UNO STRANO ALIENO di Maria Angela Iozzino
Foto di Pete Linforth da Pixabay
Erano le prime luci dell’alba.
Clodette si svegliò d’un tratto, scossa da uno strano rumore.
Uno scricchiolio della porta della sua stanza, che lei aveva l’abitudine di chiudere a chiave la sera, si ripeteva ad intermittenza, come se volesse scandire il tempo.
Si alzò dal letto in un istante, indossò le pantofole e si precipitò verso la porta.
Notò che in alto a sinistra c’erano le impronte di due mani e fu colta da un terribile spavento.
Scese le scale che davano sul ballatoio e cominciò a gridare in cerca di aiuto.
Nessuno la sentiva.
Credette che, essendo ancora presto, la gente stesse ancora dormendo.
Presto, però, si accorse che tutte le porte del condominio erano spalancate.
Rientrò nell’edificio per cercare di capire cosa stesse accadendo.
Un silenzio tombale le paralizzò le gambe.
A stento riuscì a portarsi davanti alla porta del suo dirimpettaio, Patrick, un ragazzo che lavorava come commesso in una caffetteria di Flagstaff.
Entrò col fiato in gola.
Le finestre erano spalancate, il letto disfatto, le tende erano state tagliate, i lampadari distrutti.
Quello strano scricchiolio riprese a farsi sentire con un ritmo serrato, il rumore divenne assordante.
Le porte dell’appartamento cominciarono tutte a vibrare.
Clodette si sentiva come immersa in un campo magnetico da cui non riusciva ad uscire.
Si accasciò a terra e perse i sensi.
Quando riaprì gli occhi, vide una strana creatura fissarla.
Non sapeva dove si trovasse né chi fosse quell’essere anomalo.
Provò un profondo sgomento, un immenso senso di smarrimento.
Non c’era nessuno a cui potesse rivolgersi per avere delle spiegazioni.
Improvvisamente, quella creatura bislacca le si avvicinò e le toccò la fronte, come se volesse accarezzarla.
Clodette impulsivamente si scostò, ma quando si accorse che quella aveva fatto un’espressione addolorata, gli porse spontaneamente la fronte.
L’omone aveva due labbra sottilissime, che per un momento, o almeno a Clodette parve di vedere così, sembrarono arcuarsi in un sorriso.
In quel preciso istante, Clodette si sentì sollevata.
Provò a chiedergli: «Come ti chiami?».
Con una voce metallica, quello rispose: «Boh».
Nessuno gli aveva dato un nome.
Non sapeva nemmeno lui chi fosse, da dove venisse e chi fossero i suoi genitori.
Clodette si guardò attorno: foglie di edera rivestivano tutte le pareti della stanza in cui si trovavano, e che lei non riconosceva.
Anche il soffitto era rivestito di foglie, e queste cadevano come pioggia sul letto dove “Boh” aveva portato Clodette.
Non l’aveva rapita, era solo accorso in suo aiuto.
L’aveva trovata riversa sul pavimento di Patrick, svenuta per la paura.
Boh stava facendo il suo giro di perlustrazione sulla terra per ritrovare i propri genitori, ma ancora Clodette non lo sapeva.
Di chi erano, allora, le impronte che la ragazza aveva trovato sulla porta della sua camera da letto?
Il cuore le batteva all’impazzata. Clodette ricordava adesso ogni minima cosa.
Un essere antropomorfo era riuscito, chissà come, a venir fuori da un suo sogno, anzi per meglio dire, da un suo incubo.
Era una sorta di centauro, metà uomo e metà bestia.
Aveva le ali ed il volto di un gipeto, ma gli arti, sia inferiori che superiori, erano giganteschi ed umani.
Si era appollaiato in cima ad una rupe e da lì osservava le strade, le valli, le campagne e le città.
Entrava con la sola forza dello sguardo nelle case degli esseri umani e le perlustrava da cima a fondo.
Sceglieva poi con cura quelle da visitare di persona.
In genere erano le case degli esseri umani più generosi ed altruisti.
Patrick, quella mattina, non arrivò al bar.
Il terribile gipeto lo aveva portato con sé nella sua casa.
Abitava in un castello diroccato con due inservienti dalla testa di gatto che lo servivano e riverivano in tutto.
Se non ottemperavano ai suoi comandi, venivano frustati dal “Giustiziere”, un orso argentato dalla pelle squamata.
Il gipeto aveva distorto con la forza i pensieri di Patrick.
