UNA BUONA VITA? di Carlo Pezzetti
Foto di Leroy Skalstad da Pixabay
Il Conte cantava con la sua voce roca e profonda; una sottile malinconia da uomo rugoso accarezzava i padiglioni auricolari, caffè e latte con biscotti, “It’s wonderful, good luck my baby”, una verde milonga volteggiava soave.
La memoria si perse nei vortici del tempo mentre, nel ricordo, uno stiletto pungente trafisse il suo fegato.
Capelli bianco sporco, mani tremanti, un boogie sostenuto manteneva accesa la sua anima, nell’aria un acre odore di chiuso, muffa misto a minestra, il muro intorno alle finestre mostrava segni evidenti di materiale fungino grigiastro, la luce era soffusa.
Tutto sommato aveva vissuto una buona vita… Tutto sommato aveva vissuto una buona vita?
Moscerini della frutta danzavano al ritmo di rumba, “dancing, darirarara, dancing”, il lavabo della cucina strabuzzava di vettovaglie, sul piano di lavoro macchie oleose si contendevano un pezzo di pane raffermo, sentì la sua mano sfiorargli la guancia sinistra, un fremito percorse le sue vecchie membra, il riflesso del suo ricordo svanì nel vortice di latte e caffè provocato dal cucchiaino.
La mano di lei si dileguò tra i fumi sottili della miscela arabica.
Le falangi della mano erano gonfie sull’ attaccatura, ricurve in punta, dolenti, afferrò lentamente il cucchiaino per non provare dolore, prese una punta di zucchero e la versò nella tazza calda, un soffio di vitalità gonfiò i suoi polmoni, inspirò riempiendo la cassa toracica, il di lei profumo riempì ogni suo singolo alveolo polmonare.
Profumo di primavera e lavanda, profumo di prati verdi, profumo di corse giocosamente sensuali, nascondendosi per perdersi e poi godendo nel ritrovarsi, unirsi nell’ eterno incedere del mondo, prese un biscotto da una scatola di cartone mentre un moscone volò via fulmineo.
Non riusciva a leggere l’etichetta sulla scatola dei biscotti, macchie confuse si intrecciavano per schernire la sua anzianità.
Non riusciva più a leggere la realtà delle cose, la realtà del vivere, tutto era una macchia confusa e tutti erano macchie monocromatiche senza spessore, l’empatia col vivere era una sfumatura entropica nel suo bulbo oculare, il suo volto rugoso non rispecchiava più un’anima fiammante, il fervore del vivere rimaneva imbrigliato tra i solchi carnosi delle sue strade interiori.
Un fremito, un’onda, un gemito dello spirito si impossessò del suo vecchio corpo, ancora memoria, ancora nebbie di rimembranze; le braccia di lei cingevano i suoi fianchi mentre con le soffici e vellutate mani, di giovane donna voluttuosa, accarezzava le sue turgide natiche da giovane uomo virile; risaliva e, passando il dito medio sul coccige, finiva per riversarsi nuovamente in basso afferrando l’amore.
Sentiva la lingua di lei stuzzicargli le papille gustative in un intreccio di fluidi afrodisiaci, la sollevò per gettarla sul giaciglio cigolante, amplesso, vitalità, amore, il lato del biscotto zuppo di latte e caffè ricadde nella tazza mentre una piccola pioggia di liquido fuoriuscì, il ricordo fuoriuscì.
Si stropicciò un occhio, doveva andare in bagno, la sua prostata spingeva sulla vescica che ormai stava per esplodere e far piombare il mondo in un inferno nucleare all’ urina impoverita.
Incrostazioni di calcare abbracciavano l’interno della tazza come se il mondo non avesse altro appiglio nei tumulti del sopravvivere, la macchia bruna partiva dal basso del buco latrino per saltare fuori dall’acqua impossessandosi delle quattro mura del bagno; entrando nella piccola stanza venivi amalgamato dalla rigida sostanza marrone che tutto il mondo pervade, solo una minuscola finestra restituiva un bagliore di autentica luce di speranza.
