accumulato in casa tutta una serie di libri sull’argomento. La sera, prima di andare a dormire, gli piaceva passare un’oretta a sfogliarne qualcuno. Al sabato dedicava a quella lettura ben due ore, mentre la domenica era dedicata interamente alla moglie: aiutarla nelle faccende domestiche, in cucina e poi una bella passeggiata insieme al parco o, se il tempo era brutto, in centro città sotto il porticato.

Arrivò sera e prima di uscire seguì la solita trafila. Caricati i tre orologi, mentre tirava i due capi della catena, facendo salire le pigne dell’orologio a cucù, prese la sua decisione.

“Va bene! Questa domenica verrò appositamente per raccontavi la storia e la ragione per cui esistono gli orologi.”

Fu a quel punto che il cuculo uscì dalla porticina, guardò giù e fece un “cu” di ringraziamento, per poi tornare velocemente indietro.

L’orologiaio sorrise divertito. Andò ad appendere il camice, chiuse la luce, diede le due mandate alla porta e se ne andò verso casa fischiettando.

Passarono i giorni e arrivò il sabato sera senza che fosse cambiato granché. L’orologio smemorato continuava a legittimare il suo nome, fermandosi ogni tanto e accumulando qualche ora di ritardo ogni giorno.

Quella domenica mattina l’orologiaio, salutò la moglie dicendole che aveva parecchio lavoro arretrato, e che sarebbe rimasto in laboratorio per tutta la mattinata. La moglie lo guardò severamente: i mestieri di casa sarebbero rimasti tutti sulla sua vecchia schiena.

Lui borbottò ancora la scusa che aveva già detto prima, uscì di casa e arrivò al laboratorio per la solita ora.

Non indossò neanche il camice, dato che non doveva lavorare al banchetto. Prese la seggiola che normalmente usava per il lavoro e se la portò sul retro.

Verificò orari e carica ai quattro orologi. Tutti segnavano la stessa ora, salvo l’orologio smemorato, che pur in funzione era indietro di quasi tre ore. Lo sistemò e spostò i tre orologi su un ripiano basso in modo da poterli avere sempre sotto controllo. Per l’orologio a cucù non c’era problema perché lo aveva proprio sopra la testa.

Ora poteva sedersi e fare quanto gli era stato chiesto.

Stava per iniziare a parlare quando il cuculo aprì la sua porta e fece capolino osservandoli dall’alto. L’orologiaio se ne accorse e gli sorrise.

“Tutti noi siamo felici che si possa misurare il tempo. La vita dell’uomo e della natura è scandita dal suo passare ed è quindi la cosa più importante che ci sia. Per capirlo mi dovete prestare attenzione dato che vi dovrò raccontare una storia che ha inizio più di tremila anni fa.”

L’orologiaio si fermò un attimo.

“Oooh! voglio proprio sentire”, disse la sveglia. “Sono vecchia, ma queste cose non me le hanno mai raccontate.”

“Sarà certamente interessante! È una cosa che non conosco”, aggiunse l’orologio da tasca.

“Glielo avevo detto che era un argomento di interesse per tutti noi”, fece il cuculo dall’alto.

Solo l’orologio smemorato non disse nulla, ma continuò a indicare con le sue lancette il passare del tempo.

“La consapevolezza è sempre una buona cosa che ci può aiutare nel corso della nostra esistenza”, rispose l’orologiaio, e iniziò il suo racconto.

L’orologiaio si guardò intorno e vide tutti attenti, compreso l’orologio smemorato.

“Molto bene!”, disse. “Possiamo continuare.”

Gli orologi erano sempre più interessati alla cosa.

“Non pensavo che ci fosse dietro tutta questa storia”, disse la sveglia che, per sentire meglio, aveva tanto abbassato il suo ticchettio da renderlo quasi silente.

“Anch’io non sapevo nulla”, aggiunse l’orologio da tasca.

Il cuculo era tanto preso dal racconto che per ben due volte perse l’equilibrio e rischiò di cadere sulla testa dell’orologiaio.

