SCATOLA CINESE di Maria Orsola Castelnuovo
genere: PSICOLOGICO
La chiamata dell’agenzia mi sorprese: si trattava di un’urgenza.
Ero già pronta per coricarmi e mi ci volle un momento per rimettermi in sesto tanto da uscire in modo presentabile, anche se solo per fare da baby-sitter fino a mezzanotte meno un quarto circa, a una bambina di due anni che non conoscevo. Il compenso offerto era superiore a quello abituale e tale fu il motivo che mi convinse ad accettare.
Mi recai in automobile all’indirizzo di cui avevo preso nota: Viale Rovelli 14, dalla parte opposta della città, verso la periferia, in un quartiere residenziale. Accosto al marciapiede c’era una fila di posteggi per automobili e mi fermai a quello più vicino all’abitazione.
Al primo sguardo la casa mi apparve bella e accogliente, preceduta da un cancello di ferro battuto e un ampio giardino, dove un cedro del Libano e un faggio rosso s’imponevano, sovrastando il tetto. La costruzione era tutta su un solo piano, a livello del giardino.
Notai che non c’erano imposte e la luce era schermata da scuri interni.
Mi apersero senza che sonassi il campanello: mi stavano aspettando, e fui accolta con un’amabilità che mi sembrò eccessiva.
La signora mi faceva strada movendosi a ritroso:
“Grazie per essere venuta. Abbiamo saputo solo dopo cena che due persone avevano rinunciato ai posti per un concerto che ci interessa tanto, che dava il tutto esaurito. Quando abbiamo chiamato l’agenzia per una baby-sitter, ci hanno risposto che avrebbero fatto qualche tentativo, ma a quell’ora c’erano poche speranze. Invece hanno trovato lei: che fortuna. Si accomodi, questo è il salotto, lì c’è il televisore, qui è il telecomando.
La bambina dorme. Spero che trascorrerà una buona serata”.
“Sì, rispondevo, ma la camera della bambina, dov’è? Se dovesse svegliarsi, chiamare, avere bisogno di qualche cosa…”.
“No, non si preoccupi. Dorme tranquilla. Non le darà fastidio alcuno, vedrà” mi rassicurò la signora”, dorme sempre profondamente. Capita a volte che si svegli a mezzanotte e chieda da bere. Poi si riaddormenta subito, oppure rimane sveglia e vuole che giochi con lei. Io trascorro tante delle mie notti nella sua camera così, a giocare, fino a quando la luce del giorno si fa strada tra le pieghe delle tende e allora si avvicina alla finestra, sta un attimo in contemplazione, poi ritorna a letto e si addormenta beata. A quell’ora del mattino, io non riesco più a prendere sonno e così vago per la casa a fare ordine, o rammendo le calze, o mi occupo di qualche altra attività silenziosa. A volte leggo, o risolvo rebus o cruciverba, finché la sveglia suona per mio marito e allora posso fare rumore senza tema di disturbarlo.”
Parlava, parlava, come se volesse distrarmi, ma io insistevo:
“E se appunto si dovesse svegliare?”
“Ma per mezzanotte saremo già qui, non si preoccupi.”
Alla mia ulteriore richiesta “…per sicurezza, per ogni evenienza…”, mi accompagnò nella zona notte con evidente riluttanza. La camera della bambina era la prima a destra del lungo corridoio affiancato da una sequela di porte. Ebbi subito l’impressione di una casa troppo grande per tre persone soltanto.
Socchiuse appena l’uscio e mi diede agio di sbirciare un momento: vidi un fagotto coricato nel lettino a sbarre. Aveva le gambe rannicchiate, tanto che i piedi non arrivavano a metà del letto.
La madre mi prese gentilmente per il gomito: sembrava avesse premura di allontanarmi. Io opposi resistenza e rimasi lì: volevo vedere qualche cosa di più. Sentivo il respiro tenue e allo stesso tempo un po’ roco, come se la piccola fosse raffreddata.
“Se restiamo qui, la disturbiamo e potrebbe svegliarsi”, disse richiudendo.
La mia esperienza mi aveva insegnato che i genitori d’abitudine erano ben felici di mostrare i figli, anche se addormentati, e rimanevano serafici a contemplarli nel loro sonno, per accorgersi poi che era tardi e si dovevano affrettare all’appuntamento.
