RAMSES E IL PRINCIPE ROSSO CINTO di Antonio Faricelli (prima parte)

genere: AZIONE E AVVENTURA

Prologo

Erano le prime ore dell’alba. La barca che gli egizi chiamavano Mandet e che credevano trasportasse il sole attraverso la volta celeste, non aveva ancora varcato l’orizzonte orientale, tuttavia un timido chiarore scandiva già il “grande fiume”. Sulle fronde delle acacie, ancora confuse con lo sfondo bruno del cielo, si potevano già distinguere gli sfoghi gialli della primavera ormai al suo culmine. Il Nilo era calmo e ancora sgonfio, e la città di Bubasti, assopita dalla notte, emanava un silenzio meditativo per quei pochi pescatori che si dirigevano già al fiume, verso le loro imbarcazioni.

Useth era sveglio da prima degli altri, e non aveva percorso con i suoi colleghi pescatori il ciottolato che portava al molo, poiché aveva passato la notte sulla barca insieme a suo figlio apprendista. Aveva scelto di dormire sottocoperta, ormeggiati al porto, perché l’erede del suo mestiere si abituasse a quel giaciglio per quando sarebbero usciti per le lunghe pesche verso sud.

Mentre era assorto a pulire le maglie della rete dai residui di alghe e filamenti di papiro, strascicati durante l’ultima pesca, e attento a non far rumore con i natelli in legno che picchiavano tra loro, Useth avvertì un brivido. Qualcosa nell’aria era mutato in fretta. Non la temperatura né il vento, eppure percepiva un cambiamento. Guardò verso nord, lungo il fiume, come se quel sentore venisse proprio da lì. Non scorse niente di insolito o inaspettato, e senza scrutare nelle altre direzioni si chinò di nuovo a lavorare sulla rete.

Improvvisamente la corrente del fiume, dormiente fino a quell’istante, cominciò a destarsi. Iniziò a massaggiare il leggero natante, fino a scuoterlo delicatamente, come una madre che sveglia premurosamente il suo pargolo.

Ancora nessun cambiamento nel vento, ma ciò che sconvolse il navigato pescatore era l’ingiustificata direzione della corrente del fiume. L’acqua non muoveva più lungo il suo naturale verso, scorrendo dalle alture degli uomini neri fino al mare, ma si spingeva dal centro del fiume verso i suoi argini, come se un’intangibile linea di energia si estendesse lungo il percorso, spingendo l’acqua verso le scarpate laterali.

Il Nilo sembrava volesse aprirsi cautamente, come si fa con le mani quando si vuol mostrare un grillo appena catturato. Ciò scosse ancora di più Useth, invaso di nuovo da quella strana sensazione che ci fosse qualcosa di insolito. Stavolta però udì un suono, che avrebbe giurato fosse un verso animale; era sicuramente il grido di un volatile. E veniva da nord.

Dapprima socchiudendo gli occhi, poi rilassandoli quando l’immagine gli fu più chiara, Useth vide volare lungo il fiume, seguendo il suo letto a solo qualche palmo dal pelo dell’acqua, un grande rapace ad ali spiegate.

Era un falco reale, di bellezza e dimensioni senza pari. Poteva misurarne la statura anche a distanza, tanto era maestoso. Non era più piccolo delle imponenti statue del dio Horus che abitavano il tempio di Edfu, e le sue ali si estendevano spianate quasi a carezzare i vimini a riva. Il suo piumaggio era lucido e nero come l’ossidiana, e il becco adunco e dorato.

Sotto il suo passaggio il Nilo si affondava, come se il rapace stesse navigando una barca dallo scafo invisibile. Sfrecciò rapido e vigile davanti all’attonito spettatore. Questi lo seguì con lo sguardo verso sud, finché il falco, emettendo un ultimo strido, fu inghiottito dalle dimensioni del suo allontanarsi.

In quel momento la sensazione del pescatore si fece più acuta e quasi ingestibile. Il grande e singolare uccello, come un silente cerimoniere, stava solo precedendo ciò che realmente scuoteva la quiete di quell’alba. Useth si voltò completamente, per scrutare di nuovo in direzione nord, dove in cielo stavano ormai impallidendo le luci della costellazione dell’ippopotamo, che includevano la stella polare. Vide navigare verso di sé, a velocità spedita, una sagoma inconfondibile, seppure non l’avesse mai ammirata prima. Era il bastimento reale, in tutta la sua grossezza e magnificenza.

L’imbarcazione personale del faraone era la più veloce ad aver mai solcato le scure acque del Nilo. Costruita in prezioso legno di Biblo, mostrava un’alta murata dipinta di ocra rossa e finimentata con foglie d’oro. Sormontata da una larga vela di lino finissimo, in vari panni stratificati più volte per renderla immune all’attraversamento del vento. Tranne una piccola porzione di prua, l’intero abitacolo era coperto da una stuoia di palma sorretta a soffitto da numerosi fasci colorati di bambù, che ricordava i grandi ipostili dei templi di Tebe. Si scorgevano sotto la sua ombra un grande trono in legno e oro, abilmente lavorato, e altre sedute meno sfarzose, nonostante le sole due figure umane, oltre il timoniere, erano in piedi sul perimetro.

Si distingueva, ancor più dello scafo già molto appariscente, l’uomo a prora. Era in piedi sul pulpito, impassibile e immobile, con le braccia raccolte dietro una schiena nuda che contrastava il petto di un uomo vistosamente possente. Abbigliato di un copricapo e di un cingilombi plissettato e bianco, era alto e dalla muscolatura notevolmente scolpita. Poggiato solo sulla pianta dei suoi piedi, sembrava non risentire dell’inerzia della navigazione e della velocità del mezzo che lo accompagnava. Guardava fisso davanti a sé, con un’espressione tra corrucciato e fiero. Dava l’impressione di non voler perdere di vista il falco che batteva il suo tragitto. Useth non avrebbe scommesso un chicco di grano sul fatto che quella figura fosse viva piuttosto che una statua granitica ben pitturata.

Non sarebbe però restato ignaro dell’esito di tale scommessa, poiché nel momento esatto in cui il naviglio reale era più prossimo alla sua barca, la massiccia figura volse prima gli occhi a fissare il pescatore e poi, come legata con un elastico alle sue pupille, la testa seguì la stessa rotazione. Useth riuscì a percepire, pur non distogliendo lo sguardo dai suoi occhi contornati di nero kohl, un impercettibile sogghigno sulle labbra dell’insolito navigatore, che, seppure di fredda autorità, sentì essere un sorriso di approvazione verso il suo stupore. A Useth quello scambio di sguardi sembrò durare il ciclo di una piena del Nilo, quando invece, fuori da quella scena, tutto correva alla stessa velocità della fulminea imbarcazione che ne era protagonista.

Al grande panfilo seguiva una formazione di imbarcazioni guerriere, più piccole della loro rossa e dorata versione reale, ma altrettanto veloci. Il pescatore restò a fissare la parata di quelle incantate figure, anche dopo aver ricevuto il disinteresse dell’uomo, che tornò a fronteggiare col viso la direzione di navigazione. La scena si congedò in quello stesso sud che aveva già inghiottito il falco. L’acqua tornò alla memoria di qualche momento prima, risistemandosi nella sua flebile corrente in linea con il fiume.

Useth restò fermo e rigido come un artefatto di alabastro, con lo sguardo fisso nel punto in fondo al fiume. A vederlo sembrava non respirasse. Venne destato solo dalla voce di suo figlio, che svegliato dagli inchini a ritmo delle onde generate dal passaggio del convoglio, uscì dalla stiva e chiese al suo vecchio cosa fosse successo. Il pescatore sbatté gli occhi come avessero schioccato le dita davanti la sua faccia. Si girò verso il ragazzo, lo guardò in modo disinteressato per un momento, e in tono pacato ma compiaciuto gli svelò:

«Figlio mio siamo benedetti, ho visto Ramses!»

I

Bentresh giaceva supina nel proprio letto variopinto. Decorato con tinte rosse e verdi, era di chiarissimo cedro intagliato con testi cuneiformi che pregavano sogni fausti ai “mille dèi”. La rete intrecciava morbide strisce di pelle di daino, lo stesso materiale che rivestiva il poggiatesta in legno di albatro.

