SOLO UNA STILLA D’ACQUA di Edoardo Savino

Quando il parrucchiere prese in mano la sua testa e cominciò a lavarle i capelli con delicatezza, massaggiandole la cute, i suoi occhi erano chiusi, e godeva della sua piena fiducia, era proprio la sua vita che teneva fra le mani. Avrebbe anche potuto staccarla, semplicemente usando le spade con cui si apprestava a tagliarle le ciocche. Avrebbe potuto stringere la sua mano attorno al collo di Lily castrandole la bocca con l’altra, impedendole di respirare.

Lei avrebbe continuato ad urlare, la sua voce sarebbe uscita attraverso le sue dita, soffiando tra le ossa. Avrebbe sentito solamente un sussurro provenire dalla mano. A quel punto non avrebbe potuto fare più nulla, solamente ucciderla per poi sbarazzarsi del corpo.

Dopo averle sciacquato per bene la cute, l’uomo corse verso il piccolo ripostiglio dove teneva la biancheria e tornò da lei con un lenzuolo pulito che, ancora rigido di stiratura, attorno al suo collo fece un suono come di un tuono.

Da Brentano avevano una pessima abitudine: usare lenzuoli sintetici e a basso prezzo che ogni volta le graffiavano il collo, rimanendovi appoggiati tanto a lungo quanto richiedeva la realizzazione del suo taglio preferito.

“Un momento solo,” disse l’uomo, allontanandosi quel tanto che bastava ad afferrare il telefono e rispondere.

Fu in quel momento che Lily si riprese da quella fantasticheria ritornando mortale.

Attraverso lo specchio che la rifletteva poté notare il pulsare della vena sulla sua tempia. A battere il ritmo era la base verdastra di quel tubicino che, nel suo percorso lungo l’attaccatura dei capelli, le faceva sempre venire in mente il Fiume Azzurro sulle carte geografiche.

Lily si fermò e frugò nelle tasche della blusa in cerca di una delle sue pasticche, rendendosi conto che la sua mente stava divagando ancora incontrollata e che era bene per lei assumere una piccola dose magica che la calmasse.

Con un ampio e generoso gesto, l’uomo tornò alle sue spalle e dispose un piatto con le forbici davanti alla donna imbavagliata, che ora chinava in avanti le spalle arrendendosi alle sue mani.

 Il braccio destro prese a lavorare in fretta, afferrando ciocche lunghe e slavate, estirpandole definitivamente da quella sua testa. In poco meno di un’ora e mezza, da quell’ammasso selvatico che erano diventati i suoi capelli emerse un caschetto fatto e finito.

Osservando il risultato, Lily rimase incredula che potesse esserci effettivamente incastonato il suo viso alla base di quella frangia. Sembrava come tagliare la sua fronte in due parti distinte; il viso scavato e avvizzito, invecchiato improvvisamente come se l’ultima volta che si fosse vista riflessa in uno specchio risalisse all’adolescenza, e quei capelli precisi, caldi d’asciugatura, e sorprendentemente ancora biondi.

Immaginò che la vecchiaia per lei era cominciata dal progressivo incavarsi delle guance e l’ingrossamento delle gengive. Non solo la sua pelle giovane era ormai invecchiata, i suoi occhi limpidi si erano spenti da tempo e le sue grandi spalle incurvate. Il processo di invecchiamento per Lily lo si poteva notare attraverso più fattori estetici, il tempo cominciava davvero a passare anche per lei.

Poi fece tacere quel pensiero come avrebbe potuto spegnere la radio che trasmettesse i clamori di una partita.

Eccolo che la salutava nuovamente, e lei rispose con un piccolo cenno, timido come se stesse spazzando qualcosa nell’aria di fronte a sé.

Diede ai suoi capelli una lisciata proforma, avviandosi sotto al portico infestato dal caprifoglio. Poi il volto di quell’uomo e le luci del salone si spensero.

Sapeva benissimo di avere ancora gli occhi fissi su quel viso, così come sapeva che, d’altra parte lui non vedeva l’ora di liberarsi di quell’ultima testa da aggiustare. Quindi tenne gli occhi aperti sotto il palmo della mano fingendo disperazione, scoprendoli improvvisamente al suono della sveglia che segnava la fine di quella giornata di lavoro.

Ad Amsterdam i parrucchieri chiudevano alle diciassette in punto, nonostante ciò, il buio era già calato da un pezzo e la sua voglia di progettare impegni per quel tempo che rimaneva prima delle ventidue, improvvisamente era svanita.

E così uscì nel retro e si accese una sigaretta, percependo quel cortile come il punto fermo di un mondo che girava.

Mentre camminava verso casa, Lily guardava dritto davanti a sé. Senza notare la sua ombra che i lampioni lungo il Torontobrug si passavano l’un l’altro, l’ombra la cui testa spariva a tratti per poi comparire appiccicata al lampione successivo, in un movimento bizzarro.

Lily Anne Browne a casa non si lamentava, non litigava, non rideva né piangeva. La bocca era costantemente addestrata a un’espressione che non nascondeva nulla e nulla rivelava.