L’orologio smemorato continuava a funzionare e ascoltava anche lui con grande interesse quello che si diceva. Finalmente cominciava ad avere delle risposte ai suoi dubbi.

L’orologiaio si prese una pausa. Si alzò e andò di là, dove di fronte al banchetto si intravedeva la porta del bagno.

Entrò, prese un vecchio bicchiere di vetro, tutto rigato dal tempo, aprì il rubinetto e si fece una bella bevuta. Non era abituato a chiacchierare molto e cominciava a sentirsi la gola secca. Si guardò allo specchio e gli sembrò di vedersi ringiovanito.

Tornò dagli orologi e si accomodò sulla sedia.

Stava per riprendere il racconto ma, proprio in quel momento, il cuculo si voltò a vedere l’ora segnata dal suo orologio. Ebbe un attimo di sgomento.

“Scusatemi!”, disse subito.

Rientrò velocemente nella porticina per uscirne immediatamente dopo a fare dieci cantate. Poi, rimase lì fuori dov’era.

“Vedi che ti sei distratto!”, gli fece l’orologiaio. “Dovevi cantare solo nove volte e, invece, hai fatto un cucù di troppo.”

Il cuculo abbassò la testa in segno di sconforto.

“Non prendertela. Sono cose che possono capitare”, aggiunse l’orologiaio. “Comunque, da ora, ti prego di non interrompere più. Per questa mattina sei esentato dal servizio.”

Il cuculo non rispose, ma ci rimase un po’ male, dato che aveva svolto solo quello che era il suo compito.

“Ora che tutto è tornato tranquillo possiamo riprendere il discorso”, disse l’orologiaio, e vide che tutti si erano rifatti attenti.

Gli orologi lo guardavano esterrefatti per quanto stava dicendo. Non sapevano nulla della loro storia e tanto meno che fosse così avvincente.

L’orologiaio si guardò intorno.

“Vedo che siete tutti ben attenti. La cosa mi fa molto piacere”, disse, sorridendo soddisfatto. “Possiamo quindi andare avanti”, e riprese il racconto.

L’orologiaio arrivò al punto del suo intervento che riteneva fondamentale. Interruppe il suo discorso, fissò l’orologio smemorato che si era fatto ancora più attento, dato che l’argomento lo riguardava personalmente, diede un colpo di tosse per schiarirsi la voce, e riprese con maggior enfasi.

Poi, l’orologiaio continuò raccontando nel dettaglio la storia degli orologi da polso: come venivano montati, le parti del movimento, l’importanza dei rubini, e tanto altro ancora fino ad arrivare alla corona, ovvero alla rotellina per caricare l’orologio.

Era già quasi mezzodì, quando decise che il suo racconto era giunto al termine. Era ora di tornare a casa, la moglie lo aspettava per il pranzo.

“Bene!”, disse. “Ora spero che facciate un buon uso di quanto vi ho raccontato.”

Guardò un’ultima volta i quattro orologi, diede loro la carica, constatò che funzionassero perfettamente e segnassero la stessa ora, si alzò in piedi e riportò la seggiola vicino al banchetto da lavoro. Poi si diresse alla porta, lanciò un’ultima occhiata al suo locale, traendo un profondo sospiro, uscì sul marciapiede, diede due mandate con la vecchia chiave e si incamminò tutto contento verso casa. Riteneva di aver trascorso una bella e fruttuosa mattinata insieme agli orologi ed era convinto che questo impegno avrebbe dato i suoi frutti.

La sveglia, l’orologio da tasca e il cuculo cominciarono a scambiarsi le loro impressioni su quanto avevano ascoltato. Tutti e tre convennero che era stata una mattinata molto fruttuosa, avevano imparato tante cose a loro sconosciute.

Guardarono l’orologio da polso che era tutto assorto e funzionante, e non osarono disturbarlo.