Apparve il marito, portandosi appresso un alone di profumo di dopobarba.
Insieme m’incoraggiarono, direi meglio mi spinsero, verso il salotto, dove si congedarono frettolosamente. Dalla porta d’ingresso, la madre mi rivolse un ultimo sguardo che mi parve più che altro indagatore, come se avesse su di me chissà quale sospetto e non se ne andasse tranquilla.
Sedetti sulla poltrona più vicina alla porta che dava alla zona notte, per essere pronta ad intervenire se la bambina avesse dato segno d’essere sveglia.
Tutti quei preamboli mi avevano lasciato una sensazione di disagio, che mi faceva sentire lo stomaco in subbuglio. Per placare l’agitazione e anche per cercare di combattere la sonnolenza che mi stava prendendo, cercai la cucina e il frigorifero, che non mi era stato mostrato, a differenza di quanto accadeva nelle altre case.
Avevo iniziato a occuparmi di bambini quando avevo quattordici anni, il primo anno di scuola superiore, per ricavare qualche soldo da spendere a mio capriccio. Erano stati i miei zii a suggerirmelo e la proposta del primo incarico era partita proprio da loro, che avevano tre bambini piccoli. Avevo accettato, perché si trattava di cuginetti e, per così dire, giocavo in casa. Mi potevo anche permettere di dire di no, se non mi sentissi di continuare.
Invece, tutto era andato bene, la voce era circolata e mi ero fatta un bel giro di famiglie e bambini affezionati.
Col passare del tempo, potevo vantarmi di ricavare quasi uno stipendio da queste mie prestazioni: mi ero pagata l’università e due vacanze di studio all’estero. Solo, con tanto patrimonio di cultura alle spalle e con tanti curricula inviati a destra e manca, ero tuttora senza un impiego stabile. Così mi ero iscritta alla Camera di Commercio come libero professionista assistente puericultrice, poi avevo dato il mio nome ad alcune agenzie in città. Questo era diventato il mio lavoro che, a dispetto delle apparenze, non mi lasciava molto tempo libero.
Non ebbi problemi a trovare il frigorifero e pregustavo una merendina alla panna e cioccolato, o uno yogurt alla frutta, o un gelato: tutte cose da bambini, di cui sono ghiotta; o almeno del prosciutto con cui imbottirmi un panino, che speravo di trovare in uno degli armadietti.
Invece niente di tutto ciò: piuttosto, polpette già pronte, fagottini di carne trita, bocconcini d’agnello, da quanto leggevo su ogni etichetta scritta a mano e incollata sull’involucro trasparente.
Provai nello stipo di fronte: pensavo a brioches, snakes di cioccolato e nocciole, merendine di tipo diverso o il tanto amato bicchiere di cioccolato fuso; mi sarei accontentata anche di un sacchetto di patatine.
Altra delusione: mi trovavo di fronte scatole di cibo per cani delle specie più varie.
Ma dov’era il cane? Non avevo sentito abbaiare al mio arrivo. Oppure anch’esso dormiva già, come la bambina. Probabilmente lo imbottivano di cibo e lo rendevano grasso e flaccido; non era un cane da guardia, ma solo un giocattolo vivo per la piccola, che magari, pensavo adesso, aveva qualche disturbo particolare e aveva bisogno dell’animaletto per superare le sue difficoltà. Avevo imparato infatti che un cucciolo domestico può essere una terapia efficace contro disturbi psicosomatici dei bambini; dalle esitazioni e perplessità della madre, deducevo che ci doveva essere in effetti qualche problema.
Così ragionavo mentre, tornata alla mia poltrona, sentivo che il sonno mi stava prendendo di nuovo. Guardai l’orologio a pendolo che avevo proprio di fronte e segnava le nove appena passate: tempo, ne avevo ancora prima di potere rientrare a casa e concedermi il meritato sonno.
Pfui! Mi accorgevo d’essere proprio stanca, anche perché pensavo per frasi fatte ed era questo un procedere che detestavo.
