PESTE BUBBONICA di Margherita D’Andrea

La prima volta che avevano fatto l’amore c’erano due strisce bianche sul tavolino di vetro, musica elettronica, e una rivestitura di gomma colorata sul muro che insonorizzava la camera.

Non si erano fermati un istante.

Era il giorno di Pasqua.

“Questa volta lascio correre, ma togliti dalla testa Gino, sono gelosa.”

Era il cugino della sua amica Arianna, per questo lo chiamavano Gino.

Le aveva giurato che non lo avrebbe più rivisto. Ma era la prima a non averci creduto.

Lo aveva incrociato qualche tempo prima ad una festa di carnevale, ma non ne conosceva ancora il nome. Quella sera di Pasqua a casa di amici si stava riempendo il bicchiere quando se lo ritrovò davanti. Arianna glielo presentò:

“Non ti ricordi di Gino? Vi sarete incontrati un sacco di volte da me.”

Lei non si ricordava. Lui sì, ma glielo disse solo molto tempo dopo.

Lui la iniziò a cercare, ma con cadenza bisettimanale.

Le ricordava il personaggio di Thomas in “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, che intervallava gli incontri con le donne per mantenere il distacco.

Ma, poi, arrivò l’estate, ed iniziarono a vedersi praticamente tutti i giorni.

Lei era Teresa.

L’estate scorreva veloce lasciando dietro di sé nient’altro che ricordi confusi, l’odore di corpi vicini, le lenzuola sudate. La piantina di aloe dimenticata sul pavimento in bagno, ormai spoglia. Le avevano tagliato tutte le foglie, l’aloe fa miracoli per le scottature. I segni del sole sarebbero spariti, ma a loro il succo idratante della pianta non sarebbe bastato, entrambi erano consapevoli di aver perso le briglie, una forza sconosciuta della stessa potenza delle onde li stava spingendo lontano dalla riva e nessuno dei due sapeva nuotare.

Si sa, quando si è felici non c’è bisogno d’altro.

I giorni passano sempre diversi, ma poi, alla fine, uguali. Dormire abbracciati, svegliarsi e soffrire il distacco dal letto e dal corpo amato, vedere quello stesso distacco trasformarsi in un sorriso che nasce da dentro, come un fiore che sboccia, guardato con dispetto dai compagni di viaggio accalcati nei vagoni della metro.

E poi, quel sorriso si trasforma in desiderio di sentire la sua voce, ma presto non basta più perché che cos’è la voce: è solo un suono e la vista, il tatto, il gusto diventano invidiosi, e allora contare le ore che mancano, e quel maledetto orologio giallognolo perché non si sbriga mai? Le viene voglia di alzarsi e spostare le lancette con le sue dita ansimanti, ma non si può fare e poi ha paura di spezzarle perché le tremano troppo le mani. Correre fuori, respirare l’aria della sera e farla entrare tutta dentro fino in fondo ai polmoni e poi finalmente ritrovarsi per bere una birra o mangiare qualcosa, ma alla fine a nessuno va veramente di bere e mangiare ma solo potersi guardare negli occhi ed essere di nuovo vicini.

Un giorno lui sparì.

Lei aveva passato il fine settimana fuori per lavoro. In treno immaginava il momento in cui si sarebbero rivisti, i loro sguardi si sarebbero incrociati e i corpi avrebbero seguito gli occhi in un abbraccio viscerale, completo.

Ma non lo trovò da nessuna parte.

Agitata, con un turbinio di pensieri nella testa, decise di andare al parco per far entrare un po’ di ossigeno fresco nelle vene, il verde dell’erba e il suo profumo l’avrebbero senza dubbio calmata.

Era sdraiata sul prato pieno di piccole margherite primaverili e aveva già pensato a una lista lunghissima di possibilità, era ammalato, o era partito? E se la tradisse? Non ci poteva credere ma più ci pensava più le sembrava l’unica spiegazione. A meno che non gli fosse veramente successo qualcosa di grave. Per un momento pensò che sarebbe stato meglio, l’idea del tradimento non la sopportava.

A quel punto il cellulare squillò.

Era lui.

Un messaggio lungo.

