QUELLO CHE RESTA di Gabriele Marcello
Foto di pixabay
Lei
27 ottobre 1999
Sento i suoi passi che si allontanano. Il rumore dei tacchi echeggia con un suono distorto nelle orecchie.
Ho lo sguardo fisso sul fondo della tazzina di caffè. C’è una goccia. Secca.
Provo a concentrarmi sul battito del cuore. Sento pulsare alla gola. Come un tamburo.
Ero sicura che ci fosse una pietra lì. Da diciotto anni. Ora l’avverto.
Provo a stringere i pugni perché mi tremano le mani.
Un calo di pressione. Conosco bene quell’effetto: l’energia scende fino alle caviglie.
Prendo il bicchiere dell’acqua. Devo bere. Fare in modo di non collassare.
Tracanno con gli occhi chiusi. Scende lungo la gola e attutisce il battito.
Afferro il bordo del bancone. Spingo i piedi a terra. Stringo gli occhi. Non posso crollare ora. Mi alzo dalla sedia. Ho paura di cadere se apro gli occhi. Ne sono convinta.
Conto mentalmente fino a dieci. Li apro. Il respiro è affannoso.
Lo spettacolo è ributtante: per pochi secondi vedo doppia e distorta la mia immagine riflessa nello specchio. Poi inizia a prendere una forma compatta e normale. Guardo nel vuoto. I rumori continuano ad essere ovattati.
Sento qualcosa. Sempre più forte. Una mano si poggia sulla mia spalla.
«Che ti prende? Sei diventata sorda?».
È Fulvia, mi guarda.
«Ti senti bene?».
Annuisco e dico che sono solo molto stanca.
«Meno male. La personale è stato un successone».
Non la guardo. Continuo a fissare il vuoto e non registro le informazioni. Voglio andare a casa. Gettarmi su un letto. Dormire per una settimana. Sento il peso di un mondo sulle spalle.
«Ora devo andare, davvero non ce la faccio più. Ti prego, saluta gli altri per me».
Cammino sforzandomi. Passo davanti alle fotografie: i Maori della Nuova Zelanda; la spiaggia di Kara Kara, uno degli ultimi Indiani d’America; una ragazza Kikuyu che piange; alcune donne che lavano i loro stracci nel Gange.
Mi fermo.
Guardo la foto. Un mese prima c’era uno spazio bianco.
Il vuoto.
Ora c’è il passato che è diventato presente e, purtroppo, anche futuro. Una voce mi chiama…
Isabella
27 ottobre 1999
Le porgo la mano.
Fa finta di nulla.
Abbasso lo sguardo. Non ha più senso stringerla, eppure il desiderio di quel calore lo vorrei sentire ancora. L’abbasso e tiro un sospiro.
«Grazie per il caffè».
È l’unica frase di circostanza che mi viene ora. La voce nella gola è ancora ferma ma sento che sta salendo il groppone. Lo so. Non gira il viso verso di me. Lo sguardo è fisso nel vuoto.
Mi allontano con il catalogo tra le mani. Vorrei buttarlo. Stringo talmente forte il bordo che la sovra copertina si lacera. Mi allontano con una certa fretta anche ingiustificata.
Nella testa mille pensieri: l’incontro, la verità, le probabili conseguenze. Giorgio si avvicina di corsa. Ho gli occhi lucidi. È la rabbia, la paura, ed anche l’umiliazione di essermi messa a nudo.
«Mamma, grazie mille per essere venuta. Peccato per papà».
Nota che qualcosa non va.
Fingo di essermi raffreddata e poi c’è la stanchezza del viaggio. Voglio scappare in albergo. Prometto di non disturbarlo.
Mantengo sempre le promesse. Purtroppo.
Passo davanti alle varie fotografie. Le conosco tutte.
Poi passo davanti alla mia.
Ricordo quel momento.
La brezza che mi scompiglia i capelli, la paura, il cuore che batte a mille. Non sapevo che alle mie spalle qualcuno stesse immortalando il mio disagio. Nel giro di un mese ho rivissuto due vite, ma ora mi domando quale sia quella più degna dell’essere stata vissuta.