All’orologio smemorato erano tornati alla mente ricordi di un non lontano passato, quando nel laboratorio i tecnici avevano messo insieme i suoi meccanismi. Rivide le mani esperte che prendevano con attenzione i vari componenti e li andavano a sistemare e combinare con attenzione fra di loro. Vide posizionare i suoi diciassette veri rubini, per ridurre l’attrito nella rotazione dei componenti, salvaguardando l’usura dei meccanismi e garantendo l’accuratezza nella misurazione del tempo.

Ricordò la soddisfazione con cui il tecnico lo osservava quando lo aveva deposto, completato e funzionante, sul suo banco da lavoro, e si rammentò perfettamente le sue parole: “Anche questo è a posto. È veramente un bell’orologio.”

Ora ricordava bene e con orgoglio il momento in cui era diventato un orologio da polso.

Improvvisamente si rivolse ai suoi compagni: “E’ vero! È stato tutto molto interessante! Ora ho ben chiaro il mio compito!”

Gli altri gli sorrisero e il cuculo, che era lì fuori a osservare, rientrò velocemente in casa per riapparire subito dopo mettendo in funzione, anche se fuori orario, per ben dodici volte i suoi pifferi.

Il lunedì mattina l’orologiaio arrivò ad aprire il suo laboratorio alla solita ora. Si mise il camice da lavoro e si diresse per prima cosa a dare un’occhiata sul retro.

Non aveva perso la fiducia riposta nei tre vecchi orologi a cui aveva affidato il compito di curare la psiche del nuovo arrivato. Era sempre convinto che prima o poi avrebbe avuto il risultato che si attendeva.

Si avvicinò e guardò cosa faceva l’orologio smemorato: segnava le otto e dieci e stava funzionando.

Guardò la sveglia, poi prese in mano l’orologio da tasca per vedere bene l’ora, guardò l’orologio a cucù: tutti segnavano le otto e dieci minuti.

“Bene! Vedo che facciamo progressi”, disse l’orologiaio guardando prima il cucù e poi la sveglia e l’orologio da tasca. “Era ora che cominciaste a darmi una mano! Continuate pure così.”

Provvide a dare la carica a ciascuno, e se ne tornò di là, mettendosi al lavoro sul suo banchetto.

Passò l’intera settimana: ogni sera caricava gli orologi e al mattino andava a verificare il loro orario. Tutti funzionavano a meraviglia, al di là delle sue aspettative. Segnavano tutti la stessa ora e minuto, la lancetta dei secondi l’aveva solo l’orologio da polso.

Quella sera il dottor Rossi decise che avrebbe finito il suo lavoro prima del solito. Era venerdì e si sentiva particolarmente stanco dato che per tutta la settimana aveva lavorato fin oltre le nove di sera.

La segretaria era già uscita da un bel po’. Chiuse la cartelletta della pratica che stava esaminando e la mise in cima alla pila di quelle in sospeso che aveva sul lato destro della scrivania. Si infilò il suo cappotto di cachemire, mise in testa il borsalino e chiuse l’ufficio.

Scese in strada dove le luci dei lampioni erano già accese. La serata era bella e, nonostante fosse pieno inverno, la temperatura era gradevole.

Girovagò per un po’ tutto soddisfatto di essere uscito prima del solito. Si sentiva rilassato come oramai non gli succedeva da moltissimo tempo.

Svoltò sul marciapiede e prese uno dei vicoli laterali e subito si ricordò del suo orologio che aveva portato a riparare alcune settimane prima.

Senza neanche rendersene conto aumentò il passo, come se avesse particolare fretta.

Arrivato davanti all’entrata, si fermò un attimo indeciso se entrare o meno.

Poi, prese la decisione. Spinse la porta e il campanellino avvisò il proprietario che qualcuno stava varcando la soglia.

“Buonasera”, disse entrando e avviandosi verso il bancone. “Sono venuto a vedere se ci sono novità sul mio orologio.”

L’orologiaio alzò la testa dal suo banchetto e scorse la figura del signore che gli aveva lasciato qualche tempo prima quel bell’orologio smemorato da sistemare.