Il suo volto, dalle fattezze divine, pareva disteso e quieto, ammiccante un sorriso fatto di labbra sottili e rosee. Nonostante i suoi quattordici anni il seno era già maturo e si ergeva irto sopra le mani, conserte e posate sul ventre. La veste, di fino lino, faceva trasparire le snelle e affusate gambe, lasciando scoperti i minuti piedi, tanto perfetti da sembrare opera di artigiani, uniti alle caviglie nel punto in cui faceva mostra una coppia di monili dorati dai quali pendevano azzurre gemme d’agata. Sebbene la mescola di essenze che odoravano l’ambiente fosse molto intensa, si percepiva il profumo naturale dei suoi lunghi capelli, mori e folti, che in quell’immagine ferma erano cornice del più incantevole viso che l’intero settentrione del mondo noto avesse mai conosciuto.

La bella fanciulla immobile era la figlia del principe Hattushili, fratello del re ittita Muwatalli. Suo padre era un uomo dall’aspetto massiccio e dal carattere indomabile, eppure la guardava con aria sommessa, consapevole di essere impotente di fronte al male della figlia. Sembrava che il sonno, innamorato, la volesse per sé senza più restituirla alla veglia, tanti erano i giorni che stava lì coricata.

Da quando cadde in quell’irreversibile sopore non accennava ad alcun movimento. Solo il delicato colorito e un fievole respiro rivelavano il suo stato vitale, benché preda di un male sconosciuto del quale non si possedeva cura, e che si temeva l’avrebbe di lì a poco tempo portata alla morte.

Sua madre, la principessa Puduhepa, la alimentava tre volte al giorno. Le teneva la testa sollevata con la mano, mentre con l’altra, tornando ai giochi che faceva da bambina, la imboccava con brodi sempre diversi e bolliti con i migliori tagli di carne. Ma l’assenza di pietanze solide in quella dieta la indeboliva sempre più, e tutti erano consapevoli che presto il suo corpo avrebbe ceduto allo stento.

La finestra appena sopra il suo capezzale gettava sulla giovane una luce fioca seppure molto bianca, che irradiava l’aggraziata danza della polvere tutta intorno. Una tenda di canapa, montata sul lucernario, si muoveva lenta come una messe di grano a un vento pigro.

D’improvviso un secco refolo strappò via la tenda dal muro, come se una mano invisibile l’avesse strattonata a terra in uno scatto d’ira. Dalla feritoia, ormai nuda, entrò una forte luce aurea, che si faceva sempre più intensa e calda; sembrava che il sole stesse precipitando a terra, intenzionato a irrompere proprio in quella stanza. Quando anche il vento si fu alzato a scuotere la veste della giovane dormiente, un’ombra scansò il bagliore da quell’uscio sospeso, foriera di qualcosa che stava per varcarlo.

Fece il suo ingresso, a velocità da caccia, un gigantesco falco dorato. Si distingueva perfettamente la sua livrea, fatta non di piume color oro ma del metallo stesso. Per quanto le sue dimensioni fossero impaccianti all’interno di quell’angusto ambiente, si poté ammirarlo disinvolto e padrone librarsi attraverso la luce. Quando ebbe virato su sé stesso al centro della stanza per posarsi sulla pediera del letto, si distinsero bene anche gli occhi e il becco, fatti gli uni di lucente rubino e l’altro di avorio puro. Sembrava un manufatto al quale una stregoneria aveva dato vita.

Il grande rapace, ormai appollaiato sul letto, dopo aver fissato per alcuni istanti la cagionevole fanciulla coricata proprio davanti ai suoi cremisi occhi, spiegò le imponenti ali su di lei. In quel momento il vento e la luce si saziarono dell’ambiente che fino a poco prima stavano famelicamente divorando. Agli occhi dell’incredulo Hattushili tutto muoveva a rallentatore.

Il falco assunse una posizione protettrice, con le ali avvolte sulla giovane come fossero falde di una capanna. Dopo alcuni istanti passati a fissare con sguardo intenso il volto di Bentresh, il falcone si girò di scatto a guardare lo spettatore di quella scena, in piedi al centro della stanza. Hattushili si sentì sopraffatto dall’energica aura emanata dal volatile, tanto da non riuscire quasi a sostenerne lo sguardo. Per suo sollievo, però, il rapace distolse l’attenzione dal principe, e con un potente colpo d’ali spiccò il volo verso il grande pertugio da cui era entrato, seguito dalla folata che aveva generato e la forte luce emanata.

La ragazza, che per alcuni istanti era svanita sotto le grandi ali dell’aureo uccello, si trovava ancora lì, nel suo letto, con la stessa veste e nella stessa posizione, ma con in capo, intrecciata ai capelli, una piuma d’oro. Hattushili corrugò le ciglia, sforzandosi di darsi una spiegazione a ciò che aveva appena visto, quando d’improvviso la giovane Bentresh si destò. Aprì i suoi grandi e luccicanti occhi e si alzò sul busto, restando seduta sul letto. Senza prima cercare intorno a sé, guardò verso l’uomo che la stava fissando e sorridendo gli si rivolse in tono confortante.

«Svegliati padre, sono salva».

D’improvviso la scena mutò in una stanza buia e cupa, fatta di pareti in blocchi di gabbro scuro e con un pungente odore di incenso e spezie. Hattushili si ritrovò inginocchiato su una stuoia di canne, decorata con l’immagine di suo fratello, re Muwatalli, nell’atto di impugnare una mazza.

Poggiato a terra, appena davanti il tappeto, stava un rhyton dorato: un calice rituale raffigurante l’effige della dea sole di Arinna. Lo stelo era modellato con il corpo di una donna avvolta dal suo mantello, e la coppa riportava l’immagine di un disco solare che si poggiava sulla sua testa a guisa di copricapo. Il calice appariva vuoto, con solo qualche goccia di buon vino del sud. Hattushili l’aveva usato per “bere la divinità”, mediante una pratica divinatoria che consisteva nel bere vino dal rhyton per stabilire una connessione con il nume.

Il principe si ritrovò nel simulacro del grande tempio di Hattusha, la capitale ittita. Vi era giunto quella notte a chiedere oracolo alla dea del sole, divinità della città di Arinna, della quale Bentresh era sacerdotessa e alla quale il tempio era consacrato. Si rivolse in preghiera per sua figlia, che giaceva malata nel letto.

Hattushili rinsavì da quella visione e i suoi occhi tornarono ad adattarsi al buio dell’ambiente, illuminato solo da una piccola lampada a olio e da un tenue braciere riempito di carbone ed escrementi essiccati.

L’alba era ancora lontana e la città di Hattusha era silenziosa, muta del dormire dei suoi abitanti. Il principe si mise in piedi, lentamente. Il suo sguardo si perdeva nel vuoto caliginoso di quella stanza. Pensava a ciò che aveva appena vissuto; alla visione che la dea gli aveva mostrato. Non era certo di saper interpretare quel sogno avuto da sveglio. Il falco dorato e la piuma tra i capelli di Bentresh sembravano significare qualcosa.

Si incamminò verso l’uscita che dava sul porticato del tempio, tanto preso dalla recente esperienza che non si curò della stuoia e del calice lasciati sul pavimento. Raggiunto l’esterno, dal vestibolo si diresse verso il portale d’accesso, tracciando per la grande corte scoperta.

Una flebile luna illuminò una figura confusa, in piedi al centro dello spiazzo cintato. Hattushili la riconobbe all’istante, prima ancora che il suo viso fosse messo bene a fuoco. Era la grande sacerdotessa della dea del sole, e se ne stava ferma in quel punto come stesse aspettando proprio che qualcuno uscisse dall’interno del tempio.

Il principe ittita le si rivolse subito in consiglio, raccontandole della visione avuta durante le sue preghiere alla dea di Arinna. La grande madre del tempio prese una mano di Hattushili tra le sue e lo rassicurò.

«La dea solare è molto grata alla dedizione e all’adulazione di vostra figlia», riferì la superiora accennando all’impegno di Bentresh come sacerdotessa della dea. «Quanto vi ha mostrato è la sua volontà», osservò ancora la donna, che prima di congedarsi all’interno del tempio si raccomandò. «Fate in modo che accada».

Il principe uscì dal tempio e si rivolse a sud, con lo sguardo in su, puntando la cittadella arroccata sul pendio dove cominciava la “città alta” di Hattusha. Stette fermo per un istante a mirare le cinta di quel complesso, dove all’interno stava, malata, la sua bambina. La maestosa roccia sulla quale sorgeva la cittadella correva per gran parte del lato orientale della capitale, terminando con il vasto sito di stoccaggio del grano.

Hattushili continuava a pensare alla visione della guarigione di Bentresh; al significato del falco. Fece alcuni passi in salita, e si ritrovò a dover aggirare l’edificio della sede amministrativa collegata all’attività del tempio, costruito proprio sul pendio e nella traiettoria che dalla “città bassa” porta al palazzo reale. Gli architetti ittiti che lavoravano ad Hattusha avevano sviluppato un’abilità peculiare a edificare su terreni scoscesi e rocciosi. L’architettura urbanistica della capitale ittita infatti era nota oltre il regno proprio per la sua efficienza nell’occupare aree impervie.