Esco dalla galleria.
Il battito del cuore non vuole decelerare. Per fortuna dura pochi secondi. Una voce dentro di me, forte, martellante, dice che non devo preoccuparmi.
Sarà vero? Non lo so.
Provo a chiamare un taxi con il cellulare.
Non accade nulla.
Non risponde nessuno.
Lei
Un mese prima
«Manca ancora una fotografia per la personale, che poi va anche inserita nel catalogo. Se ne scegli una bella viene usata come immagine di copertina».
Questa è l’unica preoccupazione di Fulvia, la mia gallerista e curatrice. Cammina, simulando una leggerezza che non le appartiene, su tacchi a spillo che non sa portare, con il trucco perfetto di chi vuole mangiare il mondo ma che, sotto sotto, vive nel terrore che sia il mondo a divorarla.
Maschera bene i suoi incipienti 42 anni. Affermare di essere una trentacinquenne fa ancora effetto. Per lei. Lo ignora anche lei.
Detesto la sua leziosità. Quella bellezza ostentata, fatta di trucco accentuato, capelli sempre sistemati, accessori in tinta con le scarpe. La tintura bionda dei capelli è stata fatta tante di quelle volte che ora sono quasi bruciati. Gli occhi azzurri sono piccoli ma vacui, accentuati da una matita pesante e da una tonnellata di rimmel: non è certamente lo sguardo da cerbiatto.
Più la vedo e più ho una convinzione: è innocua proprio per questo.
È finta.
«Ci penserò.» le dico con sufficienza.
Prima di andare via mi presenta un giovane. Una cascata di riccioli neri su un volto etrusco; due occhi nocciola penetranti. Una tipica bellezza mediterranea, bramosa di vita, di sesso, forse, di amore.
Il suo nome è Giorgio. Fulvia l’ha scelto come mio nuovo assistente. Ventun anni appena compiuti. Parla quattro lingue. Viene da Parigi ma la madre è italiana.
Ammiro la sua bellezza, i modi galanti anche se un poco affettati.
Gli porgo la mano. Una stretta possente. Mi accorgo di qualcosa di familiare. Fulvia l’ha già istruito a dovere.
«Devi essere la sua ombra.» spiega Fulvia con il classico fare di chi vuole avere la situazione sotto controllo.
Lo prendo in disparte e lo avviso che l’ombra ce l’ho già, ma dovrà aiutarmi a sistemare varie cose.
Sorride luminoso. Sembra un sole della Grecia.
Mi accompagna fuori. Ci scambiamo i numeri di telefono e poi guardo l’orologio.
«Sono in ritardo, cazzo!».
Sono sempre stata una ritardataria cronica.
Accendo una sigaretta e noto che anche lui fuma mentre armeggia con un cellulare. Quell’affare peserà come un lingotto.
«Allora, domani, qui, verso le dieci!» faccio con tono dittatoriale.
Prima di congedarsi, esordisce con una cosa strana:
«Lei ha lo stesso nome di mia madre».
Non è una coincidenza inusuale. Il mio nome è tanto comune.
Vado verso la macchina.
C’è traffico sul lungotevere. Quando mai non c’è.
Arrivo a casa: le scalette ripide senza ascensore di un secondo piano mi conducono dritta verso la tana. Un piccolo appartamentino nel cuore di Trastevere. Classico. Con le travi di legno sul soffitto. L’ho amato subito ma, ora, è una costrizione. Tra due settimane saluto questo posto. È stata il mio rifugio dopo la separazione da Carlo. Mi trasferisco in un appartamento più grande e luminoso. Ho voglia di luce. La cosa mi fa uno strano effetto. Non sono mai stata tanto attaccata alle cose. Solo alle fotografie. Forse alle persone, in passato.
Il soggiorno pare un cantiere: scatoloni ovunque e una ditta di trasloco che mi dà buca continuamente. Cartoni di pizza sparsi un po’ ovunque. Mi sento una zingara ma, del resto, lo sono sempre stata.
