TRA LE TUE BRACCIA di Roberta Rotondi
È di nuovo sera ed io sono ancora qui.
Mi sento avvolto da un silenzio irreale, sotterrato dalla coltre bianca e gelida dell’inverno, incapace di muovermi. Dopo un giorno intero trascorso in queste condizioni, sarebbe motivo per festeggiare, ma le forze mi stanno abbandonando e soltanto il dolore e la sete sembrano appartenere ancora a una realtà, alla quale mi sto aggrappando per riuscire a intravvedere una luce in fondo a questo tunnel.
Devo fare un grande sforzo per continuare a tenere gli occhi aperti, ma voglio farlo per me stesso e per chi ancora mi sta aspettando.
Ogni tanto si chiudono e quando accade, temo non possano riaprirsi mai più.
Vedo il viso di Mara che sento lontano, troppo lontano da questo buio che mi avvolge e vorrei che fosse qui. Vorrei poter sentire il suono della sua voce rassicurante mentre dice che andrà tutto bene.
E invece chissà dove si trova.
Chissà se pensa ancora a me. Chissà se nel profondo del suo cuore ho ancora un posto speciale.
Dove sono e cosa mi è accaduto?
Mi pongo questa domanda da quasi ventiquattro ore. L’ultimo ricordo che ho è la luce accecante di due fari nella notte venirmi incontro a una velocità impressionante. Poi il nulla, solo un buio incalcolabile e dolore.
Credo di essere precipitato in un dirupo, nel bel mezzo di una fitta boscaglia. O almeno penso. Il cofano della mia auto si è accartocciato all’impatto contro un albero.
Una cosa è certa: sono nei guai.
Sogno l’arrivo di qualcuno con una brocca d’acqua o meglio ancora, con un tè caldo al limone, una coperta e un letto comodo con uno di quei materassi flexy foam, come si usano adesso, dove ti senti avvolto e protetto.
Mara mi avrà chiesto almeno una ventina di volte di cambiare il nostro vecchio materasso con uno di questi di ultima generazione, dopo avermi trascinato per negozi e vederli e provarli di persona. E in tutte queste occasioni la mia risposta puntuale era un NO deciso, che mi portavo a casa nella convinzione di essere io quello cui spettava ogni decisione, perché l’unico dei due a percepire uno stipendio degno di chiamarsi tale.
Lei non ha mai avuto una retribuzione, benché lavorasse a tempo pieno presso un’associazione a scopo benefico. Il suo era semplice volontariato che per me non aveva alcun valore, poiché non quantificabile in termini di profitto.
Eppure, era una donna felice e pareva non curarsi delle mie prese di posizione che si manifestavano più volte e in diverse occasioni. Era troppo soddisfatta delle scelte fatte prima del matrimonio, che portava avanti con energia e convinzione, senza preoccuparsi della mia stupidità che manifestavo con arroganza e presunzione.
La ammiravo per questo e non gliel’ho mai detto. In un certo senso, avrei voluto essere esattamente come lei. Avrei desiderato anch’io quel genere di appagamento che nel mio lavoro, basato sulla gestione di un’impresa di pulizie, non ho mai trovato.
La neve inizia a cadere.
Il mio respiro si condensa in nuvolette che fluttuano fuori dalla mia bocca come sbuffi di drago e il freddo comincia a entrarmi nelle ossa.
Perdo sangue dalla testa e mi sento svenire. Temo di avere un braccio rotto e la spalla mi pulsa, tanto da impedirmi qualsiasi movimento.
Indosso due camicie, un maglione, guanti e cappello ma nonostante abbia anche un giubbotto pesante, sento così freddo da tremare come una foglia mossa dal vento.
La mia auto è inclinata sul lato destro, ho ancora la cintura di sicurezza che sostiene il mio peso impedendomi di finire contro la fiancata, che ora appoggia sul manto erboso.
Credo che l’airbag non abbia funzionato a dovere perché ho sbattuto il capo contro il volante e perso i sensi. Non saprei quantificare la durata del tempo che mi ha visto privo di conoscenza, ma il taglio sulla fronte sanguina ancora e le ossa della spalla sembrano volermi bucare la pelle.