Uno sbadiglio dopo l’altro mi avvertirono che sarei crollata, se non avessi escogitato qualche espediente. Allungai il braccio verso il portariviste carico; curiosai tra le varie testate e mi colpì un opuscolo, che portava sul frontespizio l’immagine di quello che mi parve illustrare l’idea che ci facciamo di solito di un coyote, con le fauci spalancate verso la luna. Il titolo precisava “Licantropia: leggenda o sindrome trasfigurata?”
All’interno c’era un foglietto ripiegato. Lo aprii: si trattava della fotocopia di un articolo, pertinente il tema dell’opuscolo; il titolo era “Bambini con la sindrome del lupo mannaro”.
Lessi le prime due righe e mi convinsi che si trattava di una bufala, perché il testo era scorretto, scritto senza cura:
“La licantropia esiste ma non centra (sic) la luna, e non vanno (chi?) in giro a mordere le persone. Ecco le foto dei due bambini asiatici che ne sono affetti.”
Chiusi il tutto e lo rimisi al suo posto.
In quel momento mi parve di sentire poco lontano il rumore di un motore che qualcuno tentava d’avviare senza successo. Ecco, poteva essere un buon criterio per rimanere sveglia: starmene in piedi alla finestra a curiosare.
Scostai le tende dai vetri verso la strada: oltre la recinzione del giardino, c’era la mia automobile dove l’avevo posteggiata; proprio dietro era ferma una Cadillac nera, probabilmente noleggiata: vi stavano attorno in contemplazione alcuni ragazzi con abito e cravatta, certo studenti che festeggiavano la laurea conseguita nel pomeriggio e ancora non erano rientrati.
Avevano preso la macchina per darsi delle arie e fare baldoria. Alcuni bevevano forse birra dalle lattine, altri guardavano la luna che era quasi a metà del suo percorso. A turno si mettevano al posto di guida e davano virate alla chiave d’accensione, provocando solo sfrigolii che si spegnevano dopo pochi secondi.
Un furgoncino da meccanico arrivò a tutta velocità e l’autista, sceso d’un balzo, collegò le pinze, come quando si cerca di ricaricare una batteria, ma non ebbe successo. Pensai che avessero fatto una scommessa sulla riuscita dell’operazione, perché uno dei ragazzi, che forse l’aveva persa, salì sul tetto della macchina, si accovacciò a quattro zampe e prese a ululare alla luna.
La circostanza mi fece rabbrividire. Ero certo suggestionata dagli stampati che avevo visto poco prima e cercai di abbandonare il pensiero, allontanandomi dalla finestra.
Mi aspettavo di sentire prima o poi le sirene delle forze dell’ordine, perché i ragazzi là fuori avevano incominciato a fare baccano e stavano disturbando le persone delle abitazioni vicine, tutte case singole con discreto parco. Non riuscivo a distogliere la mente da loro e in particolare da quello che ululava sopra il tetto della macchina; da qui non lo sentivo più, nel trambusto di voci e rumori sovrapposti, sempre col ronzio del motore che ancora tentavano di avviare.
Dovevo distrarmi in qualche modo. Mi avvicinai alla finestra che dava verso l’interno, sullo splendido giardino: curatissimo, con erba rasata alla perfezione, fiori e arbusti dalla sagoma perfetta.
In lontananza, un pergolato proteggeva un tavolo e quattro sedie, che luccicavano nel loro biancore, al chiaro della luna che penetrava i suoi raggi tra le foglie.
Quell’angolo mi piacque particolarmente; pensai che avrei potuto trascorrervi favolosi pomeriggi, se ne avessi avuto uno simile. Chissà che uso ne facevano? Se amavano i concerti, forse invitavano gruppi musicali qui nel loro giardino e li ascoltavano con gli amici: c’era posto a sufficienza per una nutrita platea di pubblico. Lo spazio verde continuava lungo tutto il perimetro della casa e oltre. Era molto più ampio di quanto avessi immaginato all’arrivo: dalla camera attigua probabilmente avrei visto qualche cosa di più; ci si doveva accedere, pensai, dalla porta dirimpetto alla camera della bambina.
Mi avviai verso il corridoio di notte e tentai la maniglia di quella porta: cedette subito e quindi non ebbi scrupolo ad entrare, ma rimasi al momento perplessa. Non sapevo dove fosse l’interruttore e non avevo acceso la luce. Tuttavia, un chiarore deciso arrivava dalla parte opposta a quella dove mi trovavo.