“Il suo orologio è perfettamente a posto. Volevo darle un colpo di telefono ma ho avuto troppe cose da fare e me ne sono dimenticato”, disse l’orologiaio, mentre appoggiava sul banchetto il meccanismo che stava controllando e si toglieva il monocolo.

Si alzò e andò verso il bancone dove prese il tagliando che il signore gli porgeva. Ma non ebbe bisogno di controllare nulla: andò direttamente sul retro, recuperò dallo scaffale l’orologio e tornò in negozio.

“Ecco il suo orologio. Ora è perfettamente a posto”, disse mentre lo appoggiava sul bancone.

“Bene! Non vedevo l’ora di rientrarne in possesso. Mi mancava. Cosa le devo?”

È stato un piacere averlo nel mio negozio. Non mi deve nulla. Del resto, io non ho dovuto fare granché, se non divertirmi a raccontare una storia. Era solo un problema psicologico, che hanno risolto gli altri miei orologi.”

Il dottor Rossi rimase lì un attimo perplesso, ma non ebbe il coraggio di replicare. Si limitò a un: “Molto bene! Non vedevo l’ora di riaverlo!”

Si tolse l’orologio che aveva al polso e lo ripose nel taschino interno della giacca, prese il suo che l’orologiaio aveva appoggiato sul bancone e se lo mise. Poi lo guardò con evidente soddisfazione e piacere.

“Sicuro che non le devo proprio nulla?”, chiese ancora il dottor Rossi.

“Certamente!”, rispose l’orologiaio. “Per me è stato un piacere vedere che ora funziona.”

E così detto se ne tornò al banchetto a riprendere il lavoro momentaneamente sospeso.

Il dottor Rossi uscì dal negozio e se ne andò verso casa, gettando ogni tanto un occhio al suo polso.

È stata veramente una bella giornata!”, pensò, mentre varcava l’uscio di casa.

Passò una settimana e nella mente del dottor Rossi, ogni volta che guardava il suo orologio, continuavano a frullare una serie di pensieri: l’orefice a cui aveva in precedenza portato il suo orologio si era fatto ben pagare, dicendo che lui non ci guadagnava nulla e che quanto chiedeva era solo il rimborso delle spese addebitate dalla casa madre; nonostante il lauto compenso pagato l’orologio era rimasto esattamente come prima, ovvero non funzionante; ora funzionava perfettamente e l’orologiaio che lo aveva sistemato non aveva voluto essere pagato, adducendo una strana giustificazione.

Ecco! Questi pensieri lo turbavano a tal punto che cominciò a sognarseli anche la notte.

Alla fine, gli fu ben chiaro un punto: si sentiva in debito con l’Orologiaio Matto, dato che lui non aveva voluto alcun compenso per avergli sistemato, in modo perfetto, il suo orologio.

Prese la decisione. Erano passate le diciotto, e la segretaria era appena uscita. Doveva assolutamente fare quello che aveva in mente.

Prese dal cassetto della scrivania un astuccio e lo mise nella tasca della giacca. Recuperò il suo cappotto dall’appendiabiti. Il cappello non se lo era messo perché quella mattina pioveva a dirotto e non voleva rovinarlo.

Guardò fuori dalla finestra e gli sembrò che non piovesse più, perciò decise di uscire senza l’ombrello.

Chiuse la porta dello studio e scese in strada. In effetti piovigginava ancora: quella sottile pioggerella che quasi non si percepisce, ma che finisce per inzupparti ben bene.

Decise, comunque, di non tornare a prendere l’ombrello e si avviò per raggiungere l’angolo da cui partiva il vicolo a cui era diretto.

Svoltò e percorse la strada di buon passo, dato che voleva bagnarsi il meno possibile. Arrivò davanti alla vetrina dell’Orologiaio Matto e entrò subito, senza esitazione.

“Buonasera”, disse, richiudendo la porta, che aveva scampanellato, e avvicinandosi al bancone.

L’orologiaio alzò la testa dal suo banchetto.