Il suo volto, dopo quasi dieci anni di matrimonio, aveva preso quella serietà espressiva che è tipica dell’essere umano che non si aspetta nulla di più dalla vita e che raggiunto quel controllo emotivo, lo mantiene per tenersi a riparo dai pericoli.

Come esistono mostruosità fisiche, può darsi che esistano mostruosità mentali o psichiche congenite. Come un bambino può nascere senza un braccio, così un altro può venire al mondo senza bontà o senza un potenziale.

Lily venne al mondo senza il potenziale della fantasia e dell’immaginazione, ma non priva di intenzioni. Purché portassero nel loro compimento un certo vantaggio per ella stessa. Dieci anni prima, la sua mente proiettò nel futuro l’intenzione che aveva concepito come la lama di una torcia in una stanza buia. Ad essere senza luce era il suo destino in Irlanda. Così aveva scovato tra i tanti giovinetti che frequentavano la sua scuola uno in particolare, John, privo di intenzioni e perciò facilmente malleabile.

Ci sono persone che emanano il proprio destino, buono o cattivo che sia.

John Hood era di origini inglesi e trascorse tutta l’infanzia, e parte della sua adolescenza, a Brè prima di conoscere Lily, con la quale si sposò nel giro di poco in Olanda.

Il suo peccato era sempre stato quello di credere prima di tutto nel whiskey e dopo, per mantenere un certo filone con la realtà, aver assoluta necessità di una donna cui affidare i postumi dell’alcol. Una donna cui affidare le sue esigenze. Una donna pulita e tranquilla, solare quanto basta e che lo tenesse al riparo dei pericoli. Lily, incarnava tutte queste qualità, inoltre era stata proprio lei a corteggiarlo nei pub dove si intrufolava per bere.

Per questo motivo, John aveva santificato la parola irlandese uisquebaugh, whisky acqua di vita, e infatti lo era.

Dopo dieci anni, trascorsi insieme in un paese straniero, avevano semplicemente smesso di amarsi: prima Lily e poi lui.

Forse era stata la professione di John e la mancanza di un figlio ad esaurirli, fin dal principio, quando abitavano nell’appartamento mansardato a Waterwijk: dopo il lavoro al macello a John non rimaneva l’energia necessaria ad amare una donna.

Dicono che sia pericoloso fare domande a un irlandese perché poi quello ti risponde, così, ad ogni domanda che rivolgeva a sua moglie, la risposta era sempre inadeguata alle sue aspettative, soprattutto perché quella donna in realtà non era mai davvero soddisfatta. Non c’era quasi niente che lui potesse fare, se non ignorarla.

Quella mattina l’orologio della cucina segnava le sette in punto quando Lily, uscendo dal bagno, si mise a preparare il caffè.

Ora c’era John al posto suo in quello stanzino, e l’acqua scorreva costantemente con un rumore confuso, come il mormorio di persone eccitate ma con discrezione, monotono, un bisbigliare costante. Tanto che per un istante le venne alla mente il dubbio che fosse morto stecchito sotto la doccia, e non andò a controllare, si limitò procedendo nella preparazione del caffè. Annusando nell’aria un profumo nuovo, lucido e nero.

La seconda reazione di Lily fu quella di un lieve allarme: c’era qualcosa di sinistro nel tempo impiegato da lui per vestirsi, nel suo ritardo in cucina, nei suoi abiti pronti sulla panca ancora vuoti.

Con un vago sorriso prima, e con una sorta di rigida cautela nel passo breve, si diresse verso la camera da letto sedendosi tranquillamente sulla poltrona, accanto alla piccola finestra ad abbaino.

L’espressione di assorta contentezza di lei, non si alterò minimamente quando John comparve sull’uscio.

Lily si alzò indifferente, le sue speranze distrutte, sentendosi ora vagamente disturbata da quanto osservava. John portava un garofano rosso all’occhiello, gli domandò come mai lo portasse, e lui rispose:

“È una prerogativa del boia. Un tempo il carnefice lo stringeva fra i denti prima di far partire la ghigliottina.”

Allora le si rivoltarono le budella, ma non lo diede a vedere. Limitandosi a sorridere nascondendo mani e gambe mentre le tremavano.

“Tempo fa vidi una povera mucca tremare sulle quattro zampe come stai facendo tu ora. Può essere che la tragedia della bestia sia di due gambe più atroce di quella umana?” disse il marito senza guardare Lily.

E a lei cadde l’occhio sui suoi piedi piccoli e grassocci, sembravano monchi, con l’arco plantare così carnoso da farli quasi assomigliare a degli zoccoletti.

Nella sua mente non trovò il coraggio né la spinta necessaria per ribattere. Solo un ricordo affiorò: sua zia Fannit e sua madre Bairbre cercavano sempre ingrassarla durante i periodi di vacanza, ma lei restava così magra tz-tz-tz! Cosa avrebbero pensato oggi, vedendo quelle caviglie gonfie e quel viso scavato allo stesso tempo.