Felix, il mio gatto, è beatamente disteso sul divano, talmente pigro che non si degna nemmeno di venirmi a salutare. Alcuni animali sono peggio degli uomini: quando ti danno per scontata è la fine. L’ha fatto appena l’ho adottato. Ha capito che doveva colmare un vuoto. Non c’è riuscito.
La segreteria telefonica lampeggia.
Quattro messaggi.
Il primo:
«Ciao, sono io. Come stai? Prima di andare dall’avvocato ti vorrei parlare. Va bene se ci vediamo per pranzo da Roscioli, domani verso le 13.00? Fammi sapere. Un bacio».
È Carlo, il mio futuro ex marito. Bramo dalla voglia che firmi subito le carte per il divorzio. Dopo aver sentito la sua voce, il mio pensiero va a lei: mia madre. Così contenta quando l’ho presentato.
Con la sua finta eleganza da cafona arricchita quale era, tipica delle insegnanti di liceo un po’ ignoranti, disse che ero fortunata:
«Uno bello, a modo, e che si “prende” una nelle tue condizioni». Povera lei ma povera me. Dovevo capirlo che Carlo non solo era un poveraccio, in tutti i sensi, ma anche un arrivista. I beni di famiglia gli facevano gola. Come informatore medico non se la cavava tanto bene.
E nemmeno adesso. Mi ha riempito di corna durante tutti i viaggi che ho fatto. Lo dovevo immaginare. Il sacrificio di una donna sposata è quello di far finta di godere con il proprio marito per tutta una vita.
Questa regola è valsa per mia madre, ma non per me. A lei bastava l’anello di brillanti a Natale o le rose al compleanno per dimenticare altri sessi che annusava mio padre. All’ennesima traccia, pure stupida, l’ho mando a quel paese. Senza pensarci troppo o soffrire e, per fortuna, senza figli. Ora è “fidanzato” con una giovane, bella e oca. Tipico di un uomo di quasi cinquant’anni che si sente un ragazzino. La colpa, però, è anche mia. I primi tempi gli ho scattato delle foto troppo belle: una versione proletaria di Marlon Brando. E forse, ha anche creduto di esserlo. L’ho illuso esaltando il potenziale della sua bellezza. Il narcisismo maschile è pericoloso. Le donne, spesso, fanno i conti con gli anni che passano, gli uomini molto meno. Anzi, per nulla.
Secondo messaggio:
«Salve sono la segretaria della dottoressa Annamaria Della Fornace. Le ricordo l’appuntamento di giovedì alle 18.00. Porti le analisi per il controllo. Buona giornata».
Le analisi! Devo farle domani che è martedì, meno male.
Terzo messaggio:
«Mi scusi… anzi scusami, sono Giorgio. Ricapitolando, le va bene… anzi, ti va bene domani davanti alla galleria alle 10? Fammi sapere. Buona serata».
Ma non avevamo preso accordi? Ho paura che il ragazzo sia bello ma un po’ stupido. La prima impressione, al di là dell’aspetto, è che a questo meno confidenza si dà meglio è.
Quarto messaggio:
«Ciao. Sono Irene Strambelli della redazione del National Geographic di Milano. Ho provato a chiamarti tutto il giorno. Non hai un cellulare?».
No, e non lo voglio avere!
«Puoi farmi sapere, entro questa settimana, che ne pensi della proposta che ti abbiamo fatto? Grazie e a presto».
Finiti. Meno male. Tiro un sospiro di sollievo.
Sento l’acqua calda della doccia scivolarmi addosso. Passo davanti a quella che era la camera oscura, ora totalmente smantellata, e mi rendo conto che la mia vita è tutta lì. Mi fermo sulla soglia e rifletto sul fatto che ho sempre amato fare foto.
Forse sono legata alla morte. O alla vita. Una foto non è una istantanea di un delitto? Oppure l’inizio di una storia? In entrambi i casi è il principio e il termine di qualcosa che decido io. Non riesco ad abbandonarmi al colore. Amo il bianco e nero e, fino alla mia morte, continuerò a fotografare il mondo in questo modo. Riflette a pieno la mia anima.
Rimugino sulla proposta del National Geographic.