Non riesco a scorgere niente oltre il parabrezza. Il vetro sembra non aver subìto le conseguenze dell’impatto. Un gesto automatico mi porta ad attivare la leva che muove i tergicristalli senza aspettarmi nessun risultato e invece un attimo dopo i bracci si muovono spingendo di lato la neve che mostra un sottile strato di ghiaccio.
Resto colpito da questa momentanea manifestazione di normalità, ma poi mi costringo a spegnerli per non consumare la carica della batteria. In caso di necessità potrei avere bisogno di usare il clacson.
Sollevo lo sguardo, o almeno quanto mi è permesso da questa posizione atroce e osservo sopra di me. Con il parabrezza sgombro posso vedere dei rami di pini allungarsi sopra la mia testa, appesantiti dalla neve che cade copiosa. Grandi fiocchi dalle forme geometriche precise che fluttuano nell’aria come piume, compiono una danza aerea incantevole, fino ad arrivare a posarsi proprio davanti a me e fondersi con il sottile ghiaccio che ricopre il vetro.
Non avevo mai osservato la natura in modo tanto attento e preciso. Una nevicata così abbondante è abbastanza rara da queste parti. Eppure, come se sapesse di farmi un dispetto, l’inverno sta dando il meglio di sé, sprigionando spettacolari fiocchi di ghiaccio, leggeri e ballerini.
A Mara piaceva l’inverno. Amava il freddo e gli sport invernali. Per me, invece, è solo una seccatura che ti costringe al cambio dei pneumatici e a indossare più vestiti del dovuto.
Le piaceva sciare. In questa stagione andava in montagna per qualche giorno. Talvolta, su sua richiesta, provai ad accompagnarla ma, a parte sentirmi un insolito porta borse, mi annoiavo da morire in mezzo a quel paesaggio dal bianco sconfinato.
A differenza di lei, io odio il gelo e in quelle circostanze ero costretto a sopportarlo contro la mia volontà. Poco importava quanto a lei facesse piacere condividere la sua passione. Per me era solo un peso.
Infine, non me lo chiese più e quelle rare volte in cui accadeva, c’era sempre qualcosa di meglio da fare. Ogni suo desiderio o interesse passava in secondo piano di fronte alle mie esigenze che dovevano prevalere su tutto.
E mi dispiace: per ogni mancanza commessa, per ogni errore, per tutte quelle infinite volte in cui sono stato superficiale.
Penso a lei e di nuovo la vedo, come se fosse parte di quella neve che mi avvolge senza tregua.
Poteva andare peggio.
Sebbene stia nevicando, non fa ancora troppo freddo.
Le immagini nella mia mente scorrono alle previsioni del tempo che ho controllato prima di mettermi in viaggio. Per me sono una vera ossessione e non smetto di verificare gli aggiornamenti anche sull’applicazione meteo del mio cellulare. Devo assolutamente sapere a cosa vado incontro quando metto il naso fuori di casa, come se conoscere il clima possa decidere l’andamento della mia giornata. Mi piace sapere in anticipo se pioverà o se ci sarà vento, così da scegliere l’abbigliamento adatto. Conoscere gli eventi atmosferici mi fa sentire sicuro e mi tranquillizza. Come ora.
So che le temperature questa notte non scenderanno oltre i sei gradi sotto lo zero e quindi il mio giaccone e ciò che è rimasto della mia auto, saranno in grado almeno di evitarmi una morte per assideramento.
So anche che domani si alzerà il vento e smetterà di nevicare. Le temperature si alzeranno fino a quattro gradi e questo, unito all’azione dei venti previsti fino a trenta chilometri orari, potrebbe contribuire a spazzare via la neve che ricopre la mia auto, lasciando intravvedere un puntino rosso in lontananza.
Se, per assurdo, il suo colore fosse stato bianco o avessi scelto uno di quei metallizzati nelle gradazioni di grigi, sarebbe stato molto più difficoltoso per chiunque poterla individuare.