“Buonasera”, rispose. “Ha qualche altro problema con l’orologio?”

“No, tutto bene”, disse il dottor Rossi. “Sono tornato solo perché ho un debito con lei!”

“Non mi risulta”, rispose l’orologiaio.

“Certo che si!”, intervenne ancora il dottore. “Voglio insistere sul discorso del pagamento per il lavoro fatto.”

“Ma le ho già detto che non ho fatto alcun lavoro. Il suo orologio era perfetto! Aveva solo bisogno di un certo incoraggiamento e, a volte, fa bene anche a me raccontare qualche storia se trovo degli ascoltatori interessati.”, ripeté l’orologiaio, che nel frattempo si era alzato per andare verso il bancone.

“Va bene! Non voglio stare a discutere sull’argomento. Ma ho deciso che devo, in ogni caso, ricompensare la sua disponibilità e il fatto che mi ha sistemato l’orologio a cui tengo così tanto.”

Detto ciò, si slacciò il cappotto e recuperò dalla tasca della giacca l’astuccio che vi aveva riposto. Lo appoggiò sul bancone, lo aprì e tirò fuori l’orologio che aveva acquistato in sostituzione del suo, quando lo aveva lasciato in riparazione.

“Ecco questo è per lei!”, disse. “L’ho usato solo per poco tempo e va benissimo.”

“Non posso accettarlo”, rispose l’orologiaio. “Come le ho già detto io non ho fatto nulla. Ci hanno pensato gli altri orologi del laboratorio a ridargli la fiducia che gli mancava, e a fargli rivalutare l’importanza della misurazione del tempo.”

“Ho capito…”, rispose il dottor Rossi, anche se la storia gli sembrava assurda. “Ma mi sento in debito con lei, e voglio proprio che accetti almeno questo mio omaggio. Mi offenderei se lei lo rifiutasse.”

Appoggiò l’orologio sul bancone.

“Su! Lo prenda!”

L’orologiaio lo guardò.

“E’ proprio un bel misuratore del tempo”, disse. “Pensi che pur facendo da tanti anni questo mestiere, non ne ho uno tutto mio da mettere al polso.”

“Su! Lo prenda!”, ripeté il dottor Rossi.

“Posso?”, disse l’orologiaio prendendolo in mano.

“E’ suo!”, rispose il dottor Rossi. “Nell’astuccio troverà anche la garanzia.”

L’orologiaio se lo mise al polso.

“E’ veramente bello!”, disse. “Mia moglie, quando me lo vedrà questa sera, mi chiederà se sono impazzito.”

“Bene!”, disse il dottor Rossi, riabbottonandosi il cappotto di cachemire. “La saluto e la ringrazio per quanto ha fatto per me. Le auguro una buona serata.”

E se ne uscì, dando un’occhiata all’orologio a cucù che era tornato a fare bella mostra di sé di fianco alla porta d’entrata.

L’orologiaio, che era rimasto lì impalato senza dire altro, fece un profondo respiro, tornò al banchetto, si sedette, diede un’occhiata al polso e riprese il lavoro interrotto.

Il cuculo, che aveva ascoltato tutto attraverso la porticina socchiusa, uscì pian piano e si sporse per guardare la sveglia e l’orologio da tasca che erano ritornati al loro posto, non lontano da lui; si guardarono e lui strizzò loro l’occhio, poi rientrò velocemente chiudendo la porticina con cautela per non fare rumore.

Quella sera l’orologiaio tornò a casa tutto soddisfatto. Appena entrato mostrò alla moglie l’orologio che aveva al polso e le raccontò del cliente che aveva voluto sdebitarsi con lui per un lavoretto di così poco conto.

La moglie l’osservò per tutta la sera. Suo marito, che aveva tenuto l’orologio al polso, ogni tanto non mancava di dargli un occhio.

Lei non gli disse nulla ma fece un solo pensiero:

“Non si è mai messo un orologio al polso in tutta la sua vita. Ora è lì che se lo guarda di continuo. È diventato veramente un po’.. matto!”

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