Rileggo il contratto. Pagano bene ma non sono convinta fino in fondo. Ora vorrei essere meno “zingara”.
Tre mesi in Argentina per un servizio sulle nonne di Plaza de Majo. Non ci voglio pensare. Ho bisogno di una birra, bella forte, doppio malto. Una botta in testa, il giusto stordimento che aiuta sempre. Mi appoggio sul letto che è pieno di panni che devo sistemare e crollo dopo nemmeno cinque minuti.
Mi sveglio. Sono le 9. Tardi. Penso che abbia troppe cose da fare e la certezza di non sapere da dove iniziare.
Doccia al volo per tornare ad avere la capacità di intendere e di volere e salutare le tracce di Morfeo.
Mentre apro l’armadio mi accorgo che il trasloco è a un punto morto. Cambio di programma:
«Devi venire tu da me. Ho delle cose da fare. L’indirizzo è Via dei Fienaroli numero 15. Interno 3. Muoviti».
Chiamato Giorgio e messo subito in riga. Arriva dopo 45 minuti. Apro la porta. Bello è bello, ma non riesco a vedere altro. Ripensandoci bene, c’è qualcosa che mi disturba in lui. Gli dico che, se vuole essere la mia ombra, mi devo fidare.
«Metti la roba negli scatoloni e poi sistema come puoi il resto. Chiama la ditta di traslochi e fatti dire quando vengono. Il numero è appeso al frigorifero. Aspetta… minacciali a morte se rimandano ancora».
Nuovamente il mio tono dittatoriale. Quello che mi contraddistingue.
Sorride e inizia.
Non ero così alla sua età. O forse sì? Non ho tempo per pensarci. Gli lascio le chiavi di casa, il doppione. Non c’è niente da rubare.
Ecografia e analisi del sangue sono il primo appuntamento. Per fortuna dura tutto poco. Devo ritirare i risultati in tempo per la visita.
Ripasso nella galleria e rivedo Fulvia. Stavolta è vestita come una che vuole farsi scopare il prima possibile, con un improponibile abito attillato corto di ciniglia nero. Lo spacco è qualcosa di ignobile. A stento le copre il culo. Non ho mai badato all’abbigliamento ma, nel corso del tempo, ho imparato a percepire il cattivo gusto. Lei ne ha da vendere, in tutti i sensi.
«Tesoro, hai scelto la foto?» fa lei con quella voce leziosa che ha come sottotesto: per piacere diamoci una mossa.
Sto per mandarla a fare in culo. Mi trattengo. Ho imparato a mantenere uno stato di calma apparente. Sorrido e dico che ci sto ancora pensando.
«L’avrai questo week end. Giuro!».
Per fortuna ho delle diapositive a portata di mano. Controllo l’andamento dei lavori per l’esposizione e faccio in modo che ci sia un senso nella maniera in cui le foto sono posizionate. I soggetti sono in prevalenza femminili. Ho sempre fotografato donne. In particolar modo quelle creature che non ho potuto essere per cultura, per la mancanza di coraggio e per la scarsa volontà.
Davanti ad una insalata abbastanza insapore, mi ritrovo con Carlo. È strano. Ha l’aria stanca. Forse i fervori da giovane Peter Pan sono terminati. L’Isola Che Non C’è è diventata un limbo dantesco. Mi fa pena, non rabbia. Talmente inetto che non merita nulla e poi, a dire il vero, penso di averlo amato talmente poco che per me è come se fosse un conoscente.
«Come va? Come procede con l’esposizione?».
Io, vaga: «Tutto bene».
Percepisce l’indifferenza perché la conosce. Quando apre bocca e dice:
«Senti…» so che vuole accalappiarmi con altro.
Lo blocco subito: «Verrai?».
Annuisce. Lo sguardo è mesto. Ha voglia di dire qualcosa ma non sembra trovare il coraggio necessario. Devo tagliare corto. Subito.
«Ok, ti aspetto allora… e porta pure… come si chiama? Noemi?».
Abbassa lo sguardo.