Mi accorsi che si trattava di un salone immenso: doveva occupare tutta la lunghezza della zona notte della casa, dalla parte sul giardino. La parete di fronte alla porta era rivestita di tendaggi, che ritenni proteggessero immense vetrate. Forse usavano questo spazio per i concerti al riparo, quando le condizioni atmosferiche non permettevano di rimanere nel parco.
Mossi qualche passo all’interno del salone e m’accorsi di calpestare qualche cosa di morbido: il pavimento era rivestito d’erba. Non riuscivo a capire. Provai a toccare e dovetti constatare che in realtà si trattava di zolle sintetiche. Nell’insieme era tuttavia gradevole e riflettei sul fatto che i signori volessero ricreare in uno spazio chiuso l’ambiente di cui disponevano all’aperto.
E la luce dal fondo della stanza? Levai le scarpe, per timore di rovinare quel soffice tappeto e percorsi tutta la lunghezza del locale, con la gradita sensazione d’essere accarezzata da mille minuscole mani che raggiungevano le mie caviglie. In fondo alla stanza c’era una vasca rotonda piena d’acqua, che arrivava a filo del pavimento. Era abbastanza vasta da sembrare un piccolo lago o una bolla montana d’abbeveraggio, così circondata dall’erba. Sul bordo c’erano, a distanze irregolari, alcuni massi petrosi che ritenni ingombranti; mi sembrava che guastassero l’armonia e l’omogeneità dell’insieme.
Mi appoggiai con tutto il corpo a uno di essi che mi arrivava alle spalle e guardai in alto; lì sopra c’era una cupola vetrata delle medesime dimensioni della piscina e guardai su nel cielo: vidi stelle a profusione e mi sembrò d’individuare Cassiopea, ma forse pensavo una sciocchezza, dal momento che la sola costellazione che distinguo con sicurezza è l’Orsa Maggiore.
Proprio in quel momento mi accorsi che la luna stava raggiungendo il centro della cupola.
Che ora s’era fatta? Ritornai in fretta nel salotto per controllare l’orologio. Sedetti sulla solita poltrona e fissai lo sguardo sul quadrante del pendolo che avevo di fronte: la lancetta dei minuti stava per raggiungere l’altra sulle dodici. E se la bambina si fosse svegliata? Mi avevano assicurato che sarebbero rientrati prima, quindi potevo stare tranquilla. Ma intanto non arrivavano. Perché? Cominciai ad agitarmi, a sentirmi insicura del fatto mio. Non mi era mai successo: ormai sapevo bene come comportarmi coi bambini, anche quando desti; anzi, soprattutto allora. A che cosa era dovuto il mio insolito sgomento? Intanto continuavo a fissare la lancetta grande che si moveva piano, ma inesorabilmente.
Mi sovvenne un pensiero: la calotta sopra la piscina era stata studiata in modo che la luna, quando piena, vi arrivasse al centro proprio a mezzanotte. Ma quindi tutta la casa era stata progettata partendo da quel punto. Che strana gente, pensai, mentre le due lancette si sovrapponevano, tanto da sembrare una sola.
Fu allora, che un urlo, non particolarmente forte, ma nitido e modulato, mi arrivò all’orecchio: proveniva dalla camera della bambina.
“Ecco, s’è svegliata. Eccola qui”, pensai.
Intanto mi dirigevo verso la camera e aprivo l’uscio, per rimanere all’istante pietrificata sulla soglia. L’immagine che avevo davanti non poteva essere vera: un fisico da bambina di due anni, sovrastato da un viso completamente ricoperto da lunghi peli. Era in piedi davanti a me che le ostacolavo l’uscita, aveva di certo scavalcato le sbarre del lettino, mi scansò, forse neppure mi aveva vista, e si diresse senza indugio alla stanza di fronte, la percorse nella sua lunghezza, raggiunse la piscina, salì con disinvoltura ammirevole su uno dei blocchi di pietra, si accovacciò e prese ad ululare, direi, dolcemente, verso l’astro che era nel pieno del suo fulgore. L’avevo seguita per vedere che cosa facesse ed ero inebetita, esterrefatta, non credevo, non era possibile. Non sapevo come reagire.