Hattushili si poggiò con una mano sulla parete dell’edificio che stava oltrepassando. Quasi a sorreggersi istintivamente dalla forza che subiva per l’improvvisa emozione. Riusciva a sentire la fredda roccia della parete non ancora scaldata dal sole del giorno, e questo lo rassicurò di essere tornato alla realtà. Non riusciva a trovare risposta alle tormentose domande scaturite dalla sua visione, ma aveva ormai capito che gli era stato suggerito un modo per guarire sua figlia, e che dunque salvarla era possibile. Sapeva che presto avrebbe interpretato il significato del falco e della piuma, e questo gli ridonò animo. Scattò subito con la testa a guardare l’altura che ormai si trovava a poche centinaia di passi da lui, sorrise e cominciò a camminare di fretta.

Risalì il pendio, con la destrezza di un giovane atleta fresco della preparazione per le gare di salto in alto. Il buio della notte gli nascondeva, a dispetto, le pietre e le buche che gli avrebbero fatto da ostacoli, ma il premuroso padre si districava in quell’intrico con la risolutezza di chi voleva raggiungere la propria figlia a ogni costo. Gli ultimi cento passi erano i più erti, ma Hattushili li scalò con l’agilità di un rupicapra.

Giunto al varco di ingresso della fortificata cittadella, Hattushili si fermò un istante. Riprese fiato e continuò, camminando stavolta lentamente. Non era ancora l’alba e il tacchettare dei suoi stivaletti dalla punta ricurva avrebbe destato quelli dal sonno più delicato.

La strada interna che fiancheggiava la cinta muraria, e che conduceva fino agli alloggi di corte, era lastricata di pietra rossa. Gli era parsa come un fiume insanguinato ogni volta che aveva dovuto percorrerla da quando sua figlia si ammalò. Ma non quella notte. In quel momento la via scarlatta gli parve un lungo tappeto cerimoniale, di quelli che avrebbe attraversato se mai avesse condotto sua figlia in sposa, accompagnandola sottobraccio al cospetto del suo promesso.

Hattushili si fermò per un attimo. L’aver pensato alla figlia in abito da sposa l’aveva scosso, non fosse altro per averla immaginata con in capo la piuma dorata sognata poco prima, un costume in uso tra le spose egizie. Ma si convinse di aver viaggiato troppo oltre con l’interpretazione e ricominciò a camminare.

Dopo alcuni passi si fermò di nuovo. Sulla sua destra svettava l’enorme parete posteriore della sala coperta del trono. La luna, dalla sua posizione, non la investiva, e si distinguevano a malapena le molte feritoie che aeravano e illuminavano la grande sala. Hattushili guardò la vasta parete al suo fianco e pensò al trono che custodiva. D’un tratto spalancò gli occhi in una manifestazione di sbigottimento. Cominciò ad annuire con il capo ai suoi stessi pensieri, e gli si aprì, leggiadro come una ninfea al mattino, un sorriso sulla sua bocca. Hattushili ora aveva capito: il falco e la piuma, «ma è ovvio» si ripeté nella sua testa. Ormai gli si era così chiaramente esplicitata la soluzione che subito cominciò a pianificare mentalmente ciò che andava fatto.

I suoi pensieri erano tutti per Ramses, il grande re dell’Egitto. Hattushili conosceva bene i dogmatici poteri sovrannaturali del faraone, i racconti delle sue gesta divine si diffondevano come le increspature del fiume alle prodezze salterine delle carpe.

Il principe ittita conosceva la simbologia che identificava il faraone con il falco, in quanto manifestazione terrena di Horus, il dio egizio con la testa di rapace. Che Ramses potesse guarire la principessa Bentresh, e che il suggerimento che la dea gli aveva poco prima mostrato nel suo sogno fosse proprio questo, non era un’idea così inverosimile. Ma come convincere il potente Ramses a fare un favore al popolo dal quale la sua famiglia sta tentando da anni di recuperare le terre spoliate all’Egitto? La piuma apparsa tra i capelli della giovane figlia suggerì la risposta ad Hattushili. Ci pensò un po’ su e si accorse che tale soluzione lo rammaricava, sebbene lo convinse ad agire.

Con rinnovato animo, continuò a passo svelto verso gli edifici residenziali e vi entrò eccitato. Il corridoio di sinistra portava alla sua camera e a quelle dei suoi figli. Si affacciò furtivo nella prima stanza, per assicurarsi che sua moglie ancora dormisse, poi entrò nell’ultima camera: quella di Bentresh.

Le pupille dilatate dal buio della notte, gli consentirono di orientarsi e distinguere la sua fragile figliola, distesa nel letto, bella come nel sogno appena avuto. Si inginocchiò al fianco della giovane, e pose le proprie mani su quelle di lei. La guardò un po’ prima di proferire parola. Rifletteva al ricorrente pensiero se sua figlia potesse sentire chi le parlava, anche in quello stato.

«Bambina mia», le sussurrò. «Luce nel cuore di un oscuro padre. Gli dèi ti hanno donato tanta grazia e bellezza da restarne privi, e lividi di tale perdita ti hanno rapita a loro». Poi sostituì la sua smorfia corrucciata con una più serena, e continuò. «Ma la dea di Arinna ha a cuore la tua protezione e mi ha mostrato la via. Se i nostri lumi ci sono ostili, il nostro nemico ci sarà propizio. A lui consacrerò in armistizio la nostra casa e suggello della pace sarà la tua virtù. Ma per offrire la pace…»

Si interruppe non appena percepì una presenza nella stanza. Era entrata Puduhepa, sua moglie. Hattushili voltò solo il capo a fissarla. Lei si avvicinò e sentì la propria mano afferrata da quella del marito. Con ancora gli occhi puntati sulla sua consorte Hattushili continuò.

«Per offrire la pace, bisogna prima dichiarare la guerra!»

II

Alcune notti più tardi il sonno del faraone fu turbato da un sogno. Il dio Khonsu, detto anche “viaggiatore”, fece visita a Ramses. Era la divinità lunare venerata in Egitto. Faceva parte della triade divina, insieme ai suoi genitori gli dèi Amon-Ra e Mut, alla quale era consacrato il grande complesso templare della città di Tebe.

Khonsu apparve ai piedi del largo letto reale. Era avvolto dal suo iconico sudario e sfoggiava una folta treccia di capelli neri che cresceva dal lato sinistro di una rapata testa da bambino. Nonostante il suo aspetto fanciullesco, emanava un’aura vigorosa; una forza spesso invocata dai fedeli per i suoi poteri guaritori.

Ramses apparve a suo agio nel sogno, come se non sapesse di essere protagonista di una fantasia. La visita di un dio lo rassicurava, dandogli conferma della sua virtù, in quanto faraone, di unico uomo a poter intercedere presso gli dèi. Tuttavia una presenza oscura si insinuò nella scena.

Un’ombra grigia nascondeva il profilo di un uomo alle spalle di Khonsu. Il dio non pareva esserne turbato, anzi, girò leggermente la testa per trovarlo con la coda dell’occhio. Dunque allargò di poco il braccio come per invitarlo a uscire dall’ombra, e la misteriosa sagoma fece un passo avanti per affiancarsi al giovane dio. Si palesò di fronte al faraone, per suo sgomento, il principe Hattushili, con in capo la mitra e in abiti militari tipici del regno ittita. Ramses non conosceva il suo aspetto, ma in quel momento aveva la piena consapevolezza di chi fosse: il fratello del re ittita Muwatalli, nonché comandante del suo esercito.

Hattushili, dapprima con le mani nascoste dietro la schiena, allargò le braccia e le portò avanti, verso Ramses. Ognuna in una mano, teneva in bella vista due piccole sculture a forma di sfingi alate. L’insolito ospite porgeva le statuine con l’atteggiamento di chi le stesse donando. Era sereno in volto, imitando la stessa espressione gioconda del dio Khonsu, che immobile fino a quel momento alzò in fine il braccio per tenderlo al faraone.

Ramses si svegliò, spalancando gli occhi di colpo. Riconobbe subito la sua stanza da letto, seppure dalle finestre delle pareti laterali penetrava solo il buio della notte ancora viva. Come se lo schiudersi delle sue palpebre avesse risuonato, vide Nefertari, svegliatasi, voltarsi verso di lui. La sposa reale aveva un rapporto così empatico con il faraone da percepire ogni suo turbamento senza dovergli chiederne conferma. Si limitò a posargli una mano sul torso nudo, mentre lo fissava con apprensione dal suo lato del letto, in attesa che si confidasse.