Toccato il tasto dolente. Ci sono dei problemi e la rottura è vicina. Lo immaginavo. Oggi le ragazze sono più scaltre di quanto non lo siamo state noi. La consolazione non è il mio forte. Mi dispiace per lui ma non riesco a dire nulla se non:
«Ah, capisco».
Mi prende la mano. Avverto il suo calore e mi ritraggo di colpo.
«Ho fatto una cazzata, anzi ne ho fatte troppe con te, in tutti questi anni».
Questa frase l’ho sentita almeno tre volte all’anno da quando ci siamo sposati.
Che originalità!
Snocciola, nell’ordine, il prontuario del pentimento formato Bignami, composto da frasi fatte, e aggiunge che, forse, sarebbe il caso di riprovarci.
Scoppio a ridere, non di scherno e neppure per piacere. È la situazione che ha un sapore surreale: separati da tre anni e con un divorzio a cui mancano solo le firme e lui, così, senza un motivo, mi chiede di riprovarci.
«Per cosa?» gli chiedo. «Per essere due estranei che si fanno i cazzi loro. È così? È comodo mantenere le vecchie abitudini, no?».
Rincara la dose:
«Sono cambiato».
Errore: alla tua età non si cambia, almeno non in meglio. Si può solo peggiorare. Vorrebbe un nuovo rapporto senza filtri e ipotizza anche un’adozione.
Lo guardo allibita. Mai avrei pensato che potesse arrivare a questo.
Tra un misto di collera e disgusto, non mi trattengo:
«Figli non ne abbiamo avuti per scelta ed ora siamo troppo vecchi per adottarli. Ma, al di là di tutto, perché far soffrire un povero innocente, se non ci amiamo più? Da dove le tiri fuori queste uscite?».
La discussione ha preso un tono che non sopporto. Vorrebbe controbattere, ma lo stano. Immediata.
«Carlo, tra noi è finita e da parecchio. Sinceramente… non ti ho mai amato, ma mi sono sforzata di farlo. E quello che ci stiamo dicendo non ha senso».
Mi alzo, lascio cento mila lire sul tavolo.
«Offro io. Non ti dimenticare che venerdì dobbiamo essere dall’avvocato per firmare le carte».
Rimane ammutolito. L’ho umiliato abbastanza.
Mentre vado alla macchina non posso non ripensare a quella cretina di mia madre; che il Signore, sempre se esista, l’abbia in Gloria. Tanto felice per me e lui assieme. Per il nostro matrimonio.
Che cosa meravigliosa è stato scappare da quella famiglia. Anche se poi non sono riuscita a costruirne una e la fuga è stata una necessità, più che un desiderio vero.
Cammino per strada con il passo veloce. Sta salendo la rabbia. Devo sbollire. Troppe cose negative mi ritornano alla mente. Troppi ricordi di un passato morto e sepolto. Ma non mi pare che la pietra tombale sia stata messa in forma definitiva, almeno per me, se questo è l’effetto. Diciamo pure che, per alcune cose che sono avvenute, c’è solo la mia pia illusione di aver dimenticato, ma non perdonato. Ed è questo quello che mi frega. A volte penso che non sia in grado di lasciare scorrere l’acqua del fiume e le cose me le lego al dito, anche le più banali e stupide.
Torno a casa.
Giorgio, devo ammetterlo, oltre che bello è anche diligente. Ha sistemato tutto ma ha la faccia stanca. Gli scatoloni sono quasi pieni. Ha buttato la spazzatura. Mi lascia dicendo che, in uno degli armadi, ha trovato alcuni vecchi rullini fotografici in un sacchettino. Me lo porge. Li guardo. Non ho la più pallida idea da dove vengano fuori. Saranno un cimelio del primo trasloco.
Ho smontato anche la camera oscura, quindi, mi tocca portarli a sviluppare.