Tornai tremando in salotto per vedere di nuovo l’ora, scongiurando che i genitori rientrassero. Sedetti sulla poltrona e la mente continuava ad essere fissa a quell’urlo chiaro e però contenuto: sembrava una preghiera, o un canto, o una litania rivolta a quella che era in questo momento la dominatrice del cielo.
Mi sentivo stordita, poi l’urlo a poco a poco si trasformò e divenne chiaramente il suono del carillon della porta d’ingresso.
Di colpo uscii dal torpore e quando fui del tutto sveglia respirai di sollievo: era stato un sogno. Mi detti una mossa e mi alzai, corsi al videocitofono e vidi i signori che suonavano di nuovo. Premetti il pulsante d’apertura, sentii la macchina che entrava, una portiera che si chiudeva e mi affacciai.
“Ma che cos’è successo?” la signora era concitata. “Perché non rispondeva? Nella fretta della partenza improvvisa abbiamo dimenticato le chiavi del cancello. Da cinque minuti eravamo là fuori e non ha risposto neppure al telefono. Stavo per chiamare i carabinieri e forzare l’ingresso”.
“Mi ero addormentata, mi scusi. Sono desolata.” ero così dispiaciuta che mi sarei messa a piangere “Signora, mi scusi”.
E la seguivo mentre si dirigeva verso la camera della bambina, dopo essersi liberata in fretta e furia di giacca e borsetta.
“Ohimè” pensavo intanto. “Ho dormito. E ho avuto anche un terribile incubo. Com’è potuto accadere? È la prima volta in tutta la mia carriera. Speriamo che non segnino una nota negativa sul modulo dell’agenzia. Ma là mi conoscono bene. Dirò che è perché non ho trovato niente da mangiare: il cibo di solito mi aiuta a rimanere sveglia”.
La signora mi respingeva e tornai in salotto.
Sentii il signore che chiudeva la porta d’ingresso: avremmo regolato il compenso e poi me ne sarei andata, finalmente.
Non avevo più neppure sonno e avrei guidato con tranquillità fino a casa, dal momento che mi ero fatta una bella dormita. E poi, quando mi ero addormentata? I ragazzi con la Cadillac facevano anche loro parte del sogno? Guardai verso la poltrona dov’ero stata seduta; a terra sul tappeto c’era un opuscolo e il titolo si leggeva distintamente: “Licantropia…”
Certo tutto era nato da lì.
Guardai l’orologio: la lancetta dei minuti stava per raggiungere quella piccola e sovrapporsi ad essa sulle dodici.
Il signore mi vide lì in piedi nel salotto e mi si avvicinò quasi di corsa:
“Tenga, ecco, tenga, grazie, buonasera, buonasera.”
Con una mano mi spingeva verso l’uscita, con l’altra mi ficcava in mano alcune banconote; intanto volgeva a scatti il capo nella direzione della stanza della figlioletta, dove immaginava dovesse trovarsi la moglie.
Ebbi l’agio di sbirciare ancora l’orologio; proprio in quell’istante le lancette si sovrapposero ed ecco che un urlo, non particolarmente forte, ma nitido e modulato, mi arrivò all’orecchio: proveniva dalla camera della bambina.
Il padre, con aria angosciata, cercava di richiudere l’ingresso alle mie spalle, mentre io riuscivo a vedere che la porta della stanza di fronte a quella della piccola si apriva e la luce del corridoio illuminava un triangolo di pavimento, ricoperto d’erba sintetica.
Fu per me un colpo basso; mi sentii lo stomaco sottosopra e durai fatica a camminare dritta fino alla macchina.
La Cadillac era là, abbandonata; quindi, m’ero addormentata dopo avere visto il ragazzo ululare alla luna e dopo avere letto l’opuscolo.
Impiegai un po’di tempo a trovare la chiave, poi salii in macchina e diedi un’occhiata alle banconote che ancora stringevo in pugno: erano quattro biglietti da cento euro piegati a metà, una cifra esagerata. Sembrava un modo per tenermi buona, ma per quale motivo?
Feci per avviare il motore, ma senza successo. Provai e riprovai più volte, si udiva uno sfrigolio e poi più nulla. Non mi sentivo di chiamare i soccorsi: per la Cadillac non avevano funzionato.