Mara avrebbe voluto un’auto tutta per sé. Non l’ha mai chiesto in modo esplicito ma so che le sarebbe stata molto utile negli spostamenti da una sede all’altra dove, con un gruppo di altri volontari, si occupavano di salvaguardare le condizioni ambientali nei luoghi di maggior degrado.
Parte di questi erano spiagge, parchi giochi per bambini, zone boschive pubbliche e aree protette.
Un giorno la sentii parlare con un’amica di un modello di auto, la Smart, piccola e agile, facile da parcheggiare, colore rosa confetto.
Ogni tanto la sorprendevo pronunciare frasi del tipo: “Vorrei un’auto che sia esattamente così, ma elettrica!” Oppure “sarebbe bello avere un’auto per spostarmi senza il pensiero degli orari e senza inquinare. Peccato che quelle elettriche siano così costose!”
I luoghi dove lei prestava servizio non erano distanti dalla stazione e poteva permettersi di spostarsi comodamente con i mezzi. Era stata una sua scelta abitare in un appartamento nei pressi della stazione. Vero anche, che i treni non sempre erano affidabili: ritardi e disguidi erano all’ordine del giorno e spesso si trovava a muoversi di casa con oltre un’ora di anticipo, per assicurarsi di arrivare in orario a destinazione.
Ero troppo egoista perché potessi prendere seriamente in considerazione quest’aspetto della sua vita, dandole un aiuto economico per poterle permettere di acquistare l’auto tanto desiderata.
Avevo altri pensieri, altre cose più importanti di cui occuparmi. Il suo ruolo nel mondo, ai miei occhi, era di poco conto.
Se invece fossi stato presente come marito, probabilmente non l’avrei persa dopo cinque anni di matrimonio.
Fu lei ad andarsene.
Disse che il suo più grande desiderio era di trasferirsi in Norvegia, per studiare gli effetti dello scioglimento della calotta polare. Aveva trovato un aggancio presso un istituto che inviava volontari proprio in quei luoghi e lei non si lasciò scappare l’occasione. Scelse così di lasciar scappare me, o meglio, di abbandonare al suo destino, quell’uomo che a causa del suo egoismo non era stato capace di renderla felice.
Era una donna straordinaria ma quando lo compresi, per me, era già troppo tardi.
Certo che è strano quello che ti viene in mente quando senti di essere vicino alla morte. Perché, parliamoci chiaro, la mia speranza di uscire vivo da quest’assurdo incidente, si fa sempre più lontana. Di una cosa sono sicuro: se il mio tempo è finito, preferirei non andarmene in questo modo. L’ultima cosa che desidero è che qualcuno mi trovi qui seduto, surgelato come una bizzarra scultura di ghiaccio.
Come farebbero a tirarmi fuori? Già m’immagino la scena del mio corpo spinto a destra e a sinistra fino a stramazzare esausto sulla coltre bianca. Ammesso che quando arriverà quel giorno, il manto erboso sia ancora ricoperto di neve. Se ciò dovesse accadere in primavera, per esempio, ci sarebbero già le primule o i bucaneve ad accogliere le mie membra, come un soffice tappeto.
Forse però, non sarà necessario arrivare fino a quel punto. Nel vedermi venire incontro quei fari abbaglianti come due cerchi di fuoco, d’istinto devo aver frenato. Magari qualcuno noterà il segno dei pneumatici sull’asfalto. Due strisce nere che finiscono proprio ai bordi del terrapieno. E magari si accorgeranno anche dei rami spezzati, di un albero piegato o dell’erba schiacciata. Così forse qualcuno si fermerà e proverà a chiamare i soccorsi, accenderà una torcia e scorgerà la sagoma di un’auto quaggiù nel dirupo. Un dirupo profondo completamente invaso dalla neve. Non è inconcepibile come ipotesi. Nevica e gli automobilisti guidano piano. Di scuro qualcuno mi troverà.
Devono trovarmi. Giusto?