Nella sua mente, per scacciare quell’immagine del marito mentre da Holleman affilava i coltelli come un boia, pensò all’unico viaggio che aveva fatto in vita sua, a Jerèz, in Spagna. E pensò a Carmen con un fiore in bocca.

“Perle! Vanno bene con tutto!” esclamò frugando nel cassetto. E proseguì aggiustandosi per andare al lavoro.

Osservandola, John pensò che fosse una donna dannata dalla cintola in giù: senza caviglie. Ma non disse niente limitandosi a sorridere, finì di prepararsi e sorbì il suo caffè nero.

A tratti si sentì come un vitellino tenuto alla cavezza da quella donna, poi riprese ragionando come di consueto, poteva passare ancora qualche tempo limitandosi a vivere, finché il destino non gli avesse fatto cadere in grembo le istruzioni opportune.

“Gli irlandesi possono essere ordinari a volte, ma hanno fantasia, questo sì.” Ripeteva spesso Van Mossel, l’ispettore del macello, e che stimava John in un certo senso.

 “Misericordia! Fantasia data da un’infelicità creatrice!” e scoppiava in una risata inopportuna quando lo beccava intento a stringere il garofano fra i denti, prima di colpire l’ennesima carcassa.

Quella mattina, attorno alla sua testa c’era un chiarore, come un’aureola, come se la sua vita si stesse adagiando entro di lui alternando il suo stato di sonnambulo che viveva in due mondi.

Dopo che fu uscito, Lily rimase sola. Carpì qualche goccia da una boccetta di profumo e si passò il piumino della cipria sul mento e sulle guance, tracciando sulla bocca una linea di rossetto, il labbro superiore compresso sull’inferiore, così che il loro fiorire improvviso paresse una benedizione della natura.

Sapeva che il suo viso non poteva fare più a meno di un trucco leggero, e accettava questo rituale, benché originato non certo dalla sua volontà.

Sorrise alla sua immagine riflessa nello specchio del trucco e uscì di casa.

Ammise di averci pensato; voleva un figlio.

Diede un pizzicotto alla sua guancia ricordando a sé stessa di non essere sciocca; aveva ormai trentacinque anni.

Scendendo in strada, Lily era desiderosa di respirare, non saltò sul tram numero quattro ma procedette a piedi senza una direzione precisa, e con istinto arrivò allo studio notarile Barrel West dove era impiegata.

I rumori per strada arrivavano con la brezza, talvolta più forti, talvolta più leggeri. Era cresciuta in un posto altrettanto infestato dal vento, nonostante ciò, aveva sempre sofferto quella condizione metereologica. Anche nel suo ufficio, posto al primo piano di una vecchia casa olandese in centro, il vento soffiava attraverso gli spiragli di tutte le porte e di tutte le finestre.

Quando mise piede nell’ufficio, Lily si riteneva del tutto giustificata nel togliere l’enorme sciarpa di tartan MacGill Clan e soffiare il suo naso arrossato, riappropriandosi delle sue fattezze femminili finora nascoste, oltre che del suo temperamento energico.

“Buongiorno, Miss Browne”, disse la collega con cui divideva la scrivania.

“’Giorno, Els” rispose Lily.

I suoi malevoli occhi castani ammiccarono pensosamente dietro le lenti degli occhiali. Confermava ciò che aveva spesso sentito dire a proposito degli olandesi, e cioè che conservavano una tradizionale curiosità e un giudizio tagliente, a volte confuso per schiettezza, celato dalle buone maniere.

Lily si liberò lentamente della cupaggine che l’aveva turbata e prima di commettere passi falsi confessando, uscì a prendere le pratiche da sbrigare quel giorno e, quando uscì per prendere l’ascensore, la sua espressione era di nuovo sveglia e gradevole.

Lily si immerse nel lavoro fino alla pausa pranzo, quando entrò nel refettorio per sedersi al solito angolo, tra il bancone delle pietanze salate e delicatessen.

Vide Els che le faceva segno dal medesimo angolo, non c’era tregua nella velocità di quello sguardo, interminabile e irriverente. Nel suo intento, curioso e amichevole, le aveva estratto la furia precisa dal cervello. Sul viso di Lily c’era l’espressione tesa di un organismo che sopravviveva in un elemento estraneo.

Appena prese posto, dal fondo della stanza comparve anche un’altra delle impiegate che abitualmente trascorreva la pausa pranzo assieme a loro, Shavit. Mutilata della gamba destra, pagaiava sé stessa con le sue lunghe braccia, in un’andatura che era più come cadere e riacchiapparsi che come camminare.

In ogni caso arrivò al tavolo e durante la durata del suo tragitto, Lily pregò che qualcosa le succedesse, che potesse tenere occupati tutti i presenti nell’aiutarla a rialzarsi e pulire le ferite che le sarebbero occorse, sbattendo contro ogni spigolo di tutti i tavoli attorno.

