PICINÌNA di Alessandra Caron

Foto di Enrique Meseguer da Pixabay 

Da oggi sono in quarantena preventiva, il virus Covid-19 circonda tutto e tutti.

Non ci voleva.

Certo, sono una persona che apprezza il silenzio, la vita meditabonda, ma essere obbligati all’isolamento è tremendo.

Lo sconforto è in agguato.

Soprattutto adesso che sono state demolite le mura tra cui sono nata e cresciuta.

«Dai dai, animo cèa, scrivi qualcosa!» esortano le mie due sorelle e mio fratello.

«Così ti passano le malinconie».

Non c’è niente da fare, ho cinquant’anni e loro sono in pensione, ma io rimango la cèa, la piccola della famiglia, in dialetto veneto.

Hanno ragione, mi serve spaziare con il pensiero per aiutare l’umore.

Però in questo periodo storico di paura mondiale a volte non riesco a scrivere, l’argomento Covid si è intrufolato in ogni cellula.

Sento un suono, guardo il cellulare, è un messaggio di F., la mia ex professoressa di italiano.

A distanza di vent’anni dalle scuole medie ci siamo ritrovate in un convegno e da lì non ci siamo più mollate.

Il nostro è stato un percorso bizzarro: all’inizio le scrivevo testi al limite del burocratese, usavo perfino il Lei con la elle maiuscola.

Sembravano documenti destinati al catasto.

Con la mail potevo dilungarmi.

Con il cellulare – all’epoca un mattone con i tasti – il numero di caratteri era ridotto, quindi per dirle un concetto minimo la tempestavo di messaggi.

Immancabili le tante scuse per il disturbo arrecato.

A poco a poco lei, con pazienza e gentilezza, mi ha fatto notare che quella riverenza stonava assai.

La faccio breve: ora siamo amiche.

Di quelle che se ho bisogno di un consiglio c’è sempre, anche a costo di sorbirsi a oltranza le mie tiritere.

E ciao-ciao forma: ora i miei sms sono immediati, con errori causati dalla velocità, soprattutto quando sono irritata per qualche questione e mi serve blaterare per sfogarmi. Scherzosamente ci definiamo due “orse”, siamo riservate con il mondo esterno e non ci scambiamo smancerie, tipo le faccette con i cuoricini.

Ci fidiamo l’una dell’altra.

In più lei ha un sesto senso nell’indovinare quando ho bisogno di un po’ di carburante per procedere…

Niente vino o alcolici, per carità, sono astemia.

Si tratta di donarmi gocce-di-positività.

Ecco, F. è sempre positiva, anche se in tempo di Covid questo aggettivo è diventato antipatico.

Non importa, io lo uso ancora, perché lei tira fuori il meglio di me.

A volte ricorrendo perfino a delle sfide.

Come quella volta, il giorno del mio ultimo compleanno, in cui mi ha inviato una foto.

Lei guidatrice di camper nel suo tabletscrigno conserva centinaia di foto di luoghi e attimi meravigliosi.

“Uau che foto!” ho messaggiato.

“Sarebbe da farci una poesia”.

Sua risposta: “Provaci tu che sei l’esperta”.

Esperta non lo sono proprio, anzi le mie poesie sono ingessate e hanno solo rime baciate. Un esperto vero mi ha detto che sono scolastiche. Giusto.

Però ormai F. mi aveva punzecchiato.

Almeno tre righe potevo provare a confezionarle.

All’indomani ne è uscito un mini-testo in prosa.

Lei ha letto subito il file, mi ha risposto con una lettera, magica: nel leggerla rivedevo e rivivevo l’aula illuminata dalle sue parole, narrazioni e dai suoi comportamenti.

Da quel giorno, F. ha iniziato a condividere con costanza le sue foto e io, emozionata come una bimba che attende e apre i pacchetti regalo natalizi, le ho usate per creare racconti più o meno lunghi, filastrocche, haiku e in qualche sporadico momento di vanità perfino degli aforismi.

Dei fotoracconti, li chiamiamo.