Ramses le prese la mano dal proprio petto, dunque si volto sul fianco per fronteggiarla. Nel suo sguardo si leggeva la stessa emozione ammaliata di sempre. La amava in modo smisurato, e ogni volta che si svegliava e la percepiva al suo fianco ringraziava gli dèi, più che per il suo rango, per avergli donato in sposa la più bella tra tutte le donne. Nelle stanze di corte ancora si raccontava di come la bellezza di Nefertari avesse stregato Ramses già al loro primo incontro.

Erano poco più che acerbi ragazzini, sebbene Ramses fosse già l’erede al trono designato. Nella grande sala del palazzo reale furono convocati nobili egizi e dignitari stranieri, che accompagnarono le loro figlie o sorelle al cospetto del principe perché scegliesse tra loro la sua sposa.

Nefertari era una discendente del faraone Ay, che regnò in Egitto prima che la dinastia di Ramses salì al trono. Quando il giovane principe la notò ne restò come folgorato. Era dal mattino che incontrava solo avvenenti ragazze agghindate, ma il fascino di quella giovane aveva finalmente messo fine alla ricerca di una sposa degna di un futuro faraone. Seppure involontariamente, Ramses si mostrò scortese alla bella Isinofret, con la quale stava dialogando, strozzando il discorso e abbandonandola per precipitarsi da Nefertari.

Quando fu al cospetto del suo incantevole viso, ed ella gli sorrise, riuscì soltanto ad adularla, in un modo da far arrossire ogni cortigiana lì presente.

«Quale insapore futuro mi riserverei se non scegliessi te?» la compiacque Ramses prendendole la mano e stringendola tra le sue.

«Un futuro in ogni caso glorioso, come quello che spetta a un faraone», replicò stuzzicante la giovane.

«Io dovrò costruire un mausoleo perché di me rimanga un imperituro ricordo. A te sarà bastato essere nata così bella per restare nella memoria eterna degli uomini».

A quel punto le gote di Nefertari si arrossirono.

«Mi lusingate troppo, e troppo poco voi stesso», continuò imbarazzata la giovane. «Voi siete pur sempre Ramses, “nato dal dio solare” come recita il vostro nome».

«Io sarò il figlio del sole», concluse il principe, «ma tu sei colei per la quale esso splende».

Ramses raccontò il sogno a Nefertari, ammettendo di non aver compreso il significato della presenza di Hattushili, men che meno del suo bizzarro regalo. L’invito di Khonsu invece era chiaro a entrambi: il dio lo stava convocando. E qualunque cosa significasse quel sogno lo avrebbe scoperto una volta giunto al suo tempio presso la città di Tebe.

Il faraone si alzò dal letto per sciacquarsi il viso. Deciso a non attendere il giorno per partire, si truccò gli occhi e sì vestì in furia. Con la mente ancora distratta dal sogno e dal tentativo di interpretarlo, fece per andarsene dalla camera ma si bloccò proprio sull’uscio. Rifletté un brevissimo istante, poi si voltò verso il letto, dal quale lo stava ancora osservando Nefertari. Si avvicinò a lei pacatamente e si sedette sul bordo del giaciglio. Le posò una mano sulla sua e si rimproverò.

«È forse un uomo assennato colui che si reca da un dio fanciullo abbandonando una dea regina?»

Entrambi sapevano che non si trattava di un ripensamento, ma della dolce retorica che il faraone riservava sovente alla sua sposa. La baciò delicatamente, un paio di volte, poi con maggior vigore. La strinse infine in un abbraccio, con il fervore di chi volesse fare provvista prima di stare via alcuni giorni.

Stavolta Ramses varcò la porta della camera e si avvicinò alla prima sentinella che incontrò, di turno quella notte all’interno del palazzo. Le diede ordine di svegliare il capo della sua guardia personale perché preparasse l’immediata partenza via fiume, poi si diresse verso la camera del vecchio visir.

Si chiamava Paser, e secondo i cortigiani era l’uomo più saggio d’Egitto. Era quel genere di consigliere che non faceva mai domande, poiché conosceva sempre le risposte, e questo a Ramses piaceva. Se c’era un uomo che il faraone considerava più giudizioso di sé stesso; l’unico al quale avrebbe obbedito senza discutere, quello era proprio il suo visir.

Paser era un uomo molto anziano, e conosceva il faraone fin dalla sua nascita. Serviva la famiglia di Ramses già sotto il regno di suo nonno, ed era stato un elemento fondamentale nel breve ma prosperoso regno di suo padre, il faraone Seti.

Seti e Tuia erano una coppia reale atipica. Si sono ritrovati a governare sul più potente regno del mondo senza averlo previsto. Il padre di Seti serviva il faraone con l’incarico di Visir nel momento in cui la longeva dinastia dei faraoni che riunificarono l’Egitto, dando inizio all’età d’oro del regno, era ormai finita. E dopo essere stato scelto come regnante, iniziò una nuova linea di sangue che proseguì alla sua morte con Seti, il suo unico figlio maschio.

Quando Seti salì al trono era già sposato con Tuia. Ed ebbero già generato i loro due figli: la femmina Tia e il secondo genito, un maschio, al quale avevano dato il nome di Ramses.

Formavano un quadretto familiare inconsueto; molto ordinario rispetto agli usi dell’epoca. Anche se di origine aristocratica, la famiglia di Seti era più vicina al popolo di quanto non lo fossero stati i regnanti della precedente dinastia. Non ci volle molto perché i sudditi cominciarono a benedire il faraone Seti, figlio di un soldato divenuto visir e poi faraone.

Lui e suo padre erano originari del nord dell’Egitto, di una città sorta sulle rovine dell’antica capitale del regno Hyksos, quando gli stranieri controllavano il delta del fiume Nilo. Fu per via di tali origini che Ramses decise di ampliare e abbellire la città di suo padre, e che nominò capitale del regno istituendovi la sede del palazzo reale. E che chiamò Pi-Ramses, ovvero “la casa di Ramses”.

Paser dormiva profondamente quella notte, tanto che ci vollero più strattonate perché si destasse. Ramses gli parlò accesamente, senza quasi dargli il tempo di scafarsi dal sonno. Raccontò in modo dettagliato il suo sogno e le proprie conclusioni. Paser lo ascoltava con attenzione mentre si vestiva. Era evidente anche al visir che il dio Khonsu stesse convocando il faraone, e anche a lui parevano indecifrabili la presenza e l’atteggiamento di Hattushili.

Convennero entrambi che il principe straniero nel sogno rimandasse alla ormai assodata eventualità di un conflitto bellico con il popolo anatolico degli ittiti. La disputa per le terre a nord dei confini egizi durava ormai da anni. Da quando il faraone Seti portò avanti la politica di suo padre, che mirava alla riconquista delle provincie vassalle d’Egitto assoggettate dagli ittiti poco meno di un secolo prima, durante il caotico regno del “faraone eretico”.

Nel corso delle ultime campagne militari e diplomatiche i confini egizi furono ristabiliti fino a ricomprendere il territorio di Canaan. E Ramses sapeva che presto avrebbe dovuto spostarli più a nord, riconquistando la provincia costiera di Amurru e quella nell’entroterra di Qadesh. Per la provincia affacciata sul mare il faraone prevedeva che un leggero atto di forza avrebbe convinto i principi locali a cedere diplomaticamente il controllo delle loro terre all’Egitto, mentre per il territorio di Qadesh le cose sarebbero state più complesse. La cittadella fortificata, che da il nome all’intera provincia, era sotto il diretto controllo degli ittiti. La riconquista di quello strategico crocevia richiedeva un confronto bellico in campo aperto con l’esercito del re Muwatalli.

Ramses stava preparando le sue divisioni da tempo, e attendeva soltanto il momento propizio, che il faraone e il suo visir temevano fosse il presagio contenuto nel sogno. Ma soltanto il dio Khonsu poteva sbrogliare i loro dubbi, dunque si guardarono con aria complice, poi Paser rassicurò il faraone.

«Va’ a Tebe. Parla con il dio. Informerò io la corte del motivo della tua assenza». E prima che Ramses proferisse parola dalla sua bocca appena dischiusa, il visir lo anticipò. «E sì. Mi prenderò cura della regina».

Sorrisero entrambi alla loro comica sintonia. Poi il faraone si incamminò verso l’uscita, per recarsi all’imbarcazione, e pensò all’affetto che nutriva per quell’uomo. Un fedele amico al quale voleva bene come a un padre.