Le due donne la interrogarono con ogni tipo di domanda, ma lei non cedette. Shavit adottò una tattica particolare: mentre sgranocchiava il suo kipcorn, concedendo così delle pause tra una domanda e l’altra, dando a Lily il tempo di cedere, tenendo le mani come fosse un cane ritto sulle zampe posteriori, sollevava a tratti i suoi occhi malinconici facendo intendere che anche a lei era accaduta una faccenda simile in passato. E ammiccando vivace disse: “Perché mai ogni volta deve essere così difficile per noi?”

“Nevrastenia,” disse Lily ridendo.

Lei scosse il capo.

“No, non sei nevrastenica Lily cara”.

“Oh, è così ingiusto. Non devi essere paziente” aggiunse Els.

“Gli irlandesi sono impazienti per natura” disse Lily con sarcasmo e bevve un sorso di acqua.

Entrambe le donne, dopo innumerevoli tentativi di cavarle una parola di bocca rimasero in silenzio. Come certi fiori che, non appena raggiungono il loro tipo specifico, cadono immediatamente in sfacelo.

Il sottofondo, per tutto il tempo rimanente della loro pausa, fu il crunch prodotto dalle loro bocce mentre masticavano il resto del pranzo. Entrambe avevano retto il colpo come si addice a due signore per bene, muovendo verso Lily per reazione al suo ritrarsi.

Si alzarono dal tavolo, controllando che le gonne fossero ancora in ordine, e si avviarono al primo piano di ritorno in ufficio.

Quella stanza, negli ultimi dieci anni aveva rappresentato per Lily l’ambiente dove stava racchiusa la quotidianità.

Tabulava con precisione le tese possibilità del cambiamento, ben sapendo che la sua bravura di impiegata non era così sbalorditiva, e con ogni probabilità sarebbe finita a fare lo stesso lavoro magari in un’altra zona di Amsterdam.

La cosa più saggia, in quella stagione della sua esistenza era rimanere incollata a quella sedia. Le sue gambe avevano la tensione specializzata di chi lavora a scadenze; nei suoi polsi c’era qualcosa della macchina da scrivere, nella sua andatura la sicurezza di chi ogni giorno compie lo stesso tragitto.

Dopo aver concluso l’ultima pratica, Lily si lasciò andare, gettando la testa all’indietro come se stesse imprecando al cielo esaurita. Rendendosi immediatamente conto di quella strana impressione che il suo corpo doveva dare alle altre persone che stavano ancora nella stanza, si tirò in piedi e andò verso la toilette.

Il suono del telefono, glielo impedì non appena mosse il primo muscolo della caviglia per roteare la sedia e sollevarsi. Era un fatto strano che chiamasse alle cinque del pomeriggio, ma non ci fece caso dovendo in ogni caso alzare la cornetta e prestare attenzione.

La voce di lui era tranquilla e questo la rassicurò.

Sorridendo, ancora tesa, ma con lo sguardo confuso, si diresse verso l’ufficio del proprietario dello studio, al quarto piano.

Nella stanza erano appese fotografie di un canale olandese, del Duomo di Milano e di Fiorella Rey, una cantante peruviana. Il che le confermò di quali ampie vedute doveva essere dotato Ben Van Dongen. Oppure, più semplicemente, aveva un gusto per i contrasti. 

“Be’”, disse Mr. Van Dongen dopo averle spiegato la faccenda. E sospirando si alzò per andarle incontro.

“Non sarà difficile per lei. Farà sicuramente un ottimo lavoro laggiù, purché lei sia inflessibile.”

“Sarà tutto nelle mie mani?” disse Lily.

Van Dongen scosse la testa in un modo che preoccupò Lily.

“Miss Brown, noi siamo una squadra ricorda? Cerchi di ricordarlo sempre.” Liquidandola con un gesto cortese del braccio, invitandola ad uscire al più presto dal suo ufficio.

Annuì, rendendosi conto di avere gli occhi sgranati, come constatava talvolta quando, causa la sua ingenua speranza, si aspettava un comportamento diverso nei suoi confronti; quello di un gentiluomo verso la propria innamorata. Inoltre, il semplice sentire il suo cognome storpiato le ricordò i primi tempi, quando assieme a John era appena arrivata ad Amsterdam.

Questo le rammentò quanto avesse detestato ogni singola persona che non aveva posto abbastanza attenzione nel pronunciarlo correttamente, con la “e” finale, e la sua battaglia persa.

Non era vanesia né altezzosa, solo detestava essere chiamata con un altro cognome, che non era il suo. Inoltre, rammentò a sé stessa di non badare a questo tipo di errori che quell’uomo poteva aver commesso. Fin dal primo giorno Ben volle sapere tutto di lei, quanti anni aveva e com’era finita in quella città, e nonostante i suoi occhi marroni fossero decisamente paterni, lei non aveva gradito tutta quella cordialità, intuendo nel modo in cui la osservavano più che una semplice curiosità, e gli aveva risposto a mezze parole.

Con il passare degli anni, Ben continuò a riservarle attenzioni speciali.

Durante gli ultimi dieci anni, ad ogni Natale, il giorno del suo compleanno e prima di ogni pausa per le vacanze estive le aveva sempre portato un piccolo regalo, convocandola personalmente con una scusa nel suo ufficio.

