USATO di Maria Cristina Oi (anni sedici)

Foto di kdbloom da Pixabay 

Quando sono nato, ero soltanto una copia.

Una copia di una copia di una copia.

Tutti nascono come me. Tutti erano uguali a me. Tanti infiniti gemelli.

All’inizio, mi sentivo bello, unico. Ero pieno di colori, pieno di vita. Mi piaceva il mio fisico, la mia forma. Mi piaceva il mio stile. Ero in pace con me stesso. Se avessi saputo come fare, avrei sorriso. Mi sentivo speciale. Ero io.

Poi, ho visto gli altri, ed è stato come essere in una stanza piena di specchi. Ovunque guardavo, c’ero io. Tutti così uguali a me.

È stato allora che ho capito di non essere nessuno. Ero solamente uno di tanti. Uno qualunque.

Stretti e appiccicati in quello spazio buio, viaggiavamo nei camion.

L’asfalto era pieno di buche. Ogni volta che le ruote ci passavano su, io ed i miei compagni saltavamo, e poi, all’improvviso, eravamo uno sopra all’altro, tutto in disordine. Inermi, non potevamo sfuggire alla nostra sorte, non potevamo reagire.

Non mi capacito ancora di quanto tempo ho passato chiuso tra quelle pareti buie. I giorni passavano, ma io non vedevo l’alba. Non vedevo il tramonto. Sentivo soltanto che io ed i miei gemelli venivamo spostati da un camion all’altro.

Sentivo voci, ma non vedevo i volti. Non sapevo chi ci avesse messo lì. Avevo visto soltanto delle mani, mani grandi che avevano preso me ed i miei gemelli e ci avevano buttato lì, come se non avessimo un valore. Non avevo nemmeno un mese di vita.

Ho visto la luce dopo quelli che credo siano stati cinque mesi, o forse cinque anni.

Non avevo la cognizione del tempo. Non sapevo cosa volesse dire quella parola. Per un attimo sono rimasto accecato, poi mi sono abituato a quel nuovo strano mondo a colori.

La prima cosa che ho visto è stato un volto. Era un uomo pallido. Aveva degli occhiali rossi e i denti storti. Era forse la prima volta che vedevo per davvero il viso di un uomo, e non è stata una bella esperienza. Si chiamava Simone. Lo sapevo perché il suo amico lo chiamava così.

«Prendili, Simone. Mettili qui» diceva.

Aveva degli strani baffi. Ero circondato dai miei gemelli, così paurosamente uguali a me.

La seconda cosa che ho visto sono state le mani di Simone. Sono state anche la seconda cosa che ho odiato. Quelle mani sono state le responsabili dell’inizio di quello che mi piace chiamare inferno. Per colpa di quelle mani sono stato portato in un posto ancora peggiore di quello stretto spazio buio in cui avevo vissuto per mesi.

La prima cosa che ho odiato è stata me stesso.

Sono stato costretto a separarmi dai miei gemelli. Non li ho visti mai più. È stato un sollievo.

Non ero più circondato da esseri uguali a me in tutto e per tutto. Non lo sopportavo più. Troppa pressione per me. In quelle pareti buie sarei potuto esplodere.

Ora, però, incominciava un nuovo capitolo della mia vita. Potevo vedere la luce, le albe, i tramonti. Ero stato portato in un luogo bellissimo, un paradiso.

Avevo dei nuovi compagni. Simili a me, ma non uguali. Ognuno aveva la sua caratteristica, i suoi colori, il suo fisico, la sua forma. Eravamo una famiglia allegra.

Mi sentivo di nuovo bello. Avevo un’identità. Mi distinguevo. I miei gemelli ed il buio rappresentavano ormai il passato.

Quella nuova casa mi piaceva. Era forse la prima casa che avessi mai avuto.

Ogni giorno, alle sette in punto, arrivava Alessandro. Lui ci puliva, si prendeva cura di noi, di me e dei miei compagni.

Alessandro mi stava simpatico. Aveva i capelli bianchi, nonostante avesse a malapena trent’anni. Canticchiava sempre. Ogni giorno alla radio passava musica folk tranquilla. Alessandro era lui stesso un tipo tranquillo, malgrado fumasse come una ciminiera. Ne spegneva una e se ne accendeva un’altra. Nonostante questo, portava sempre rispetto a me e ad i miei compagni. Non ci usava mai per i suoi scopi personali.

Qual era il mio scopo? L’ho scoperto circa una settimana dopo essere arrivato nella mia nuova casa.

Un giorno un uomo barbuto si è avvicinato a me e ai miei compagni per osservarci. Cosa aveva da guardare? Questo mi chiedevo.

Poi ha iniziato a toccarci, a palparci, con quelle sue mani luride. Noi non potevamo reagire. Non sapevamo come fare.