Giorgio si offre di andare lui. Lo blocco:
«Ombra sì, schiavo no!». Lo dico con un mezzo sorriso sulle labbra. Ho adocchiato un fotografo vicino al nuovo appartamento. La vetrina è molto grande e, a differenza degli altri, meno affastellata di rullini e macchine fotografiche: spartana, semplice, austera. Ci vado domani. Lascio i rullini bene in vista sul tavolo. Sono tre: uno in bianco e nero e gli altri due a colori. Sicuramente saranno i miei primi esperimenti, qualche cosa fatta per il giornale o il frivolo ricordo di qualche viaggio. È strano, però. Non ho mai lasciato dei rullini non sviluppati. Guardo la mia Nikon e ripenso a tutte le “battaglie” fatte con lei. Non lo sento più un corpo estraneo ma qualcosa che fa parte di me, una sorta di elemento tra il mio braccio e l’occhio.
Sono fissata. Lo so. Mia madre lo sottolineava sempre che per me non esistevano altro che le foto ma come stabilivo io. Per questo non ha mai capito realmente il valore del mio lavoro. Una volta mi chiese una foto di un paesaggio ma mi sono rifiutata: attraverso l’obiettivo c’è quello che voglio, come lo percepisco io, con il dolore o la gioia che gli do, non quello che vorrebbero vedere gli altri. Non ha avuto nemmeno il coraggio di farmi i complimenti quando la prima foto di reportage è stata pubblicata su una rivista: una donna che allatta un bambino. Non ricordo il nome ma i suoi bellissimi tatuaggi sul viso si, in particolare il naso, perché era una maori. Riteneva il soggetto sconveniente e sotto c’era il mio nome.
In mattinata arriva la ditta del trasloco.
Si va nella nuova abitazione. Il nuovo appartamento è a Prati. Grande, bianco, lo sto ancora finendo di pagare ma va bene lo stesso.
Una volta arrivati a destinazione, la ditta di traslochi sistema gli scatoloni in maniera particolare. Per loro c’è un ordine. Per me sono alla rinfusa. Da questa prospettiva, quello che dovrebbe essere il soggiorno, mi sembra una sorta di installazione postmoderna.
Non resisto, scatto una foto. Potrebbe essere quella giusta: non una donna ma la casa di una donna che ora deve sistemare tutto. Non è una prospettiva allegra, ma almeno c’è.
Passo dal fotografo e gli lascio i rullini. Mi avvisa che sono vecchi e che c’è il rischio che siano scaduti. Sono troppo curiosa.
Gli chiedo di salvare il salvabile e sviluppare tutto. Li ritiro tra un giorno.
Vorrei sistemare, come prima cosa, la camera oscura, ma ci vuole tempo. È un lavoro delicato e perderei almeno una mezza giornata.
Giorgio mi dà una mano a svuotare gli scatoloni e si occupa dell’attacco della luce e del telefono. Tra uno scatolone che si svuota ed un altro che viene piegato per limitare lo spazio, mi parla della sua famiglia. Il padre, francese, lavora in una importante azienda di import ed export; la madre, italiana, è una traduttrice di libri. Dopo il liceo si è preso un anno sabbatico. Vuole studiare cinema e diventare direttore della fotografia. Per questo ha mandato il curriculum a Fulvia. Per lui, le mie foto sono molto cinematografiche. Odio il cinema. Non metto piede in una sala da una vita. Non mi è mai interessato anche se sono una fotografa. Lo trovo falso, mentre le foto sono vere. Potenti.
Alle 19 lo mando a casa perché gli leggo sul viso i segni di una stanchezza perenne ed anche io non mi sento fresca come una rosa di maggio.
Mi accascio sul letto in una stanza ancora semi arredata ma c’è una cosa che devo fare: acqua e cibo per il gatto. Vorrei evitare di sentirlo miagolare stanotte. Lui non si smuove dalla sua cuccia e mi guarda come se fosse il padrone. Ogni tanto una coccola non ci starebbe male. Nulla. Più che un gatto sono convinta di avere una specie di tigre che pigra che si muove solo per le cose necessarie.
Ancora vestita, perché davvero mi sento come se mi fosse passato un camion addosso, sprofondo nel sonno su un materasso appoggiato per terra. Il letto deve ancora arrivare.
Pazienza.