Lily, ogni volta porgeva le mani accettando quei doni, a testa bassa, le mani tese, in un gesto più simile a una resa disperata.

Il quinto anno smise di parlargli a mezze parole e di allontanare ogni suo invito a cena. Gli aveva raccontato tutta la storia della sua vita e, quando le si era seduto accanto, facendosi più intimo, aveva ceduto.

“Cosa ne diresti se ti chiedessi di diventare mia moglie un giorno?” le aveva chiesto all’improvviso, tempo dopo.

Lei non gli aveva creduto, ma naturalmente ci aveva pensato su, aveva pensato alla possibilità di trascorrere la sua vita accanto ad un uomo che potesse darle dei figli. Pensando inoltre a quanto era fortunata, perché Ben Van Dongen era un bell’uomo, per di più ricco.

A frenarla il fatto di essere ancora sposata con John, sarebbe stato bello liberarsene e dimenticarlo come se niente fosse accaduto, ma una volta cresciuti la memoria non funziona più così, lo sapeva.

Due spiriti si agitavano in loro, l’amore e l’anonimato.

La separazione dal proprio coniuge era impensabile, specialmente per Ben, e perciò il piede di Lily fu l’unico a pestare il terreno fragile e sdrucciolevole dell’ossessione.

Inizialmente trascorsero diversi fine settimana insieme, lontani da Amsterdam per questioni di lavoro, e l’amore diventava lentamente il sedimento nel cuore di Lily.

Negli ultimi mesi, le partenze di Ben senza di lei divennero un ritmo che accelerava a poco a poco.

Lily, avvertendo che c’era qualcosa in lui, una tensione crescente, rammentò a sé stessa di essere capace di sopportare la consapevolezza di essere d’intralcio o dimenticata, e non rimase mai incinta. Per di più, poche sere prima, mentre cenavano al Bouganville incontrarono casualmente delle colleghe di Lily, tra cui Shavit ed Els, che mettendo piede nel locale dall’ingresso principale li colsero al primo sguardo.

“Dovrai passare molto più tempo con loro ora.” disse Ben diventando serio.

Da quel momento, quando erano soli e felici, in disparte dal giudizio del mondo nella loro condizione, entrò in Ben una presenza insospettata. Aveva cominciato a cantare, canzoni ora italiane, ora tedesche o olandesi, canzoni del popolo, sordide e smielate, canzoni che Lily non aveva mai sentito prima o che non aveva mai sentito in compagnia di Ben. Quando la cadenza cambiava, quando si impegnava nelle note più basse, Lily sapeva che Ben cantava di una vita nella quale lei non aveva parte. A volte Lily le cantava facendogli eco, altre volte, incapace di sopportare la melodia che diceva tanto e così poco, interrompeva Ben con una domanda.

Quando quel pomeriggio uscì in strada, sgambettando lungo Kerkstraat di ritorno dal lavoro, cominciò ad elencare le cose che le toccava fare: traslocare le proprie cose per un certo numero di giorni a Brè, aprire il testamento di quella famiglia rimanendo seria di fronte alle loro reazioni, nella migliore delle ipotesi sarebbero rimasti scioccati, apprendendo che l’intero patrimonio sarebbe andato all’infermiera di Mr. Fergus, e ritrovarsi dopo tutto quel tempo di nuovo in Irlanda.

Lily si accorse di non avere ancora appieno percepito la sua felicità. Come fosse di fronte ad un sipario che, da quel momento, si sarebbe sollevato ogni giorno di più sulle colline verdi di Wicklow.

Una volta arrivata dinanzi al portone di casa, sollevò gli occhi per la prima volta da quando camminava, per infilare la chiave nella toppa, provando una sorta di ansia, anche dovuta ai due cavalli che impennavano dal portone verdastro.

All’ultimo piano, sul pianerottolo, una porta aperta rivelava un tappeto rosso e in fondo le due finestrelle strette del suo soggiorno.

Lily si chiese cosa ci facesse la porta di casa aperta, poi pensò a suo marito che doveva essere in casa e che probabilmente non l’aveva chiusa.

Sul sofà, circondato da un disordine di bicchieri, che probabilmente avevano contenuto rum e thè caldo, piante e fiori recisi, semiriverso oltre i cuscini dai quali, avvertendo la sua presenza, aveva distolto il capo, giaceva John. Le gambe vestite di pantaloni di lana, erano divaricate e scomposte, come avesse fatto una brutta caduta dalle scale, e fosse rimasto con le gambe molli, come in una danza. Le mani, lunghe e ossute, posavano ai due lati del viso. L’odore esalato dal suo corpo aveva la qualità del profumo dei funghi, quello della terra umida. La sua pelle aveva una grana arborea, e i pori della sua pelle erano aperti come avesse affrontato una malattia che lo aveva fatto sudare moltissimo. I capelli bagnati e i vestiti consunti dal sonno, come se il sonno fosse una decomposizione in atto che lo ghermiva sotto la superficie visibile. Come stesse degenerando di attimo in attimo, in un processo ormai troppo avanzato per essere fermato con delle medicine.