Ramses raggiunse la banchina nel porticciolo del palazzo, dove era ormeggiato il panfilo che lo avrebbe condotto a Tebe. I componenti la sua guardia personale erano stati appena destati, non erano quindi ancora giunti alle barche di supporto, ormeggiate nell’imbarcadero e che avrebbero seguito il bastimento reale alla sua partenza. Quando il faraone si spostava lungo il fiume era sempre seguito da almeno tre barche, che trasportavano una dozzina di soldati della sua guardia privata. E quell’improvvisa partenza non faceva eccezione, per la stizza di alcuni di quei soldati che erano rincasati tardi dal bordello “L’ora felice”, situato appena fuori il quartiere militare.

Il capo della guardia reale, e guardia del corpo del faraone, era già sul panfilo, anticipando Ramses a riprova della sua efficienza. Si stava assicurando che le manovre di alberatura procedessero oliatamente. Mentre controllava i cavi di rame che tenevano insieme il fasciame dello scafo, con la coda dell’occhio seguiva l’addetto alla manutenzione del panfilo, nonché il suo armatore, impegnato nell’issata.

L’albero era un alto e largo tronco di sicomoro, montato su un supporto bipode che scaricava il peso sulle murate laterali. L’ampia e quadra vela era ancora piegata e sistemata lungo l’asse del grande tronco. Quando l’albero fu alzato in una perfetta verticale lo snello pennone al quale era inferita la vela fu posizionato in senso orizzontale, sporgendo ai lati del gonfio natante come le slanciate zampe di un trampoliere. Si attendeva soltanto la partenza per issare la vela.

Il mezzo faraonico era un grosso palischermo, che si presentava però con gli scalmi vuoti. A differenza di altri palischermi, nei quali si ritiravano i remi a bordo per montarli poi nelle fasi di salpamento e di crociera contro corrente o con vento debole, in quello reale i remi erano assenti. Quando viaggiava il faraone gli dèi soffiavano i venti o muovevano la corrente permettendo al suo panfilo di navigare ogni volta alla massima velocità. Necessitava tuttavia del timoniere, poiché gli dèi non si preoccupavano evidentemente delle virate.

Quando anche le barche gregarie furono pronte e tutti i componenti la spedizione furono arrivati, il timoniere al controllo del panfilo reale spiegò la grande vela. Ma la calma aria della notte non voleva saperne di soffiare via il pesante convoglio in attesa.

Ramses, che se ne stava in piedi sul pulpito di prua, con le mani conserte dietro la schiena, si accorse dello sguardo interrogativo della sua guardia del corpo. E prima che questi gli chiedesse come mai gli dèi non soffiassero ancora il vento, il faraone lo rassicurò.

«Sta arrivando. Tra poco partiremo».

Il sole era ancora distante dalla linea d’orizzonte, nascosto nelle tenebre. Si riusciva però a distinguere ogni dettaglio del porticciolo, complice la piatta e calma acqua del bacino che amplificava il chiarore della luna, riflettendolo sulle figure ferme in attesa sui natanti. D’improvviso si udì un debole ma scandito strido d’uccello, che costrinse tutti a guardarsi alle spalle verso est. Si palesò loro un grosso falco ad ali spiegate picchiare verso il porticciolo.

Giunto all’altezza delle imbarcazioni il rapace sfrecciò a pelo d’acqua sfiorando gli scafi ancora immobili, ed emise un altro strido, stavolta così risonante da far gelare il sangue nei cuori dei presenti. Poi lo scuro e maestoso volatile, restando a filo del livello del fiume, imboccò il passaggio che dall’imbarcadero immetteva nel largo ramo del fiume.

Improvvisamente le vele già spiegate dei natanti si gonfiarono. Un vento dapprima lieve, poi sempre più forte, si levò in direzione del fiume. Nonostante il panfilo reale fosse il più pesante, fu il primo a muoversi. Le barche di scorta cominciarono a navigare appena dopo, tanto da potersi accodare alla loro maestra che avrebbe condotto il convoglio.

Il timoniere del panfilo reale guardò la clessidra ad acqua che teneva poggiata ai suoi piedi. Lui stesso l’aveva capovolta allo scadere della dodicesima ora del giorno, come faceva ogni sera. Dal livello del liquido intuì che ora della notte fosse, dunque si rivolse al faraone e calcolò.

«All’alba passeremo la città di Bubasti».

III

Pi-Ramses era in fermento. La nuova capitale, fondata dal faraone e alla quale aveva dato il suo nome, era più agitata del solito. Il cicaleccio di quel mattino, diffuso in tutta la città come il frinire di uno sciame di grilli infervorati, riguardava il motivo e la destinazione dell’improvviso viaggio che il faraone aveva intrapreso la notte prima.

I caotici mercati di merce locale e orientale; il quartiere militare con gli alloggi dei soldati della divisione lì stanziata; i cortili dei templi consacrati agli dèi Ptah e Seth, riecheggiavano dello stesso pettegolezzo. C’era chi pensava che Ramses fosse in viaggio per una visita di prassi in qualche cantiere del sud, sebbene non spiegasse la furia di partire in piena notte. Chi invece credeva che fosse una messinscena atta a nascondere una qualche malattia debilitante che costringeva il faraone a letto e che non si voleva far conoscere.

Tebut il calzolaio raccontava ai sui clienti che un suo cugino aveva sentito dire da un amico, che pare frequentasse una giovane cortigiana, che questa gli avrebbe riferito che Ramses era morto nel sonno, e che il visir e la regina avessero inscenato un suo viaggio per avere il tempo di organizzare la diffusione della notizia e le sue conseguenze.

Shenu il barbiere, che non voleva credere al calzolaio poiché in caso di morte del faraone il rituale di lutto prevedeva che per settanta giorni gli uomini non si sarebbero rasati il capo e la barba, raccontava una versione più fantasiosa. Ossia che la regina Nefertari avesse sorpreso Ramses a fare sesso con una inserviente e lo avesse cacciato di palazzo.

Per quanto lontane dalla realtà, le idee che il popolo si era fatto di quella improvvisa partenza del faraone erano un disperato tentativo di spiegarsela. I cittadini di Pi-Ramses non erano abituati ai segreti. Vivere dove risiedeva la famiglia reale li teneva costantemente aggiornati sull’attività di palazzo, date le molte persone impiegate a corte che riferivano gli eventi ai propri amici o familiari. Stavolta però nessuno che frequentava gli ambienti reali sapeva dove fosse andato il faraone.

Soltanto Paser e Nefertari, tra quelli rimasti a Pi-Ramses, conoscevano il movente della frettolosa fuga di Ramses. E quella mattina ne stavano discutendo in disparte, camminando fianco a fianco lungo i viottoli del vasto giardino del palazzo reale.

Mentre dibattevano Nefertari si gingillava tenendo in mano un fiore di malvarosa, screziato di sfumature viola, che aveva colto da uno dei grandi vasi che delimitavano l’ingresso al giardino. Paser, dall’animo più pragmatico, teneva in mano un cubito dorato. Si trattava di un’asta graduata che gli egizi utilizzavano per le misurazioni lineari. La sua lunghezza derivava dalla distanza dal gomito alla punta del dito medio di un uomo, una lunghezza che gli egizi chiamavano appunto “cubito”. Il vecchio visir non aveva necessità di misurare alcunché, ma veniva spesso avvistato con quel cubito in mano nelle sue solitarie passeggiate introspettive o insieme al faraone. Evidentemente lo aiutava a pensare.

Per non alimentare le bizzarre e variegate voci che già circolavano in città, e che presto avrebbero raggiunto l’intera lingua verde del Nilo, il visir, d’accordo con la regina, aveva convocato un’assemblea di corte per metà giornata. Avrebbe spiegato ai sudditi di palazzo e ai membri dell’aristocrazia la meta del faraone, e ne sarebbero seguite disposizioni. Nonostante risultasse insolita la sua presenza, se non al fianco del faraone alle assemblee di corte, la regina decise di presenziare all’incontro.

«Lascia che intervenga anche io oggi», chiese infine Nefertari a Paser, fermando la loro marcia nei pressi della grande piscina rialzata. Poi la regina si sedette sul bordo della vasca e posò il fiore di malvarosa su una foglia di loto, messa lì per ornamento. Con un dito la spinse verso il largo e guardandola allontanarsi continuò. «La corte ha bisogno di sapere che io sono tra loro, tanto nei momenti di pace…», Nefertari si girò a guardare l’anziano visir prima di continuare, «quanto in quelli di guerra».