Gli occhiali della dottoressa Annamaria Della Fornace hanno una montatura verde che fa pendant con la pianta posta vicina al balcone del suo studio. Bella donna, curata, anche schietta. Mi piace. Analisi ed ecografia alla mano, dice che va tutto bene. Non mi devo preoccupare. Mi fissa un appuntamento tra sei mesi. Il solito. Prima di uscire mi chiede:
«Ha pensato a quello che le ho proposto la volta scorsa? Guardi che sono stati fatti passi da gigante nel campo. Inoltre, i prezzi e i materiali sono di buona fattura e più sicuri».
La osservo con una smorfia che è un misto tra ironico e incazzato e le rispondo:
«No».
Secco. Perentorio.
Sorride. Ha capito di non doverne parlare più. Fuori dallo studio non posso fare altro che accendermi una sigaretta e fumare come se fosse l’ultima cosa al mondo che mi resta. Sono a quota un pacchetto e mezzo al giorno e, tra poco, posso fare concorrenza ad un camionista. Ma so che non riuscirei mai. Mi fermo su una panchina che è vicino allo studio.
Apro la borsa ed estraggo l’agenda. Ammetto che è un oggetto che uso poco ma le cose fondamentali le appunto. Male, ma lo faccio. Leggo quello che debbo fare il giorno successivo e provo un misto di gioia e tristezza: App. Avv. Carlo.
Finisco la sigaretta e inizio a camminare. Non ho una meta ben precisa. Non la voglio neppure avere. Sono nella fase in cui preferisco lasciarmi trascinare. Le vetrine sono colorate e luminose ma le guardo distrattamente. Rimugino sul fatto che domani metto la parola fine ad una cosa importante. Mi chiedo se, forse, non ho lottato abbastanza. Ma è un pensiero inutile. Per quale motivo continuare se non c’è più un obiettivo comune? Non posso rinnegare quello che sono stata con Carlo, prima succube e poi carnefice. Non posso dimenticare quello che ho sopportato in quasi dieci anni di matrimonio: le sofferenze, il risentimento, le situazioni difficili, la solitudine. Questi pensieri sono più forti di qualsiasi altra cosa.
Davanti alla fermata della metropolitana vedo un uomo ed una donna che litigano. Alzano la voce. Li spio. Lei accusa lui di essere arrivato in ritardo e non aver potuto comprare una cosa a cui teneva. Magari le nostre discussioni fossero state tanto banali. No. Sono state violente e lapidarie. Per un attimo mi è passato per la mente che non sono più la persona che ha conosciuto. Ora sono forte, o mi illudo di esserlo, perché ho consapevolezza. Che parola strana. Ma di cosa sono consapevole? Di quello che voglio davvero, che mi è ignoto, o di quello che non voglio?
Torno a casa a piedi. Faccio un lungo tratto, illuminata dalle luci arancioni di una Roma che non è una prigione ma che, qualche volta, mi è parso un cronicario.
Non chiudo occhio tutta la notte. Non ci riesco. Mi lavo ma, per una volta, raramente, decido di farmi un regalo: essere fintamente presentabile.
È molto presto ed ho appuntamento nel primo pomeriggio. Passo in una profumeria e mi lascio guidare da una commessa gentile. Ho la carnagione scura e le rughe sono poche evidenti. Quelle non le tocco con una crema, poi non sono nemmeno costante. Ma un filo di trucco sugli occhi, quello sì. Scelgo di vestirmi in maniera sobria, dura, come mio solito. Ciò che per me rispecchia la bellezza. Un girocollo nero e un pantalone dello stesso colore. Un paio di anfibi ed un trench marrone. Capelli sciolti e lisci.
Carlo è sempre impeccabile, in un completo blu scuro, la cravatta con una leggera fantasia azzurrina e le scarpe nere stringate.
Le carte con l’avvocato le firmo senza pensarci due volte.
Carlo, invece, è triste. Gli trema la mano quando firma. Dovrei dirgli che forse quella ragazza si deve essere spaventata per la sua età, per il fatto che non è quello che ipotizzava, che ha troppi labirinti nella mente e che pure se è uno stronzo le persone lo dovrebbero amare lo stesso perché tutti ne hanno diritto. Non ci riesco.