Ad un tratto, ha preso il mio compagno, proprio di fianco a me. Lo ha guardato più da vicino. Poi si è rivolto ad Alessandro ed ha detto:

«Prendo questo!»

E Alessandro ha replicato:

«Un euro e cinquanta, grazie!»

Sono rimasto scioccato. Da quel giorno ho iniziato a odiare anche Alessandro.

Ogni giorno arrivavano nuove persone, e i miei compagni venivano presi, venduti al prezzo di un euro e cinquanta a sconosciuti con le mani sporche. Ogni giorno, spariva qualcuno. Chi se ne andava, veniva rimpiazzato. I miei compagni venivano rimpiazzati. Ne conoscevo di nuovi e ne perdevo di altri.

Eravamo soltanto una massa di prodotti pronti all’uso. Le persone, loro ci usavano per i loro luridi scopi personali.

Ogni giorno pregavo di non essere preso da quelle mani, pregavo di non avere quello sguardo indagatore puntato addosso. Ed Alessandro continuava a canticchiare. Il mio paradiso era diventato un incubo. La paura era più forte di qualsiasi altra cosa. L’alba, la mia amatissima alba, ora la odiavo. Significava l’inizio dell’incubo giornaliero. L’unica gioia che mi era rimasta era il tramonto. Era la certezza di essere sopravvissuto ad un altro giorno.

Ma, dopo il tramonto, dopo la notte, l’incubo ricominciava.

Una gioia finta, così come quella che avevo sempre provato. Non sapevo cosa volesse dire essere felici.

Se, all’inizio mi sentivo speciale, ora iniziavo a sentirmi uguale a tutti i miei compagni.

Di nuovo. Eravamo soltanto merce. Uguali. Avevamo tutti lo stesso scopo. Essere presi, venduti e usati da quelle luride mani.

Avevo paura, avevo davvero paura. Alessandro che la mattina canticchiava era diventata la colonna sonora perfetta per un film horror. Odiavo la sua voce stridula. Se avessi saputo come fare, gli avrei urlato di stare zitto.

Ma, dopo un po’, quella è diventata la mia routine quotidiana. Semplicemente mi sono abituato. Mi sono abituato alla paura, all’odio. Mi sono abituato quel posto.

Ho passato un anno e mezzo lì dentro. Il tempo è passato così lentamente che a me sembravano essere passati cinquant’anni. Però ero sopravvissuto, mentre la maggior parte dei miei compagni erano stati presi, e poi sostituiti. Poi, però, è arrivato anche il mio turno.

Un ragazzo un giorno si è fermato a guardarmi. Un ragazzo biondo, gli occhi neri. Stava fissando proprio me. Mi sono spaventato. Nessuno aveva mai posato lo sguardo su di me così a lungo. Ero arrivato alla conclusione di essere brutto, perché nessuno guardava i brutti. Ma era meglio essere butto che essere preso. Eppure, il biondo stava guardando proprio me.

Ha iniziato a toccarmi. Se avessi saputo come fare, gli avrei tirato uno schiaffo. E poi è successo. Mi ha preso.

«Un euro e cinquanta» ha detto Alessandro. La voce del biondo era molto bassa.

«Grazie!»

E poi il buio.

Ho rivisto la luce dopo un paio d’ore. Avrei preferito rimanere al buio. Sapevo perché ora la potevo vedere, la luce. Perché stavo per essere usato da quelle luride mani.

Il biondo, però, aveva le mani pulite. Splendidamente pulite. Durante l’anno e mezzo che avevo passato in quel luogo orribile, ero stato toccato almeno una decina di volte. Solo toccato, non preso.

Però le mani che avevano sfiorato il mio corpo erano sempre state piene di brutti tagli, o di sporcizia. Quelle del biondo, invece, erano pulite. Ma rimanevano pur sempre le mani di un tossico. E con quelle mani lui mi ha usato.

Era la mia prima volta. La prima volta che venivo usato. Ho provato dolore, uno strano pizzichio.

Se avessi saputo come fare, avrei urlato. Ho sentito caldo. Quelle mani stringevano troppo. Poi però mi sono calmato. Tutto è finito nel giro di un secondo. È passato un attimo. E sono stato usato di nuovo. Nuovo dolore. Nuovo pizzichio. Faceva male. E non potevo reagire. Ero inerme, e quelle mani troppo forti. Ma quello era soltanto l’inizio.

Con il tempo mi sono abituato anche a quello. Ad essere usato per i piaceri di un tossico.

Il pizzichio c’era sempre, ma ero più calmo. Sapevo che quello era il mio destino. Ero stato messo al mondo per quello, per essere usato. Era il mio unico scopo. Avrei tanto preferito essere inutile. Inutile e tranquillo.