Testi molto caserecci senza alcuna pretesa, io di professione, per fortuna della società, non faccio la scrittrice.

Testi che rimarranno solo nel mio computer e nella cucina di F.: ho scoperto che lei li stampa tutti e li conserva in un raccoglitore lilla!

Ancor oggi continua la serenità dell’inizio, mi sa che siamo arrivate a cento foto, per me tutte belle a priori, sono simboli. Io scrivo, F. mi parla, io rifletto e cresco…

Come quando ero la sua piccola, picinìna alunna.

Oggi le foto-gocce-di-positività sono lo spunto per un racconto intitolato “Stagioni lontane”. A ogni foto associo d’istinto una foto del mio passato (ho qui il corposo album di famiglia) e una stagione.

Parto da un’idea, poi cancello, cambio direzione e la mia mente, i miei affetti vanno per conto loro, come fossi su un’auto da corsa imbizzarrita.

Riesco solo a tenere il volante, il racconto imbocca il tragitto che vuole lui.

Finisco, inchiodo come fanno i principianti, leggo, ho il batticuore, individuo modifiche ortografiche, ma il contenuto – ora divenuto cosciente – è fin dal principio quello che mi rappresenta.

Tra tutte, mi affeziono a due foto.

Foto di F.: un cielo primaverile blu velato di pioggia.

Foto della mia infanzia: io con l’ombrello, avrò avuto cinque anni, in una giornata di primavera, vicino alla Fiat850 bianca che era stata delle mie sorelle, ammaccata e piazzata da tempo immemore a fianco della mia casa, in attesa di rottamazione.

Profumava di stalla e al posto del deodorante a forma di alberello c’erano i fili di fieno.

Quando iniziava a piovere sgattaiolavo e mi rifugiavo in quella carcassa motorizzata.

Acquattata nell’abitacolo era come se avessi i super poteri: nella mia fantasia funzionavano il motore, le marce, i fanali, i tergicristalli; l’auto andava ovunque, sulle strade e nel mare, vincendo imprevisti e ostacoli, a velocità incalcolabili.

Facevo anche la retromarcia!

Spesso mi sono domandata dove fossero i miei familiari in quei frangenti.

Solo ora mi so dare la risposta esatta: loro mi hanno sempre dato fiducia e da lontano mi guardavano affinché non mi mettessi in pericolo.

E pensare che all’epoca ero convinta che a tutelare i miei viaggi fosse l’effige-magnete di sant’Antonio da Padova.

Sorrido. Invio il racconto a F., so che risponderà e mi farà degli elogi (le dico sempre che si tratta di bugie bianche, assolvibili).

Questa volta non le ripeto “ti voglio bene”, siamo pur sempre delle orse. Poi faccio una videochiamata corale alle mie sorelle e a mio fratello.

Loro rispondono interrogativi, è ormai sera, di solito quando chiamo io è perché c’è un’incombenza burocratica.

Invece, dopo aver incespicato, esplosiva e inedita chiedo: “Mi volete bene?”.

La loro faccia è stranita come di chi ha visto un canguro in cucina.

Dopo un prolungato momento di imbarazzo, la buttano in ridere, mi chiedono se siamo su Candid Camera; se ho la febbre alta, si sa è causa di delirio.

Rido anch’io, perché è il loro modo di coccolarmi, come quando ero piccola e mi facevano fare la pipì addosso a forza di farmi il solletico.

Poi ci ricomponiamo. Ognuno di loro, con il suo stile, fa delle parafrasi emotive (anche loro sono “orsi”!) ma la sostanza è grande: se hai bisogno, ci siamo.

Ora – pensando a quanto mi sono lamentata della mia casa natia, perché esteriormente non la volevo così ma cosà… Ora che non c’è più – abbraccio una frase dei miei genitori: a fare la serenità non sono le mura, ma le persone.

Ora ammetto che non è una frase fatta.

E, commossa, mi sento ancora la cèa, la picinìna di sempre.

PICINÌNA è un racconto di Alessandra Caron

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