«Diamoci una mossa!» incalzo.
Mi guarda come a dire “pensaci ancora”.
Giro la testa verso l’orologio a muro. L’avvocato, un omino piccolo e un po’ bisunto, ci dichiara ufficialmente divorziati.
In strada, c’è un silenzio agghiacciante. Avverto un peso in meno, e di conseguenza anche un vuoto. Saluto Carlo con una stretta di mano e gli ricordo di venire alla mostra. Mi vorrebbe trattenere con la scusa di un caffè ma non ho voglia sentire le sue lamentele. Una notte di pensieri è bastata.
Non me ne importa un cazzo di lui e del suo mondo. Dieci anni di matrimonio sono stati sufficienti.
Passo a ritirare le foto sviluppate. Il fotografo mi sorride e dice che per fortuna è riuscito a svilupparle quasi tutte. Pago e vado via.
A casa nuova trovo Giorgio che sta finendo di aggiustare la linea telefonica con il tecnico: è stato mantenuto il mio vecchio numero, anche se il ragazzo, sempre più bello, mi consiglia vivamente, di comprare un cellulare. Lo fulmino con lo sguardo:
«Mai schiava di quell’aggeggio».
Quando il tecnico va via ed io sono mezza morta sul divano, Giorgio si avvicina e mi dice:
«Ho una sorpresa per te».
Poverino. Non sa che detesto le sorprese. Mi alzo con un sorriso di cortesia ma stavolta, stranamente, rimango davvero sbalordita.
Ha sistemato la camera oscura. Come e quando ci sia riuscito non lo so ma devo ammettere che ci sa fare e che è perfetta ed ordinatissima.
«Bravo. Davvero bravo».
Avrei dovuto essere meno stitica ma non sono il tipo e lui l’ha capito. Inizio a trovarlo meno lezioso. Va via sempre più stanco ma con un sorriso che illumina.
Quando chiude la porta, rimango un pochino dentro “quel buco”, e mi sento un’altra persona: rinata. Anche il gatto si avvicina e fa le fusa. Non è felice. Ha solo fame. Come al solito.
Riguardo il contratto del National Geographic. È spiegazzato in borsa. Il compenso è buono, ma la partenza è a ridosso del Natale. Mi do ancora due giorni per decidere. Mangio del cinese ordinato al telefono da un ristorante nelle vicinanze. Lo butto dopo poco: rancido. Per fortuna non ho nemmeno tanta fame.
Mezza distesa sul divano, apro la busta con le fotografie sviluppate.
Alcune sono di viaggi all’estero, altre di feste con amici, qualche Natale in famiglia, Carlo nelle sue pose da sborone.
Poi, eccola.
Non la cercavo quella foto. Non ricordavo più di averla scattata. O forse sì. All’epoca la macchina fotografica non la portavo sempre con me. La Nikon, quella del lavoro, era ed è un oggetto sacro da utilizzare solo quando davvero necessario.
Fatta per caso.
In bianco e nero.
Di nascosto.
Il tempo scorre inesorabile, la memoria cancella quello che noi vogliamo che sia giusto, ma alcune cose ritornano. E scuotono. Molto.
Sono atterrita. Sento i brividi lungo la schiena che arrivano all’attaccatura dei capelli.
Quell’immagine sta dissotterrando un cadavere. Sensazioni strane mi inondano. Non so se piacevoli o spiacevoli.
Un cassetto chiuso per diciotto anni si apre ma, nolente o volente, il contenuto è presente. Nessuno può riconoscere il soggetto. Io sì, purtroppo.
Su una spiaggia, con il mare mosso, di spalle, una cascata di capelli chiari mossi dal vento, dietro la schiena.
Facendo attenzione si intravedono anche un paio di occhiali da sole scuri. Davanti solo il mare. Sconfinato. Cristallino. Inquieto. Non avrebbe mai voluto che scattassi una foto.
L’ho fatto senza che se ne accorgesse.
Quella è l’unica prova che ho. L’unica cosa che resta.
CONTINUA
QUELLO CHE RESTA è un romanzo di Gabriele Marcello