Altrove, in una circostanza simile, sarei rientrata nella casa dove avevo prestato servizio e avrei chiesto aiuto in qualche modo. Una volta m’era accaduto che, per un caso analogo, i signori mi ospitassero per la notte e chiamassero il loro meccanico al mattino. Ma qui, non l’avrei mai fatto. Anzi, se m’avessero chiamata ancora dall’agenzia per questo incarico, non avrei accettato, fosse l’ultimo lavoro sulla terra; piuttosto sarei morta di fame.
Pensai che fossi stata, probabilmente, l’ennesima baby-sitter a venire qui; dovevano per forza cambiare ogni volta.
Che disastro, anche per loro stessi. Per fortuna, almeno secondo quanto davano a vedere, dovevano godere d’una buona situazione economica.
Riprovai ad accendere il motore e questa volta il rumore fu diverso, a piccoli sussulti, quasi armonici, che si fecero sempre più distinti; quando furono del tutto chiari, mi resi conto che si trattava della suoneria della mia sveglia che avevo puntato alle quattro e mezza.
Rimasi per un attimo coricata a fare ordine nella mia testa: dunque non c’era stata chiamata alcuna dall’agenzia; invece, mi ero coricata e avevo trascorso comodamente la notte nel mio letto; m’ero sognata tutto, due incubi uno inserito nell’altro, come una scatola cinese.
C’era da impazzire.
Mi sovvenni che la sera prima ero rimasta a cena dai miei clienti: ogni giorno, all’una, andavo a prendere Matteo e Michele all’uscita della scuola, li accompagnavo a casa e scaldavo per loro il cibo precotto. Li aiutavo nei compiti, li accompagnavo in piscina o al parco, o escogitavo per loro qualche passatempo domestico, fino alle cinque, quando i genitori rientravano.
Ma il giorno appena passato il marito sarebbe arrivato tardi e la moglie m’aveva chiesto di rimanere a farle compagnia, mentre i figli erano davanti al televisore: avrei cenato con loro e si mise infatti a cucinare. Era stata una cena gustosa, ma pesante e ne avevo pagate le conseguenze.
Ma ora dovevo alzarmi: la mamma della piccola Matilde iniziava il turno alle cinque in ospedale, non avevo tempo da perdere. Avrei dormito ancora qualche ora da loro sul divano: la bambina non si svegliava prima delle nove.
Mi preparai in fretta e uscii a piedi, dal momento che la casa da raggiungere era poco distante. Per via, mi fermai come d’abitudine per un’Ave Maria alla chiesetta della Madonna dei Poveri, presso il convento dei nostri frati. La porta laterale che dava adito a quella cappella, poco più che una nicchia, era sempre aperta, anche per eventuali passanti notturni o per chi iniziava presto il turno di lavoro. Inginocchiata davanti all’immagine, raccolsi un attimo le idee e cercai di ricuperare le forze necessarie ad affrontare la giornata.
Mi accingevo ad accendere un cero e pregare d’avere la protezione della Vergine in ogni occasione di bisogno.
Aprii il portafoglio per cercarvi le monete necessarie e mi prese una vertigine furibonda. Mi aggrappai all’inginocchiatoio, volsi gli occhi alla Madonna e pregai che non fosse vero, che fosse anche questo un sogno, pregavo d’aver visto male.
Riabbassai gli occhi al portafoglio: le quattro banconote da cento euro erano lì, piegate a metà, dove le avevo riposte.
M’inginocchiai di nuovo, perché ero troppo debole per reggermi in piedi, le gambe mi cedevano e ancora lo stomaco turbinava con un fastidio insopportabile.
Poi, la mente ebbe il sopravvento: dovevo andare al lavoro, la mamma di Matilde sarebbe uscita tra poco.
Partii decisa a non farmi più sopraffare da pensiero alcuno e arrivai appena in tempo, imbattendomi nella signora che era già sulla porta. Mi guardò in modo strano, quasi scrutandomi, poi se ne andò affidandomi la casa, come ogni mattina a settimane alterne. Alle nove e mezza avrei accompagnato Matilde alla scuola infantile e sarei rientrata a casa per sbrigare le mie faccende, fare la spesa, fare i conti, prepararmi un opportuno pasto di mezzogiorno, che non lasciasse strascichi a sorpresa.