Lo lesse in totale apnea, dimenticandosi di respirare.

Diceva di aver bisogno di un po’ di tempo per sé, non aveva voglia di vedere nessuno, sperava che lei capisse e avesse pazienza.

Ma che cosa voleva dire? Non riusciva a darsi una risposta e continuò ad aspettare in preda al panico per tutta la settimana.

Quando si rividero non parlarono, fecero l’amore e poi uscirono in balcone a guardare il sole immergersi all’orizzonte.

Scese la sera, e lui le spiegò.

Suo padre era malato, un antico tumore si era svegliato più aggressivo e insidioso di prima. Lei non aveva mai avuto a che fare con la morte, sentiva i brividi e le bruciavano gli occhi, ma non riuscì a dirgli niente. Lo abbracciò timidamente, poi sempre più forte spinta dal suo abbandono.

Passavano i mesi.

La domenica andavano a piedi al lago, correvano nel bosco lì intorno e poi, tutti sudati, si buttavano nell’acqua insieme alle papere.

Quando andavano a cena fuori mangiavano e bevevano fino a soddisfare tutti i loro sfizi, poi quando arrivava il conto si guardavano e facevano la solita smorfia sorpresa. Uscivano pieni di buoni sapori e si davano baci sazi e spensierati, in quel momento avevano tutto quello di cui si poteva aver bisogno nella vita.

Poi, certo litigavano, qualche volta si erano anche lasciati, alla fermata del treno o sotto casa. Ma separati non duravano più di qualche giorno.

Il nome del suo gatto era Bubu, col tempo questo nomignolo era entrato a far parte della loro vita intima. Bubu, buonanotte amore, bubbone mio.

La loro non era mai stata una relazione salutare, la chiamavano peste bubbonica.

Poi venne il momento di partire.

Lui avrebbe raggiunto suo padre in Oklahoma, nel bel mezzo degli Stati Uniti. Un oceano enorme li avrebbe separati.

Una notte di agosto la chiamò e disse:

“Mio padre è morto.”

Quelle parole le rimbombarono nelle orecchie tutta la notte, sembravano prive di significato. Ascoltò Leonard Choen per colmare di suono il suo spaesamento.

Lui tornò a Roma, la passò a prendere e arrivarono in silenzio alla cerimonia. Era settembre e faceva già freddo. Lui lanciò le ceneri nel mare, poi tutti lanciarono fiori. Onde, vento, e i fiori sulla spiaggia.

Gino voleva ripartire e non sarebbe tornato in Italia, almeno per un po’. Lei lo raggiunse. Vissero per qualche mese in Oklahoma, ma presto decisero di spostarsi a New York, la grande città cattiva, sperando in uno stravolgimento, in un po’ di luce.

Finché vissero a Roma, sempre con gli alti e bassi del caso, erano riusciti a gestire quel loro sconclusionato amore, ma arrivati in quella metropoli immensa e caotica ne avevano perso totalmente il controllo.

La vita frenetica li rendeva nervosi, schivi, erano esasperati l’uno dall’altra ma separati si sentivano soli e non ci sapevano stare. Lui tornava tardi, lei usciva di notte per andare al parco a leggere Sarah Kane.

Arrivò l’inverno, lungo e freddo. Arrivò l’estate, umido e curry.

Si trasferirono a Westbury Street, c’era un pub sportivo in fondo alla strada. La domenica, se si svegliavano in tempo, scendevano a guardare la Roma.

Lei iniziò a sentire la mancanza di suo fratello. Di notte lo sognava. Le mancava casa, le sembrava di non aver trovato niente lì oltre al freddo e alla solitudine.

Con una rapidità spaesante tornarono ad essere due persone estranee, sconosciute, pur vivendo nella stessa casa. Il loro tempo era scaduto, ma nessuno dei due voleva ancora accettarlo.

Le loro vite erano due linee parallele, che non si sfioravano mai.

Tornarono a Roma per le vacanze, era di nuovo Pasqua.

Il giorno dopo, lui ripartì. Lei rimase, vuota, con il terreno che le si sbriciolava sotto i piedi, e tutto ciò che toccava diventava fango e cenere.

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