Il freddo diventa ogni minuto più intenso e insopportabile. Non sento più le mani. Con le ultime energie rimaste tolgo un guanto e noto che le prime due dita della mano destra sono diventate di un colore blu intenso, tendente al viola. Tutto questo somiglia a una beffa del destino. Io che odio il gelo, il bianco e la neve, intrappolato proprio nell’ambiente che ho sempre cercato di evitare.
E se ancora una volta penso a Mara, la mia Mara, tutto questo ha un sapore amaro. Lo squillo del telefono, quella domenica mattina alle sei. Ricordo il sonno e lo stordimento che non mi permetteva di riconoscerne il suono, poi una voce lontana, sconosciuta e informale a comunicarmi la notizia. – Dispersa. Scomparsa da una settimana. Sono state sospese le ricerche. – In quel momento dovetti far fronte a quella poca lucidità per comprendere il significato di quelle parole. Mara non c’era più. Era stata inghiottita da quello stesso freddo che ora inghiotte me. Smarrita nel corso di una missione insieme con altri tre colleghi. Di loro nessuna notizia. Probabilmente sono stati sorpresi da una valanga o peggio, scivolati in un crepaccio capace di rinchiuderti senza lasciare speranza alcuna. La fame e le temperature rigidissime avranno fatto il resto. Cercare una spiegazione fu inutile, come lo è ora, a distanza di anni da quel maledetto giorno.
Non le parlavo dalla primavera precedente. Era in missione da diversi mesi e l’ultima telefonata mi annunciava che le avevano dato un riconoscimento per l’ottimo lavoro svolto, grazie al quale avrebbe ricevuto un contratto e uno stipendio. Mi sentii così orgoglioso di lei e anche tanto sciocco, per non aver creduto nelle sue potenzialità. Non ho creduto in lei, mai.
Poi fu troppo tardi. Troppo tardi per qualsiasi cosa.
Invece, se ora fosse qui, le direi quanto l’ho ammirata e amata. Le confesserei che fu proprio tutta quell’ammirazione e quell’amore a trasformarmi in una persona gelosa dei suoi successi e delle sue convinzioni e che questa gelosia mi stava logorando fino al punto di rinnegarla come compagna. Le direi che sono sempre stato fiero di averla avuta accanto e quando mi lasciò, fu il periodo più brutto della mia vita. Vorrei poterle confessare che da allora ogni giorno è stato un incubo perché niente fu come prima e ogni cosa, mi ricordava ciò che avevo perso. Infine le chiederei di perdonarmi e di riprendermi con sé. Di farmi conoscere il suo mondo, quello che ho sempre ignorato e di portarmi con lei in quelli che erano gli obiettivi rivolti alla sua passione. Quegli stessi obiettivi amati e conquistati che furono fatali. Quella passione tanto grande e irrefrenabile da divorarla.
Anche lei avrà sentito questo stesso freddo che provo io? Ho sempre cercato una risposta, concentrandomi su cosa si possa vivere in una situazione come quella. E ora che lo so, mi piace credere che si sia addormentata senza accorgersi di niente.
Il gelo s’impadronisce di ogni membra del tuo essere, fino a farti perdere il controllo su tutto. Ogni possibilità di movimento ti abbandona, anche se con la ragione vorresti poterti muovere ancora, ma ti accorgi che il corpo non risponde, non reagisce, perché non può farlo.
Arriva così il momento in cui mente e corpo si dividono in due entità che viaggiano a velocità diverse. Il cervello continua a inviare messaggi che non sono recepiti. Fino a quando anche la ragione ti abbandona, se pur lentamente.
Rinunci a qualsiasi pensiero e inizi a sognare. Sogni cose mai viste prima, che si delineano nella tua testa insieme a colori evanescenti di una lucentezza speciale. E quella luce diventa improvvisamente tiepida e ti avvolge in un tepore simile a quello di un bagno caldo.
Il viso di Mara che ricompare così nitido davanti ai miei occhi da poter perfino contare le minuscole rughe intorno ai suoi occhi.
Lei tende le sue braccia verso di me e mi ritrovo senza sforzo alcuno, nel suo morbido abbraccio.
Tra le tue braccia è un racconto di Roberta Rotondi