Si era insinuato nei suoi sogni, nella sua vita e gli stava rubando l’anima.
Lo sottoponeva a torture di ogni genere pur di raggiungere il suo scopo: farlo diventare un mostro come lui.
Patrick era sempre stato un bravo ragazzo, lavorava dignitosamente in quel bar da anni ed aveva sempre anteposto l’onestà ad ogni altra cosa.
Dopo quell’incontro, Patrick aveva sviluppato un’unica ossessione: l’avidità.
Cominciò a rubare dappertutto, commettendo furti, rapine, si arrampicava sulle finestre di tutti i palazzi, entrava negli appartamenti, rovistava nei cassetti, trafugava ogni sorta di oggetti.
Il suo spirito si era ammalato. Lui stesso non si riconosceva più.
Il gipeto gli aveva praticato un sortilegio per il quale Patrick non pensava ad altro che ad accumulare danaro.
Quando il mostro agiva, entrava nell’anima dei suoi prescelti e faceva vedere loro il mondo con i suoi occhi.
Metteva a soqquadro le case non solo con lo scopo di portare via oggetti preziosi o soldi, ma anche per suscitare l’odio, l’avarizia, la rabbia negli animi delle vittime prescelte.
Poi, fu la volta di Clodette.
Era una ragazza molto altruista e generosa, incapace di commettere azioni cattive.
Il mostro, Imperatoraureus, si era insinuato di notte nella sua mente, mentre dormiva.
Clodette camminava lungo un precipizio, afferrando con le mani ciuffi d’erba che spuntavano dalle rocce; evitava di guardare in basso per non perdere l’equilibrio.
Le nuvole coprivano le cime dei monti e, presto, scese una nebbia fitta che in pochi secondi avvolse tutto.
Clodette non vedeva più niente, i piedi tremavano, il respiro divenne sempre più affannoso, le mani non sentivano più l’erba alla quale afferrarsi.
Incespicò ed in meno di un secondo si sentì cadere nel vuoto.
Il gipeto volò in basso velocemente e Clodette atterrò sulle ali morbide di quell’animale.
Un freddo agghiacciante penetrò le sue ossa.
Aprì gli occhi e si ritrovò riversa sul pavimento.
Si guardò intorno e vide la sua stanza trasformata: graffi rossi sulle pareti, le ante dei mobili divelte, le sue carte fatte in mille pezzi, le foto dei suoi genitori lacerate.
Provò una rabbia inimmaginabile e cominciò a provare il sentimento che lei stessa aveva sempre aborrito: l’odio contro chi le aveva fatto tutto questo.
Il gipeto aveva appena cominciato il suo lavoro di trasformazione degli esseri umani in esseri abietti.
Clodette si sentiva ribollire dall’ira.
Un sentimento di vendetta le pervase le membra.
Era come se le avessero iniettato della cicuta che, invece di avvelenarle il sangue, si stava insinuando piano piano nella sua anima.
Lottava contro se stessa, ma quella pozione mortale stava sortendo il suo effetto malefico.
Il gipeto, per concludere l’opera, si era trasformato in uno gnomo sadico ed aveva iniziato a distruggerle anche tutti gli abiti riposti nell’armadio.
Clodette rimase colpita da tanta mostruosità e l’unica cosa che desiderava era distruggere quell’avversario.
Si avventò contro lo gnomo, ma lui divenne trasparente, girandole vorticosamente attorno e creando un ciclone che la avvolse come in una spirale di fuoco.
Non distingueva più niente, solo gli occhi mefistofelici di quell’essere immondo.
Cadde nuovamente per terra, e riversa su di un fianco, sfinita, si riaddormentò.
Quando riprese i sensi, si ritrovò in una stanza, assistita da Boh.
Di fronte a quegli occhi spauriti dell’extraterrestre, il suo animo si placò dalla rabbia.
Si era creata in lei una gran confusione.
Non riusciva più a capire cosa fosse giusto e cosa sbagliato.
Il suo desiderio di vendetta ora sembrava essersi placato.
Boh le portò qualcosa da mangiare.
Dalla sua navicella, che aveva parcheggiato nel giardino di Clodette, aveva preso la “Pinkera”, una pietanza a base di erbe cotte a vapore, che lui adorava.
Da bere le portò il “Flunco”, una miscela ricavata dalla corteccia degli alberi.
Inizialmente Clodette si rifiutò di assaggiare quelle strane cose, ma poi decise di fidarsi e divorò tutto.
