NON CHIUDERE QUELLA PORTA di Maria Tedeschi

Abstract.

Quando Alice era bambina, sua madre si rassicurava che la porta di casa fosse sempre chiusa con il lucchetto affinché non uscisse fuori e non entrasse nessuno.

Una forma di riservatezza esasperata nei confronti di estranei pericolosi.

Da adolescente quella porta restava chiusa per Ali, figlia ribelle e disobbediente, una “flâneuse” che amava gli U2, il rock e frequentava i centri sociali.

Era quella con i capelli arruffati, con il ciuffo verde, con il chiodo di pelle, quella che vestiva di nero , che ascoltava musica infernale e frequentava gente strana… una vera maledizione per una famiglia “perbene”.

La pseudo prigionia non durò a lungo.

La frequenza obbligatoria all’università di lingue “ L’Orientale” le permetteva di trascorrere l’intera giornata fuori.

Indugiava così nei vicoli della zona antica di Napoli e oziava alla ricerca della bellezza nell’arte o nei sapori e odori del cibo di strada, tripudio di bontà e felicità.
Comprese che lei non era sbagliata, il mondo era pieno di colori, di sfumature, c’era spazio per tutti e le possibilità erano infinite.

L’ esperienza a Londra per la scrittura della tesi , i viaggi incentive in tutto mondo , l’insegnamento al centro sociale, i concerti degli U2 , le permisero di accumulare esperienze ma anche di comprendere i suoi genitori, molto diversi da lei.

Aveva finora rifuggito ogni tipo di legame che attentasse alla sua libertà e non poteva immaginare che un giorno Manfredi, nella maniera più discreta, avesse aperto l’unica porta rimasta ancora chiusa ( quella del suo cuore) per trattenersi più a lungo del previsto.

E ancora porte chiuse sul suo cammino e qualcuna addirittura nasconderà l’ inferno di un amore malato.

Da adulta poi, sua madre le chiederà di chiudere la porta quando, malata terminale di cancro, non riusciva più ad alzarsi dal letto. Chiudere quella porta e ritornare a casa sua senza sapere se quando fosse ritornata l’avrebbe trovata ancora viva, le faceva davvero male, una sensazione di distacco e di estrema separazione.

Un’ esperienza devastante che costringerà Ali a inventarsi ancora una volta una sorta di “passepartout.”

Incipit

Mi chiamo Alice e sono uno spirito “ribelle”. I miei genitori mi hanno sempre tagliato i capelli cortissimi e vestito da maschio, tant’ è che spesso e volentieri mi scambiavano per un bambino.

Il desiderio di mio padre di un erede “maschio” si realizzò a distanza di quattro anni con la nascita di Alfio.

Non l’ho mai visto essere così felice come quando vide spuntare fuori dalle fasce i due virili gioielli sferici di mio fratello.

Il mio potrebbe sembrare un discorso antiquato e lontano, ma per i miei genitori non era così.

La garanzia del cognome rappresentava il suggello della loro casata… un po’ come si legge nei sonetti di Shakespeare quando l’autore invita vivamente il suo “patron” (the Earl of Southampton) a procreare per superare la caducità del tempo. La sua prole (naturalmente in linea maschile) avrebbe reso immortali la sua indiscussa bellezza e intelligenza.

Una secondogenita e per di più “femmina” era solo un incidente di percorso.

Se ero considerata “trasparente” dai miei genitori, di certo non avrei mai potuto conquistare un mio spazio nella società che era fuori.

A dire il vero non me ne era mai importato oltre al fatto che essere bambina o bambino, nascere prima o dopo, per me non faceva alcuna differenza.

Cosa cambiava?

Come figlia di mezzo, avrei avuto meno responsabilità e forse maggiore libertà.

La casa dei miei genitori era abbastanza grande; condividevo una stanzetta con mia sorella maggiore Olga, che aveva lo stesso nome di mia nonna paterna, un’usanza tipica del Sud Italia.

Era la mia antitesi, un modello di perfezione: bella, dai lineamenti regolari, ubbidiente, educata, la prima della classe ed estremamente devota. Era ammirata da tutto il paese e primeggiava sugli altri facendo sfoggio di abilità superiori alla sua età.

In passato, quando eravamo molto piccole, mia sorella dormiva con i miei genitori ed io invece nella camera dei miei nonni.

CONTINUA

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