Con una tenda di taffetà bordeaux oscurò il piccolo pertugio luminoso, il prezioso tessuto inondò il bagno di una luce rubino, alcova di piacere, grotta dei desideri, il volto di lei sorrise tra le nebbie dei sensi, poteva percepire le lenzuola setose sulle quali era distesa, poteva sentire il profumo del suo respiro, seni dai turgidi capezzoli scivolarono tra le sue mani, poteva ancora perfettamente percepire la sua essenza corporea, poteva ancora percepire i loro due corpi che si amalgamavano e si incrostavano vicendevolmente; scrollò il ricordo e tirò la catenella dell’ acqua, un vortice schiumoso risucchiò i suoi sentimenti che gorgogliarono muti.
Zoppicante tentò di tornare in cucina, le pareti del corridoio erano tappezzate da vecchi quadri polverosi rappresentanti scene di caccia e foto di avi in bianco e nero, cinghiali e fagiani fuggivano urlanti, fagiani azzannati da bracchi italiani, setter schiumanti avvinghiati a lepri inermi; volti smunti osservavano pantocratici le sue movenze, aveva vissuto una buona vita…
Aveva vissuto una buona vita?
Quei volti apatici lo fissavano immutati, giudici e carnefici, se non avesse vissuto una buona vita lo avrebbero scannato come selvaggina frollata, lo avrebbero sventrato e messo a rosolare a fuoco di brace, lentamente, crudelmente, avrebbero banchettato con le sue carni, spolpato le ossa e dato il resto in pasto ai cani.
Lei spalancò la porta del tempo ed entrò volteggiando leggiadra sulle piastrelle della memoria, il mondo si fermò, il corridoio si fermò, una musica eterea echeggiò, la polvere che ricopriva le pitture si sollevò annebbiando gli sguardi accusatori dei vetusti boia, le lepri azzannarono i segugi, i fagiani cavarono gli occhi ai cacciatori, la brace si spense e, divampando, la nebbia dei sensi accecò le sue cavità oculari, un velo d’ ombra si abbassò sulle sue pupille, era salvo, le sue carni non sarebbero state dilaniate, un senso di gioia pervase il suo animo, le sue ossa non sarebbero finite tra le fauci delle bestie, inciampò sul tappeto quasi cadendo, la cataratta era caduta, stava diventando cieco, era cieco, era sempre stato cieco.
Arrancò fino alla cucina, la tazza era ancora sul tavolo, fredda, latte freddo, caffè freddo, sopra il biscotto semi-sciolto un moscone stava vomitando succhi gastrici.
Si sedette mestamente con il desiderio di terminare la sua colazione, il moscone rimase immobile, moscone domestico, strofinò le pelose zampe posteriori e come se nessuno si fosse assiso a tavola continuò il suo pasto; un tubicino nerastro calava da ciò che potrebbe essere assimilato ad un muso e si poggiava sopra quel che restava del biscotto papposo, strofinava e pompava, pompava e strofinava, di tanto in tanto si librava in volo con un ronzio sordo per poi rituffarsi sulla deliziosa pietanza, un tonfo ottuso, di colpo tutto tacque, il moscone era morto, lui era morto, lei era morta.
Alzò lo sguardo ed un ombra imperante sovrastò la stanza, uno sciame di oscurità si diffuse per ogni dove riempiendo ogni singolo spazio infinitesimamente microscopico, disagio cognitivo, lettura dislessica della realtà, non vedeva più niente, sentiva un fischio acuto penetrargli le tempie, non capiva chi era, vecchio, giovane, uomo, donna, era morto, non capiva dove fosse, se in una latrina di esistenza o in una reggia di dissolutezza, piacere, dolore, odio, amore, morte, sentiva morte ovunque, annaspava cercando di percepire il suono della musica, silenzio, un irrazionale silenzio, un acre odore di melassa colpì violentemente le sue narici, sangue, liquidi seminali, muco verdastro, aveva vissuto una buona vita…
Aveva vissuto una buona vita?
Cadde esanime, morte, finalmente… Forse!
Avete vissuto una buona vita?
UNA BUONA VITA? è un racconto di Carlo Pezzetti presentato al progetto letterario “I sassi neri”.
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