Boh le accarezzava i capelli con le sue mani grandi e le rimboccò le coperte per farla riposare un altro po’.
Quell’incubo le aveva tolto le energie.
Clodette si mise ad osservare la volta del cielo attraverso una finestra che dava sul cortile.
Si poneva tante domande.
Quando sarebbe tornato quell’orrendo gipeto e quale maleficio avrebbe commesso questa volta?
Dove erano i genitori di Boh? Lo stavano cercando? Da dove veniva Boh? E il gipeto?
Perché aveva scelto proprio lei per effettuare tutti quei sortilegi?
Mentre si chiedeva queste cose, afferrò le mani grandi di Boh per avere un po’ di conforto.
Boh ne fu felice perché gli altri extraterrestri lo avevano sempre escluso proprio a causa delle sue mani troppo grandi.
Si era sempre sentito solo ed abbandonato da tutti.
Chissà, forse anche suo padre e sua madre lo avevano abbandonato per la stessa ragione.
Le sue mani giganti facevano paura a tutti.
Forse pensavano che a causa della loro smisurata grandezza, fossero capaci di commettere azioni violente e crudeli, ma se davvero la pensavano in quel modo, allora non avevano capito un bel niente.
Boh era l’essere più buono del mondo e soffriva molto l’esclusione dai suoi coetanei a causa di quella sua anomalia fisica.
Lui aveva un cuore grande, addirittura più delle sue mani.
Aveva sempre aiutato tutti, ma non era stato mai ricambiato.
Gli altri alieni lo tenevano sempre in disparte e, se lui provava ad avvicinarsi, loro si allontanavano.
Boh si dispiaceva molto quando succedevano episodi del genere.
Si sentiva “diverso”.
Quando si trovava vicino a Clodette, invece, era molto felice.
Lei non lo disprezzava per le sue mani, anzi, gli chiedeva conforto.
Clodette e Boh ormai erano diventati amici.
Trascorsero tre mesi da quella prima, terribile notte.
Lei aveva accettato di conoscere il mondo del suo nuovo amico.
Erano anni che si aggirava tra i pianeti per seguire tutte le tracce che lo avrebbero riportato dai suoi genitori.
L’ultimo posto in cui era stato prima di approdare sulla Terra era Umbriel, un satellite di Urano.
Purtroppo non era riuscito a trovare nulla nemmeno lì.
Si era sentito stringere il cuore e l’ombra che caratterizzava quel satellite lo aveva invaso fino a fargli sentire una forte malinconia.
Ma Boh era un alieno tenace, non si arrese e proseguì il suo cammino.
Stava preparando un altro viaggio, destinazione Oberon, il satellite di Urano che porta il nome del re delle fate di Shakespeare in “Sogno di una notte di mezza estate”.
Si ricordava che una volta, quando era piccino, sua madre gli disse che era indispensabile portare calore in tutti i mondi possibili, specialmente in quelli più freddi.
Suo padre era d’accordo, perciò cominciarono a viaggiare nell’universo.
Boh li aveva sempre seguiti, ma una volta, attratto da un oggetto magico, si era allontanato da loro e non li aveva più ritrovati.
Non solo Boh voleva incontrarli di nuovo, ma voleva proseguire il suo viaggio.
Un giorno, Clodette preparò i bagagli e salì sulla navicella spaziale di Boh.
Non aveva paura di seguire il suo nuovo amico e di scoprire con lui mondi nuovi.
Boh le diede una tuta termica resistente alle temperature più basse.
Lui non aveva bisogno di indossarne una perché il suo corpo era adattabile a qualsiasi temperatura, da quelle più alte a quelle più basse.
Quando riceveva amore, amicizia e solidarietà, il suo organismo sviluppava anticorpi che lo rendevano più forte; viceversa, perdeva le forze quando si trovava in situazioni raccapriccianti.
Una volta, ad esempio, i suoi compagni alieni gli avevano fatto un brutto scherzo: avevano promesso di andare tutti insieme su Marte per aiutarlo a ritrovare la madre ed il padre.
La navicella spaziale era pronta. L’avevano parcheggiata proprio di fronte casa sua.
Ma appena lo videro uscire dalla porta, azionarono il motore e se ne andarono sghignazzando.
Boh ci rimase molto male, pensando fosse colpa delle mani troppo grandi.
Per fortuna, Clodette non era come loro. Voleva bene a Boh così com’era.