Lily non si avvicinò, limitandosi a serrare la porta d’ingresso.

Sapeva che anche questo rappresentava una delle fatiche di accettare John per quello che era, e non si preoccupò della sua salute, salendo nella loro stanza lo abbandonò lì dove si trovava, ma non doveva farsene gabbare, pensò, e tornò verso quel corpo puntando l’attenzione ai peli che uscivano dal suo naso. I respiri che li facevano dondolare, tenuamente come delle tende al vento, erano ancora presenti. Deboli ma pur sempre presenti.

Quindi, si alzò e rimase qualche secondo ferma a guardare, poi si affrettò in camera.

Si mise la camicia da notte a fiori, quella che le aveva regalato Ben, e scrollo le maniche al loro posto con un colpo. Si passò il fazzoletto umido sul viso e spalancò le coperte del letto, sprimacciò i cuscini e con un balzetto si buttò sul piumino, richiudendolo come un sarcofago sul suo corpo infreddolito.

Mentre ascoltava il vento che ora soffiava brusco e rabbioso, ripercorse la sua vita fino a quel momento parlando a bassa voce, come un immenso sussurro. Sentì che lentamente si stava liberando di un grosso peso, e si abbandonò al sonno.

Poi di colpo si svegliò.

Per qualche secondo rimase stranita dal fatto che suo marito non fosse lì accanto. Ma ancora una volta ricadde nel sonno. Si spense, crollando come se all’improvviso un colpo l’avesse raggiunta.

C’era un piccolo parco, poco più di un giardinetto, che Ben Van Dogen percorreva quotidianamente per recarsi al lavoro. Non era circondato da nessuna recinzione che lo separasse dalla strada, e a causa della loro assenza si mimetizzava con l’ambiente costruito, sembrando così una grande aiuola da attraversare. L’unica forma che poteva sembrare un recinto era l’unica panchina disposta a contorno, al limite più esterno, e che segnava il confine con una strada poco trafficata.

Lily sapeva che in una di quelle case abitava Ben. Lo aveva seguito dopo essere stata in Irlanda. Da quando aveva rimesso piede in ufficio lui non c’era quasi mai. Le poche volte in cui si erano incontrati, non appena lei si faceva più intima, cadevano in un abbraccio torturato, al che lui usava uno strano giro di frasi che non gli era consueto, come se ammettesse un tradimento, e questo informava Lily che Ben era venuto da un mondo nel quale sarebbe presto ritornato.

Lily capiva ormai che, per trattenerlo, non c’era altro modo che la morte.

Scrutando il cielo invernale, come stesse rilassandosi assieme a un figlio intento a giocare in quel parco, Lily calcolava ogni mattina l’esatto procedere della sua toilette, e non sbagliava mai. Quando alle sette e venticinque precise girava il capo verso Amaliastraat, lo vedeva arrivare assieme alla valigetta, che dondolava accanto alla sua gamba come un’altalena.

Ogni mattina Lily rimproverava sé stessa di non aver prestato abbastanza attenzione nel notare da quale portone spuntasse la sua figura. I globi dei suoi occhi scivolavano letteralmente fuori tentando di ricostruirne il percorso. Ben camminava in una meditazione informe, le mani ficcate nelle maniche del cappotto, dirigendo i suoi passi verso l’ufficio. I suoi pensieri sembravano di per sé una forma di locomozione. Camminava a testa alta, sembrava fissare ogni cosa attorno a sé, ma il suo sguardo in realtà traguardava la folla per assicurarsi che Lily non fosse davvero lì.

Avvistandola ogni volta, un’espressione di rabbia intensa e affrettata gli oscurava il viso, e gli abbassava gli angoli della bocca a mano a mano che si avvicinava a quel parco che non poteva fare a meno di attraversare.

Eppure, quando i suoi occhi percorrevano la folla in strada alla ricerca della sua figura, non trovandola ancora, irradiavano da essi una gioia tranquilla; perché Lily rievocava in lui una questione da risolvere molto delicata. Così, senza sapere che fine avrebbe fatto, cosa sarebbe successo se quella donna fosse impazzita davvero, svoltava l’angolo che lo portava verso quel parco.

I vialetti di accesso, che si incontravano dove c’era una fontanella nel mezzo, erano disposti a croce ed era inevitabile passare di lì.

Bruscamente cambiava strada, preferendo rischiare la vita in mezzo al traffico piuttosto che sul marciapiede che terminava in quel parco. Una volta superato, guardava ogni coppia, ogni macchina, alzando gli occhi alle finestre delle case, cercando di scoprire se Lily, o tracce di lei l’avessero seguito o lo stessero tenendo d’occhio. In cerca di ciò che aveva paura di trovare.

Non appena entrava da Barrel West, cominciava con molta fretta a disfarsi del cappotto lanciandosi nel giro degli uffici, trovandolo interminabile. Sorpreso di trovare Lily al primo piano già svestita e intenta con le pratiche, chiedendosi ogni volta come avesse fatto ad arrivare più velocemente.