Si erano presentati tutti i convocati all’assemblea presso la grande sala del trono. Cortigiani di ogni rango e dignitari stranieri in consolato presso la capitale erano accomodati già da un’ora, occupando tutte le panche sistemate per l’occasione. Restavano solo due sedute, nella prima fila, all’estremità della panca che dava verso l’ingresso. L’ultimo degli ospiti ad arrivare fu Pentaur, un giovanissimo scriba giunto a Pi-Ramses da un paio di giorni. Aveva studiato presso la “casa della vita” di Tebe, la scuola per scribi presso il grande complesso templare della città. Era studente del gran sacerdote di Amon-Ra, che notando la sua abilità decise di inviarlo al servizio del faraone.

Pentaur era eccitatissimo a trovarsi in quella sala. Sebbene non avesse ancora incontrato nessuno della famiglia reale, vedere anche solo il trono lo riempiva di emozione. Paser lo accompagnò alla penultima seduta rimasta, per poi sederglisi accanto lui stesso a chiudere la fila.

La grande sala era satura di mormorii. Finché il silenzio non fu richiamato da tre forti e risonanti battiti di mani dell’attendente alla sala, che nessuno aveva visto entrare e portarsi al centro della stanza, e che si ritirò subito in un angolo per lasciare libero l’ingresso.

Il silenzio fu immediato e totale, protocollare, dato che ogni ospite dell’assemblea conosceva il significato del secco richiamo alla quiete di quel battimano: stava per entrare il faraone o il suo vicario. Ma dato che Ramses si sapeva essere fuori città e Paser, che parlava in sua vece, aveva già preso posto tra gli ospiti, supposero tutti, con una certa concupiscenza, che avrebbe fatto il suo ingresso l’avvenentissima regina Nefertari.

Passarono alcuni secondi, che per le fantasie erotiche dei molti uomini presenti erano un interminabile preliminare voluttuoso, finché varcò l’alta porta d’ingresso, tra le poche del palazzo in legno intarsiato, una delle due ancelle della sposa reale.

Era alta quanto uno slanciato giovane soldato, e vestiva di una finissima tunica a tinta cornalina che non confondeva però i rossi capezzoli del suo seno prosperoso. Una cinta bianca misurava la stretta vita e dava forma ai compiuti fianchi. La veste era corta fino ad appena sotto le natiche e mostrava le slanciate e brune gambe che facevano invidia ai migliori decoratori della “valle delle regine”, dove le più belle donne d’Egitto venivano ritratte sulle pareti delle loro tombe.

La prediletta sposa di Ramses non usava l’espediente di molte sue predecessore, che male abbigliavano le fide ancelle per apparire più belle in loro compagnia. Le due dame personali della regina erano le più attraenti, ben vestite e meglio truccate ragazze del regno.

La giovane si scostò subito dopo aver varcato l’ingresso, per pararsi dietro all’altra anta rimasta chiusa della lignea porta. Non avrebbe mai preceduto la sua padrona in nessuna stanza, seppure ne respirava per prima l’aria, con la premura di un’assaggiatrice che teme un avvelenamento del cibo.

Vestita allo stesso modo delle sue dame, ma a tinte invertite, con l’abito di un candido bianco traslucido e più lungo da arrivare alle caviglie, stretto in vita da una cinta rossa evidentemente realizzata dalla stessa pezza di stoffa usata per confezionare le tuniche delle ancelle, entrò nella sala Nefertari.

Nemmeno i grandi diplomatici, testimoni di molte terre straniere, ricordavano una donna di tale bellezza. Erano ammaliati tutti; persino i veterani che la conoscevano da anni la osservavano con lo stesso inebriamento di chi, come il giovane Pentaur, la ammirava per la prima volta da vicino.

«Sembra tu non abbia mai visto una donna», sussurrò Paser nell’orecchio del novellino scriba, notando la sua espressione tonta e rapita.

«Credevo di sì, fino a questo momento», gli rivelò Pentaur con aria allocca, senza mai distogliere lo sguardo da quell’incanto in carne e ossa.

Nefertari tagliò la sala in due per raggiungere il grande trono, ancorato su un palchetto nella parte opposta all’ingresso, dando i sinuosi fianchi ai presenti. Anche il suo profilo era incantatore. Un naso elegantemente aquilino e una bocca formosa completavano il suo viso già dotato di prosperosi zigomi e di grandi occhi che sembravano esserle stati inviati in terra direttamente dal dio Ra. Il suo seno era minuto ma gravido, e i fianchi perfettamente tondi come disegnati con la corda.

Indossava un copricapo dorato a forma di avvoltoio, con la testa che sporgeva dalla fronte della regina e le ali che ne avvolgevano il cranio fin sopra le orecchie, come le fosse appollaiato sul capo. Il biondo oro del volatile artefatto metteva in risalto i neri capelli, lunghi e lisci, che le cadevano sulla schiena, a eccezione di due ciocche identiche che le si adagiavano sulle clavicole. Dai lobi delle orecchie le strisciavano fuori due piccoli e dorati urei: serpenti cobra simbolo di potere, che se ne stavano ritti come se un incantatore stesse intonando per loro una melodia seducente.

La regina raggiunse la seduta reale, forgiata interamente in oro massiccio e diffusamente ricoperta di intarsi in dolerite nera, con due braccioli a forma di ali di falco rivestiti di piume artificiali. Era il trono di Ramses, dal quale presiedeva gli incontri con diplomatici stranieri o con il consiglio di guerra del suo esercito o con i ministri del suo palazzo. Nessuno al di fuori del faraone e della sua sposa era autorizzato a occuparlo.

Dunque Nefertari si sedette, poggiando le sue braccia sulle ali posticce del trono e unendo i piedi a terra. Allungò un po’ la gamba destra, in modo che si scoprisse di poco la caviglia e che tutti potessero scorgere il tatuaggio di una piuma rappresentante Maat, la giustezza, per ricordare ai presenti, prima di proferire parola, che era portatrice di verità.

Quando la regina parlò incantò ogni astante. Il suo tono era regale e sensuale al contempo. Le sue parole penetravano nelle menti di chi ascoltava come l’acqua si insinua nella sabbia.

«Vi saluto figli miei. E il grande Horo, protettore delle “due terre”, dell’alto e del basso Egitto; colui che regna sull’ape e sul giunco, il nostro faraone Ramses Meriamon, vi saluta per mia bocca. Egli è in viaggio, come ognuno di voi sa, e io vi confido che è diretto a Tebe. La notte della sua partenza ha ricevuto in sogno la visita del dio Khonsu. Il “viaggiatore” lo ha chiamato a sé dopo avergli mostrato il principe ittita Hattushili».

La regina si concesse una breve pausa, giusto il tempo di scorrere ogni convenuto con lo sguardo. Quindi continuò.

«Il conflitto con gli stranieri anatolici è una possibilità sulla quale ci prepariamo da molto tempo. Il faraone interrogherà il dio Khonsu, che gli indicherà la via. Sarà chiamato a prendere una decisione difficile, e al suo ritorno questa casa dovrà essere pronta a soddisfarla».

Nefertari assunse un ritmo del discorso più rallentato, e nella sua voce si percepiva il sincero sentimento d’amore che nutriva per il suo popolo.

«Sappiate da me soltanto che il nostro faraone agirà sempre per il bene dell’Egitto, e che ognuno di voi, ognuno dei vostri familiari, ognuno dei vostri servitori e dei loro familiari, risiede nel mio cuore e in quello del mio sposo come fosse nostro figlio. Qualunque scelta il faraone adopererà, sarà per proteggere tutti noi».

Dunque la regina regalò un sorriso luminoso e rassicurante ai presenti, che risposero di riflesso con lo stesso atteggiamento.

«Ora il visir vi darà istruzioni», concluse Nefertari. Poi si zittò e sollevò il braccio verso Paser, invitandolo a parlare.

Il fido consigliere di Ramses mostrava tutta la sua senescenza, con la pelle annerita dai troppi soli. Aveva visto spegnersi la precedente dinastia: studiava da scriba quando il giovane faraone Tutankhamon morì prematuramente senza lasciare eredi. Indossava una tunica di lino, stretta alla vita con una corda di canapa. Aveva superato ormai l’età in cui aveva ancora la voglia di imbellettarsi ogni mattino, indossando la parrucca a caschetto e il suo tipico pettorale in oro con un grande scarabeo di lapislazzuli al centro, che si riservava ormai di vestire solo nelle cerimonie importanti.

Seppure seduto a margine della sala, l’anziano funzionario riusciva a vedere tutti gli intervenuti ed essere udito da ognuno di loro. Paser dunque restò sul posto, ma si alzò in piedi facendo leva con il braccio sulla spalla di Pentaur che gli era seduto accanto.