Ne apprezzava il cuore e poi quegli occhi così grandi e dolci le facevano tanta tenerezza.
Erano già le 7:30. Il sole faceva capolino.
Bisognava affrettarsi e partire.
Grazie a quella navicella superveloce, arrivarono su Oberon in meno di quattro ore.
Una magnifica distesa di ghiaccio avvolgeva il mantello roccioso.
Fu uno spettacolo strabiliante.
Fermarono la navicella in un punto dal quale si riusciva persino a vedere il mare: un mare di ghiaccio abitato da strane creature.
Clodette e Boh si avvicinarono e videro che quegli esseri avevano sembianze umane. Quando si accorsero della loro presenza, si agitarono ed andarono tutti a nascondersi dentro una caverna.
Due di esse, invece, si avvicinarono a passi lenti.
Portavano entrambe una fiaccola in mano, che serviva loro per rischiarare la strada e per riscaldare tutto ciò che incontravano.
Boh li guardò attentamente. Quei volti gli apparivano familiari.
Erano un uomo ed una donna dalle mani grandi.
La donna avvicinò la fiaccola al viso di Boh e scoppiò in un gran pianto.
«Nakite!» urlò d’un tratto.
«Sei proprio tu! Figlio mio!».
Lo abbracciò poi con tutte le sue forze.
Boh, che finalmente ora aveva un nome, riconobbe la madre. I due si strinsero forte.
Suo padre non riusciva ancora a credere ai suoi occhi.
Fu una gioia immensa per loro. Abbracciò a lungo quel figlio che aveva perso molti anni prima.
Clodette si commosse e non riuscì a trattenere le lacrime.
Le strane creature che si erano rintanate nella caverna sbucarono fuori all’improvviso e fecero una gran festa. Si misero tutte a danzare attorno a Nakite, battendo le mani.
Clodette, però, doveva tornare a casa sua.
Con un po’ di nostalgia salutò il suo amico e salì sulla navicella spaziale che l’avrebbe riportata sulla terra.
Nakite si era proposto di riaccompagnarla, ma lei non volle che si separasse di nuovo dai suoi genitori, anche se per poco tempo.
Durante il viaggio di ritorno si era addormentata, e, nel sogno, la venne a trovare di nuovo Imperatoraureus.
Distrusse tutto quello che si trovava dentro la navicella: tute termiche, scorte di cibo, bombole d’ossigeno.
La navicella, intanto, era arrivata sulla Terra.
Quando Clodette riaprì gli occhi e scese dalla navicella, si accorse che tutto era stato di nuovo distrutto, ma una cosa in lei era rimasta intatta: la sua voglia di amare.
Scorse quindi in lontananza una sagoma umana.
Si avvicinò e riconobbe il suo vicino di casa, Patrick.
Il ragazzo era accasciato a terra, senza forze.
Clodette gli diede da bere dell’acqua che aveva conservato e subito le sue labbra ripresero colore, per poi pronunciare alcune parole confuse: «Clodette, il mostro mi sta distruggendo, aiutami…».
Gli occhi di Clodette si riempirono di lacrime.
«Resisti, Patrick, ti aiuterò io».
Fece salire l’amico sulla navicella e lo portò a casa sua.
Il ragazzo vi rimase per alcuni giorni e piano piano si riprese.
Cominciò di nuovo a guardare il mondo con i suoi occhi.
L’ amore prese piede nel suo animo e le ombre cattive si diradarono sempre di più.
Smise per sempre di rubare e di commettere ingiustizie.
Dopo la guarigione di Patrick, anche Clodette sentì che dentro di lei stava avvenendo una metamorfosi: la rabbia, il rancore, il desiderio di vendetta che prima aveva provato non riuscirono più a scalfire il suo cuore.
Si ricordò di aver dimenticato la tuta regalatale da Nakite sulla navicella spaziale, così andò di corsa a recuperarla. La navicella era ancora lì ad aspettarla.
All’improvviso, Clodette notò che sullo sportello c’erano le impronte di due grosse mani, le stesse che aveva visto sulla porta di casa sua quel giorno di tanto tempo prima.
Qualcuno aveva cercato di proteggerla durante la visita del gipeto: due forze si erano scontrate.
Nakite aveva vinto.
Imperatoraureus, invece, era stato sconfitto.
UNO STRANO ALIENO è un racconto di Maria Angela Iozzino
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viviana
molto bello il racconto di maria angela iozzino