Prima di riaddormentarmi sul divano nella cameretta, accanto al letto di Matilde, mi sovvenni che nei giorni precedenti avevo fatto dei servizi imprevisti e avevo guadagnato dei soldi extra, non ricordavo quanti e non ricordavo come li avessi riposti; potevano essere quelle banconote: forse il ricordo si era fermato nel mio subconscio e le aveva attribuite al misterioso padre della misteriosa bambina del mio sogno e poi le avevo riviste nella realtà, aprendo il portafoglio per cercare la moneta per il cero.
Ecco la spiegazione.
Nella mattinata, tutto si svolse come previsto; a mezzogiorno ero a tavola a gustarmi un delizioso piatto di maccheroni, appena conditi con olio e basilico.
Mi irritai, sentendo suonare il campanello. A quell’ora. Quale mancanza di tatto! Mi alzai contro voglia da tavola e presi il citofono.
“Sono il meccanico” rispose una voce nota. “Le ho portato la macchina”.
“La macchina?”
Cadevo dalle nuvole.
“Sì, mi ha detto lei di portarla a mezzogiorno. Era la batteria scarica: per quello ieri sera non partiva.”
“Ieri sera?”
Non mi raccapezzavo più, l’angoscia mi attanagliava la gola, stavo per emettere un urlo. Il mio tono doveva essere insieme stupito e terrorizzato, perché l’uomo, che mi conosceva da tempo ed era il manutentore ufficiale della mia piccola automobile, con tutta la pazienza cercò di spiegarmi:
“Sì, ieri sera, stamattina. Insomma, dopo mezzanotte quando sono venuto in viale Rovelli 14 a ricuperare la macchina che non partiva. Oltre alla batteria, le ho cambiato anche le candele e ho controllato i livelli. Adesso è a posto, può stare sicura.”
Probabilmente caddi svenuta, o qualche cosa del genere, perché mi sono risvegliata, credo qualche ora fa, in questo letto a sbarre tutto bianco, in questa camera altrettanto bianca, che ha le inferriate alla finestra.
Una signora ugualmente bianca, molto gentile e paziente, mi ha invitata a scrivere quello che ricordo, a proposito del sogno di cui continuo a parlare.
Ma io ho parlato di un sogno? Non lo so. Mi sembra di non avere più parlato con nessuno da quando ho risposto al citofono. Ora ricordo che non ho neppure finito i maccheroni e mi chiedo che fine abbiano fatto.
Credo ormai d’avere scritto tutto, su questi bellissimi fogli bianchi che la signora bianca mi ha messo a disposizione. Solo la penna è trasparente con un’anima nera e scrive blu, intaccando quel candore uniforme.
Non so a chi e quando dovrò consegnare il mio lavoro; forse la stessa signora verrà a ritirarlo. Vedo infatti che la porta si sta aprendo e potrebbe appunto essere lei. Sono molto orgogliosa di ciò che ho scritto e spero che le piacerà, che ne abbia soddisfazione, dal momento che si è dimostrata cortese, quasi amica.
La porta si apre del tutto e non è la signora che aspettavo: appare mia sorella. Ma perché è qui? Chi l’ha chiamata?
Appena mi vede, mi corre appresso, s’inginocchia di fianco al mio letto, vi appoggia il volto e scoppia in singhiozzi, a piccoli sussulti, quasi armonici, che si fanno sempre più distinti.
Quando diventano del tutto chiari, mi rendo conto che si tratta della suoneria della mia sveglia, che ho puntato alle sette.
Oh, mio Dio, altri incubi, altri sogni in scatola. Ma ora basta.
Raccolgo di nuovo le idee, cerco di far chiarezza nella mia testa scombussolata.
Già, ora ricordo: mi alzo a quest’ora per avere il tempo di prepararmi a dovere.
Tra poco arriveranno le mie amiche a darmi una mano: parrucchiera, estetista, sarta, tutte attorno a me per acconciarmi nel modo più adatto a essere presentata al mio sposo che mi attenderà all’altare.
Sì, oggi è il giorno del mio matrimonio e ti prego, Signore, ti prego, fa’ che questo non sia un sogno.
SCATOLA CINESE di Maria Orsola Castelnuovo
genere: PSICOLOGICO