Poi si chiudeva nella sua stanza, incapace di ragionare, e si metteva a camminare per far sì che la tensione scemasse. Per far tornare i suoi pensieri alla velocità stessa dei battiti del suo cuore. E camminando invano spesso si sedeva su una delle due poltrone riservate ai suoi ospiti, e, chino in avanti esclamava sottovoce:

“Oh Dio, oh Dio!”, ripetendolo così spesso che aveva un effetto rilassante sulla sua mente. La luce del sole filtrava attraverso le sue palpebre chiuse, delineandogli un mondo carico di un ardente arancione e insieme a questo, ogni giorno filtrava dentro di lui un raggio di comprensione.

Quell’esperienza aveva provocato in Lily un possibile danno celebrale.

Nel trascorrere dei loro finesettimana insieme, ogni oggetto tenuto come ricordo testimoniava il suo amore per Ben. Sparsi per il salotto di casa c’erano Tè inglesi, maschere veneziane, sandali di cuoio e porcellane di Augarten, oltre a una grande quantità di dolcetti provenienti da molti altri paesi.

Inconsciamente John si muoveva per casa badando a non toccare nulla, soprattutto dopo aver fatto involontariamente cadere una delle maschere, distruggendola. Questo aveva causato in sua moglie una vera e propria crisi di nervi, tanto che lo aveva minacciato con un coltello ferendolo alla spalla.

I suoi movimenti lievi e attenti erano il prodotto di una paura irrazionale: se disturbava quell’ordine, Lily avrebbe mostrato il lato peggiore di sé, inducendolo a riflettere sulla pericolosità di quella donna.

L’amore era diventato il sedimento del cuore, del tutto analogo ai reperti di una tomba. Nel cuore di Lily c’era il fossile di John, e tutt’intorno, scorreva ancora fresco il sangue di Ben. L’assenza di notizie da parte di Ben, con l’avanzare della notte diventava per lei insopportabile. Quasi come fosse una mutilazione fisica, insopportabile e irreparabile. Come una mano amputata non può essere rinnegata, così Ben era un’amputazione cui Lily non poteva rinunciare.

Il suo cuore spasimava dello stesso spasimo del polso, e allora si vestiva e usciva nella notte.

Suo marito non si era mai accorto di nulla, gonfio e inerte com’era dopo tutti i bicchieri di grag bevuti dopocena, in ogni caso non le avrebbe osato domandare nulla per paura di alterare il suo stato psicofisico, o semplicemente perché non gli interessava.

Una volta all’aperto, Lily camminava fuori di sé, rasentando ogni caffè dove potesse incontrare Ben, e senza sapere che l’avrebbe fatto, arrivava al parco Frederik Hendrik Plantsoen, dove inconsapevolmente si adagiava sulla panchina fino all’alba.

Il tempo non incontrava ostacoli, perciò sembrava non passare mai, costringendola in uno stato di meditazione informe.

Scorgendo Lily, i passanti non si ponevano alcuna domanda a proposito di cosa ci facesse una donna sola in giro di notte ad Amsterdam, mentre all’alba, chi la incontrava si chiedeva cosa spingesse quella donna ad essere già attiva a quell’ora, quale lavoro faticoso la costringesse ad essere lì, irradiando in essi un’ammirazione tranquilla e malinconica.

Ogni mattina, Ben guardava nella buca per la posta.

Quella mattina la trovò eccessivamente piena di lettere, e tutte quante provenivano dallo stesso mittente: Lily Anne Browne. Ne trovò di tutti i generi, da quelle scritte con amore e che recitavano:

“Tesoro, mi manchi così tanto che non resisto all’impulso di scriverti.”

A quelle minacciose come:

“Ti ricordi, oppure hai dimenticato, e vuoi vedermi ancora oppure no? Se non riceverò risposta nei prossimi giorni, capirò. Verrò personalmente da te usando le mie mani per tirare fuori una risposta dalla tua testa marcia!”.

Erano passate quasi sei settimane da quando i suoi rapporti con Lily si erano arrestati, congelandosi fino a produrre una sorta di esalazione negativa da parte di quella donna nei suoi confronti, qualcosa di oscuro e di attutito. Appena metteva piede nel suo ufficio, tra i mille occhi ne vedeva solamente un paio, grandi ed esageratamente sgranati, rossastri, le ciglia imbrattate di rimmel ridotto oramai in minuscole scorie secche, e che lo frugavano con il gran riflettore della follia.

Quell’amante aveva commesso l’errore imperdonabile di non saper esistere senza lui, e ora si ritrovava con una pazza tra le braccia. “Beh, questa non è che una parte che sta interpretando”, disse a sé stesso quella mattina. Dopotutto conosceva Lily da quasi dieci anni, durante i quali si era sempre dimostrata come una persona mite, docile, e a volte perfino remissiva.

Così, come stesse reggendo un lume di notte, meditando su quale direzione prendere, Ben si affrettò a passettini veloci, ora in fretta, ora adagio, zampettando di qua e di là per gli uffici che rimanevano a concludere il giro d’ispezione quotidiano.