«Nutri la tua mente ragazzo, cosicché alla mia età ti resterà ancora qualcosa di agile», si schernì il visir sottovoce perché solo il giovane scriba potesse udirlo. Una volta in piedi alzò la voce e parlò in tono autoritario al pubblico.

«Signori, nobili cortigiani, padroni e figli di questa casa. Ho servito la doppia corona dell’alto e del basso Egitto sotto il faraone Seti Merenptah e prima ancora sotto suo padre. Durante il regno di Akhenaton, come conseguenza della sua fanatica politica eretica, il re ittita Shuppiluliuma ha assoggettato al suo regno le regioni orientali già sotto il controllo egizio, spingendosi fino quasi al deserto del Sinai che delimita i nostri confini. I due precedenti faraoni hanno ristabilito il controllo sul Canaan, confinando il dominio ittita alla città fortezza di Qadesh. Il nostro protettore e faraone Ramses Meriamon, che gli dèi gli siano favorevoli, ha sempre saputo che il suo ruolo in questa vicenda sarebbe stato di riconquistare Qadesh. La visita del dio Khonsu, di cui vi ha accennato la regina, ci fa pensare che quel momento sia arrivato. Se il faraone tornerà da Tebe con l’ordine di partire per il nord, noi tutti dovremo farci trovare pronti».

Il visir fece una pausa, chinò la testa, pensoso, e tutti ebbero la sbalordita sensazione che il vecchio stesse abbandonandosi a qualche tipo di emozione. Sarebbe stata la prima volta in tutta la sua vita, perlomeno in pubblico, ma l’illusione svanì presto. Paser rialzò di scatto la testa, e con lo stesso tono autoritario di prima cominciò a dispensare ordini a tutti.

«Gli addetti alle derrate comincino a preparare i foraggi e le giare per il lungo viaggio verso nord; i generali siano convocati qui a Pi-Ramses, quando il faraone tornerà vorrà indire un consiglio di guerra».

Ognuno lì presente ricevette disposizioni. Poi il visir si rivolse con lo sguardo al giovane scriba Pentaur.

«Prepara un dettagliato inventario di cavalli, carri e armi nella caserma militare. E tieniti pronto, se il faraone vorrà partire per la guerra tu lo seguirai. Annoterai e trascriverai ogni singolo momento della spedizione; registrerai scrupolosamente i fatti nei luoghi e nelle date in cui sono accaduti. Fai dunque parsimonia di rotoli, inchiostro e bastoncini, potrebbero servirtene molti per raccontare le gesta in guerra del grande Ramses».

Il visir passò in rassegna con lo sguardo ognuno che avesse ricevuto ordini.

«È tutto», concluse poi senza troppe cerimonie, e si rimise a sedere, segno che la sua esposizione era terminata.

Tutti si girarono verso Nefertari, in attesa di essere congedati da lei, visto che era la personalità con il più alto titolo in quella sala. La regina si alzò in piedi stavolta, a significare che quanto stava per dire avrebbe concluso l’assemblea. Dunque parlò.

«Quanto esposto dal visir è tutto ciò che ci è dato conoscere. Ora andate e parlate con i vostri amici e i vostri servitori. Dite loro che quando usciranno a comprare il pane; quando si recheranno a pregare presso i cortili esterni dei templi; quando si incontreranno al fiume a lavare le vesti, raccontino del viaggio del faraone e del suo motivo. Tutti dovranno sapere che Ramses, il toro possente, farà ciò che riterrà giusto per i suoi figli. Che ci conduca alla pace o alla guerra, incoraggino il popolo, poiché in entrambi i casi esso sarà al sicuro».

Nefertari quindi si incamminò verso l’uscita, seguita dalle sue ancelle. Quando fu sotto l’uscio si arrestò, si voltò, e si rivolse per l’ultima volta all’assemblea.

«Vita, prosperità e salute a tutti voi», augurò con un’espressione che faceva trasparire una rassicurante serenità. In cuor suo però si chiedeva che cosa stesse facendo suo marito in quel preciso momento, e se fosse già arrivato a Tebe.

IV

Il Nilo si presentava docile ai suoi naviganti. La brezza del fiume, nata dall’amplesso tra la fresca aria della riva e quella più in alto inteporita dal sole, spingeva il panfilo reale nella difficoltosa risalita controcorrente verso sud. L’imbarcazione padrona e le sue ancelle procedevano spedite, dimostrando grande abilità dei timonieri che zigzagavano tra le teste di granito boccheggianti lungo il percorso.

Tre barche guerriere, smilze ma resistenti, tutte con grandi protomi di prua a testa di antilope e vele triangolari, seguivano la faraonica. Ognuna di esse contava un timoniere e tre passeggeri. Due dei quali riposavano, mentre un terzo vigilava le coste imbracciando l’arco, pronto allo scocco. Il mezzo reale, nonostante la sua capacità di carico, trasportava, alla guida di un timoniere, soltanto il faraone e un altro uomo, la cui stazza non faticava a rivaleggiare con quella di Ramses.

Era il capo della sua guardia personale e gli era posizionato di fianco. Mentre Ramses restava fermo nella statuaria posizione che mostrava fin dalla partenza, il suo protettore stava appoggiato al parapetto con le mani strette sul pulpito di prua.

Si chiamava Maimon, come il dio protettore dell’isola sarda, la sua terra d’origine. Ramses lo aveva incontrato la prima volta in battaglia, da avversario. Era uno shardana, dal passato burrascoso trascorso per mari a consumare razzie, proprio come la dozzina di suoi colleghi che ora li scortavano nelle barche seguaci.

A differenza dei suoi compagni, la guardia del corpo di Ramses non indossava il tradizionale elmo cornuto tipico del loro popolo. L’onore di essere l’unico delle sentinelle reali a potersi avvicinare al re costava il pegno di non poter indossare il copricapo dei suoi padri. Ma il guardaspalle del faraone non badava alle tradizioni, lui godeva della fiducia del potente Ramses e ciò ritrovava l’onore perso dai suoi capelli al vento.

Il convoglio reale, giunto all’altezza del grande complesso templare di Tebe, virò di conserva a imboccare lo stretto canale attraverso il quale si accedeva al rettangolare bacino artificiale, costruito per l’ormeggio delle barche visitatrici. Era l’unico accesso via fiume all’intero complesso, che capeggiato dall’estesissimo tempio del dio Amon-Ra ospitava tra le sue mura anche il più modesto tempio del dio Khonsu.

Il grande falco, che li aveva accompagnati fin lì, fece due rivoluzioni sul largo bacino per poi librarsi verso l’accecante luce solare e sparire alla vista. Dunque i trasporti attraccarono nel posto centrale, dove cominciava un viale non più lungo di cinquanta passi che conduceva alla smisurata porta d’ingresso al tempio. Il passaggio era costeggiato da due file di grosse statue con fattezze di sfinge, che sembravano leoni impigriti dal caldo costretti a sopportare la tediosa processione dei visitatori del tempio.

La porta era ricavata al centro di un imponente pilone realizzato con blocchi di granito, alto decine di cubiti. Maimon ebbe le vertigini anche solo guardando la cima della parete. Lo shardana non aveva mai visto niente di più colossale. Aveva avuto la stessa convinzione solo qualche minuto prima, quando vide per la prima volta il complesso templare dal fiume.

Non era infatti mai stato a Tebe prima di allora. Da quando era al servizio del faraone solo una volta Ramses si recò nella città dei templi, per l’annuale festa di Opet, ma in quell’occasione Maimon restò a casa vittima di una brutta congiuntivite, dovuta forse alla sabbia desertica alla quale i suoi occhi non erano abituati.

Prima di scendere dall’imbarcazione Ramses ordinò ai suoi accompagnatori di attendere sulle barche. Solo Maimon fu invitato a scendere a terra e a seguirlo. Seppure fosse un laico, per di più straniero, al quale sarebbe stato proibito calcare il sacro cortile all’interno del tempio, era pur sempre la fidata guardia di Ramses, e a suo dire gli dèi non avrebbero obiettato.

Al faraone non servì bussare. Gli bastò avvicinarsi perché una strana figura, dall’aspetto caratteristico, spalancasse il largo portone. Il gran sacerdote di Amon-Ra guardò gli ospiti con evidente gioia. Era il secondo uomo più potente d’Egitto, che conosceva Ramses fin da quando era in fasce, eppure si sentiva onorato, ogni volta, della visita del faraone.

Aveva le mani congiunte sullo stomaco e attese qualche istante prima di chinare il busto e il capo depilato; anzi si impettì alquanto, come se volesse fare sfoggio della sua veste. Restò poi più a lungo del solito in posizione china, cosicché Ramses poté ammirare bene la testa felina che pendeva dalla spalla del suo ministro. Era il corredo della sopravveste, completamente in vera pelle di leopardo. Al posto degli occhi, al felino erano stati incastonati due bulbi di diaspro rosso, luminosi e ben levigati come fossero vivi.