E, nervoso in fondo com’era, sembrò cercare alla cieca le scale non riconoscendole, raggiungendo rapidamente il suo ufficio per l’incontro con la nuova assunta programmato alle undici di quella mattina. A quel punto, chiuso a chiave all’ultimo piano, gli venne un’idea che lo tirò su di morale e iniziò a fare solitari con le carte da gioco.

Le persone che trasformano il giorno in notte, oppure quelle che vivono senza sonno, la drogata, la dissoluta, l’ubriaca e la più infelice di tutte, l’innamorata che veglia tutta la notte piena di paura e di angoscia, non potranno mai più vivere la vita come prima. A queste persone la vita non si addice più.

Lily cominciava ad avere un aspetto non registrato. In poco tempo aveva acquisito fattezze riluttanti, invecchiando senza ritegno, nonostante il nuovo taglio di capelli a frangetta che sembrava ringiovanirle solamente il cuoio capelluto.

Ogni mattina percorreva il pavimento tenendosi le mani, come quasi stesse per cadere nella disperazione e strisciare sulla superficie di legno, persa più in fondo del fondo di una sepoltura, distrutta e scagliata nel nulla del vuoto.

Quella mattina, Lily eseguiva le pratiche con regolare velocità, nella sua sediolina di ferro, con i suoi vestiti sporchi e pesanti, indossando un completo maschile di serge blue. Proseguì decisa fino al tramonto quando, stanca, si appoggiò allo schienale rimanendo in ascolto. Non si sentiva nessun rumore provenire dal corridoio.

Poi la porta dell’ufficio cigolò e apparve la ragazza che stava alla segreteria del piano terra. Mangiando gli ultimi bocconi di un dolcetto avanzò decisa fino alla scrivania di Lily, si fermò, e masticando con aria riflessiva le rivolse la parola senza degnarla di uno sguardo.

“Lily, il dottor Van Dongen ti vuole nel suo ufficio,” disse la concierge.

Le altre donne presenti lanciarono gli occhi dappertutto pur di evitare i loro sguardi, perché sarebbe stato poco carino da parte loro se Lily li avesse visti ammiccare.

Balenò nella sua mente:

“Dio, loro non sanno qualcosa che solo io posso sapere.”

Ma questo pensiero non durò che il tempo di raccogliere la borsa, dalla quale spuntava un’insolita forma sottile e allungata, costretta in quel poco spazio di pelle di coccodrillo. Nell’attimo successivo Lily aveva già strappato il suo cappotto dalla sedia tirandoselo sulle spalle.

“Certamente,” rispose non appena riuscì a riprendersi dai suoi pensieri infestanti, rientrando nei suoi panni.

Era giunta ormai l’ora del crepuscolo e sembrava come una favolosa ricostruzione della paura. Ogni giornata era pesata e calcolata, ma il crepuscolo e successivamente il buio non era possibile premeditarlo.

“Ci ho pensato, ma non serve pensare a qualcosa di cui non si sa nulla,” esordì Ben non appena Lily varcò la porta del suo ufficio.

“Un tempo pensavo,” disse Ben, “di conoscerla molto bene, tanto da potermi fidare ciecamente di lei”.

Si accese una sigaretta e le mani gli tremavano.

“Ma ora capisco che deve essere successo qualcosa alla sua identità Mrs Brown” disse senza guardarla negli occhi ancora.

Le parole che cadevano dalla sua bocca sembravano prese in prestito; se fosse stato obbligato a usare il vocabolario suo abituale, quello che utilizzava in queste circostanze, quando doveva licenziare un’impiegata, sarebbero state:

“Spiacente, ma lei è fuori da domani.”

Lily rimaneva seduta, inerte e silenziosa come se la questione non la riguardasse.

Note basse di un armonium partirono dall’appartamento confinante con lo studio Barrel West, un dettaglio che ricordò a Ben di dover ancora provvedere un’adeguata insonorizzazione. Sospese come a mezz’aria, tremanti, scesero improvvisamente di tono. In quel momento, entrò la ragazza che si occupava delle pulizie a fine giornata.

Pensando di esser stata invadente fece immediatamente dietrofront, sorridendo con garbo al direttore che le rilanciò un’occhiata piena di comprensione e ammirazione per quella sua nuova camicetta marchiata B.W. Ben cercò di rintuzzare quello sguardo malizioso, sentendosi disonesto per aver intrattenuto tale pensiero in una situazione come quella.

“Cara, questa pianta nel mio ufficio dovrà sopravvivere fino al mio rientro. Le dia solo una stilla d’acqua nei prossimi due giorni.” disse liquidando la ragazza, inseguendola con il suo sguardo.

A quel punto, alzò gli occhi su Lily. Potendola esaminare da vicino, ciò che vide lo colpì come straordinariamente terrificante: per la prima volta nella sua vita sentì di osservare uno zombie. Gli occhi erano chiusi e aveva un sorriso gigantesco e senza senso dipinto in faccia. Guardò più a fondo nei suoi occhi ed ebbe la sensazione di osservare una specie di alieno.

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