Le due pietre preziose erano la firma di Inepu, il più noto e abile imbalsamatore dei due regni. Alla morte del faraone la salma sarebbe stata affidata a lui per la preparazione. Ramses immaginò il suo corpo esanime sul lettino da imbalsamazione, mentre gli venivano asportate le viscere. Rabbrividì per un istante, e si augurò che il suo incontro con Inepu avvenisse il più tardi possibile.

Fu il gran sacerdote a spezzare il silenzio di quella macabra introspezione, risollevandosi in posizione eretta. Fissò negli occhi il faraone, e con ancora il ghigno felice e ricongiungendo le mani sullo stomaco lo accolse.

«Ti trovo ogni volta più vigoroso. Sarà il giovane dio Horus a infondere in te tanto rigoglio? O l’anziano dio Amon-Ra ad accelerare la mia vecchiaia?»

«Non certo la seconda! Mi ti ricordo vecchio già da quando servivi sotto mio nonno», lo canzonò Ramses. E dopo un attimo di silenzio scoppiarono d’accordo in una grassa risata, come la si udirebbe da due appassionati amici all’osteria. Poi il religioso maculato si sbrigò a rivestire il contegno del suo ruolo.

«Ho percepito il suo richiamo. Va’. Il dio Khonsu ti aspetta».

Ramses allungò la mano per posarla su quelle ancora conserte del gran sacerdote. Era evidentemente il suo modo di congedarsi, poiché si scostò di poco al lato dell’anfitrione e si incamminò alle sue spalle, dopo aver disposto a Maimon di aspettarlo lì.

Lo shardana, ancora fermo sotto l’architrave del portone, fece due passi avanti. Non avrebbe disobbedito all’ordine di Ramses di attendere in quel punto, ma se le pesanti ante si fossero chiuse lui preferiva stare dalla parte del suo padrone. Gli fu di scarsa consolazione pensare che tra quelle mura sarebbero stati gli dèi a vegliare sul loro ospite.

Ramses attraversò l’ampio cortile che separava il primo pilone dal secondo. Passò in mezzo a due file di colonne, che a differenza delle loro gemelle più piccole ai lati del cortile, che sorreggevano la copertura dei portici, queste non sostenevano alcunché. Stavano lì come un picchetto di soldati che cerimoniavano il faraone di rientro da una vittoria bellica.

Il secondo pilone, che separava il cortile scoperto dall’ambiente chiuso, era ancora più alto del primo. Decorato con scene rituali ritraenti il faraone insieme ad alcune divinità, sciorinava otto bandiere, quattro a ogni lato della porta centrale.

Dal buio ingresso si accedeva alla grande sala ipostila. Un capolavoro di ingegneria edificatoria. Si trattava di una vastissima camera coperta, estesa tanto da poter contenere cinquanta navi in legno tra le più grandi d’Egitto. Il tetto era sorretto da centotrentaquattro colonne, alcune delle quali richiedevano sette uomini tenuti per mano e con le braccia tese per misurarne la circonferenza. Era stata realizzata da Ramses stesso, ad ampliamento dei lavori di miglioria già apportati da suo padre.

Giunto al centro dell’ipostilo, il faraone svoltò a destra, verso l’uscita laterale della sala. La lucente aria soleggiata prese il posto dell’umida ombra. In fondo al cortile costellato di magazzini, a circa duecento passi, si scorgeva il tempio di Khonsu.

Il pilone di ingresso era rivolto a sud. Il tempio del dio fanciullo dava le spalle a quello di suo padre Amon-Ra e guardava quello di sua madre Mut. Ramses non perse tempo a raggirarlo per entrarvi dal davanti. Si infilò invece in uno stretto pertugio ricavato sul lato orientale, che proprio come quello attraversato poco prima nel tempio di Amon-Ra serviva da passaggio laterale per l’ipostilo.

L’ambiente coperto si rivelò meno buio dell’altro, poiché più ristretto e con maggiori feritoie per la luce. Un passaggio al centro della parete alla destra di Ramses lo condusse direttamente nell’ambiente più profondo del tempio: il sacrario del dio Khonsu.

Era una stanza austera e poco luminosa. Soltanto quattro lampade a olio, poste agli angoli della stanza, la cui luce ara amplificata da lastre di bronzo riflettenti, illuminavano un piccolo piedistallo posto esattamente al centro. Poggiatovi su c’era il modellino di un’imbarcazione. Una “barca sacra” utilizzata per trasportare la statua della divinità fuori dal tempio nei giorni di processione. Ogni dio e dea ne aveva una nel proprio sacrario. Quella di Khonsu era chiamata “brillante d’aspetto”, ed era uno dei rarissimi oggetti in tutto l’Egitto che vantavano il privilegio di ricevere l’inchino ossequioso del faraone.

Subito dietro l’imbarcazione processionale era posizionato un consistente masso di pietra, ben lavorato e squadrato, che serviva da altare per le offerte al dio. Difronte ad esso si apriva un passaggio sulla parete, attraverso il quale si poteva bene ammirare il monumento al centro della stanza a cui conduceva. Era una massiccia edicola scolpita da un unico grande blocco di granito. In mezzo alla quale era stata ricavata una nicchia, che ospitava la statua del dio Khonsu.

Ramses prese una stuoia che era poggiata ai piedi dell’altare. La stese a terra e rivolto verso la statua del dio si inginocchiò, sedendo le natiche sui propri talloni nudi. Poggiò le mani sulle cosce e chiuse gli occhi con aria meditativa.

Si concentrò su ogni singolo dettaglio del sogno avuto qualche notte prima, e che lo aveva condotto fin lì. Immaginò di partire per la guerra di riconquista delle terre del nord, scontrandosi contro gli ittiti di Hattushili, seppure la sua fantasia mutò in una scena di festa, nella quale Ramses vide sé stesso brindare e sorridere insieme al principe ittita.

Confuso, scacciò dalla mente quei contrastanti scenari, dunque si rivolse al dio con tono autoritario, come stesse parlando a un suo pari.

«Grande e divino Khonsu, chi ti parla è tuo fratello, nato da Ra e protettore delle due terre. Sono qui per tua convocazione, e ti chiedo lumi su ciò che dovrò compiere. Mi hai mostrato lo straniero ittita, il quale da tempo ci prepariamo ad affrontare».

Poi Ramses, dopo una breve pausa, chinò la testa e parlò con tono più sommesso, confessando i suoi dubbi.

«Mi sento confuso fratello mio. Idee contrastanti mi tormentano. Sarà giusto provocare una guerra e rompere lo stato di pace in cui si culla il mio popolo? Se esiste un’altra scelta per riconquistare le provincie amorree, allora indicami la via».

Per concludere la sua intercessione, Ramses alzò la testa e guardò la statua di Khonsu con sguardo deciso.

«Dimmi quale sentiero devo imboccare: la via della pace, che conduce a una tregua con gli stranieri, o l’impervio cammino che conduce alla guerra? Indicami quale spirito incarnare: quello dell’ibis, simbolo di diplomazia, animale caro al saggio dio Toth, o quello della leonessa, simbolo di forza, animale caro alla guerriera dea Sekhmet?»

Ramses attese alcuni istanti, come se aspettasse una risposta esplicita dalla statua del dio Khonsu. Non percependo alcun segnale decise di uscire dal sacrario. Confidava che prima o poi, nel momento opportuno, il dio gli avrebbe mostrato la via. Magari con qualche segnale da interpretare, come era sempre accaduto in passato.

Il faraone riattraversò il buio ipostilo che separava il sacrario del dio dal cortile esterno, e ne uscì dalla stessa porta oltrepassata poco prima. Appena imboccò l’arso e soleggiato percorso che conduceva al grande tempio di Amon-Ra, a pochi passi dal nero pertugio appena varcato, Ramses si bloccò di colpo. Percepì un’insolita presenza nel buio della sala coperta alle sue spalle.

Quando si voltò e quella straordinaria figura gli si palesò, il faraone non ebbe alcun dubbio che si trattasse dell’attesa risposta del dio Khonsu. Chiunque sarebbe atterrito davanti a ciò che fronteggiava Ramses, ma lui sorrise, poiché ora gli era chiaro cosa dovesse fare. Ma soprattutto perché stava rincontrando una vecchia amica.

CONTINUA

RAMSES E IL PRINCIPE ROSSO CINTO di Antonio Faricelli (prima parte)

genere: AZIONE E AVVENTURA

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