Il biondo, però, per quanto poteva essere paradossale, mi trattava bene. Ero sempre al caldo. Mi puliva. Mi lasciava respirare di notte, quando mi lasciava tranquillo sul divano nel salotto. Avevo i miei spazi. Niente più compagni, niente più complessi di inferiorità. Non ero più una merce. Ero soltanto un triste oggetto, nato per essere usato. Ma almeno a qualcuno importava di me.

Non mi è mai passata per la mente l’idea che quella vita avrebbe potuto iniziare a piacermi. Ma è successo.

Ebbene sì, mi piaceva essere usato. Le mani del biondo erano pulite e morbide. Quando erano su di me, quando mi usava, provavo un brivido. Brivido che con il tempo si è trasformato in piacere. Ho accettato il mio destino. Essere usato era la mia natura. E doveva piacermi, che lo volessi o no.

Se all’inizio mi piaceva, con il tempo ho iniziato ad amarla, quella vita. Mi sono affezionato al biondo. Lui era un tipo solitario, aveva pochissimi amici, non usciva quasi mai di casa, se non per andare a lavorare.

Faceva il commesso in un negozio di televisori. Per andarci prendeva l’autobus, ogni giorno alle sei. Passava tutta la mattina a lavorare. Il pomeriggio, invece, lo aveva libero. Ancora non avevo capito come si chiamava. I clienti si rivolgevano a lui con:

«Mi scusi!»

I suoi amici lo chiamavano con un secco:

«Oh!»

Io lo chiamavo:

«Il biondo!»

E mi piaceva. Mi piaceva tanto stare con lui. Alla fine dei conti, mi trattava bene. Ed io, ormai, mi ero affezionato.

Stavo bene, finalmente, dopo tanto tempo. Se avessi saputo come fare, avrei abbracciato il biondo. Era grazie a lui se ora potevo stare tranquillo.

Un giorno eravamo sul pullman, diretti verso il negozio di televisori. Il biondo era seduto, io ero al buio. Lui parlava con qualcuno. Ridevano, scherzavano. Non riuscivo però ad afferrare le loro parole.

Poi, ad un tratto, ho visto la luce. Il biondo mi ha mostrato all’amico. Stavano parlando di me. Non sapevo se sentirmi fiero o se vomitare. In ogni caso, non sapevo come si facesse, a vomitare.

«Ma com’è bello!» ha detto l’amico.

Ho iniziato a spaventarmi. Quel tipo sembrava cattivo. Poi però ho capito di poter stare tranquillo. Finché ero con il biondo, ero al sicuro. Mi ha poggiato sul sedile, e mi sono accorto di avere tante persone intorno a me. Eravamo su un autobus. C’era chi si faceva i fatti suoi con il telefonino, chi parlava con gli amici. C’era anche un vecchietto con un ombrello giallo. Sembrava molto triste.

Poi l’autobus ha frenato. Il biondo e l’amico si sono alzati. Stavano ancora ridendo.

Io, invece, ero ancora sul sedile. Il biondo si stava allontanando, io rimanevo lì. Se avessi saputo come fare, gli avrei urlato di fermarsi. Ma lui non si è accorto di avermi lasciato lì. Mi ha abbandonato. Sono rimasto lì, solo, su quel sedile. Il biondo si è dimenticato di me.

Non ho avuto nemmeno il tempo di realizzare cosa fosse accaduto che ho sentito delle mani prendermi. Subito ho pensato che il biondo fosse tornato, che si fosse ricordato. Ma non era così. Le mani che ora mi stringevano erano piccole, minuscole. Sembravano quasi quelle di una bambina. Poi però ho visto il suo volto. Era una ragazza, piena di ricci scuri che le coprivano il viso. E sorrideva. Un sorriso innocuo, ma a me faceva paura. Se avessi saputo come fare, sarei scappato.

«Guarda cos’ho trovato!» ha urlato la ragazza.

Accanto a lei c’era un altro ragazzo con un cappellino nero in testa. Ora mi fissava anche lui.

Avevo paura. Non ero più al sicuro. Ho capito che la mia fine era arrivata quando sono tornato a vedere il buio. Ero stato preso da un’altra persona che non era il biondo, perché lui si era dimenticato di me. Ero nuovamente solo.

La mia nuova casa la odiavo. Passavo la maggior parte del tempo al buio. La ragazza mi ha mostrato a tutti i suoi amici e continuava a parlare di come fosse contenta di avermi trovato. Ero soltanto uno stupido oggetto, uno qualunque.

Aspettavo il momento in cui mi avrebbe usato. Era meglio che me lo togliessi subito il dente. Aspettavo e aspettavo, ma niente. È passata un’intera giornata, ma rimanevo ancora intatto. Non sapevo se essere triste o contento. Quella giornata mi era sembrata durare all’infinito.

La ragazza viveva insieme ai suoi amici. Erano cinque persone in tutto. Il tempo, però, lo avevo passato soltanto con lei. Al buio. Sugli autobus. Era sempre sugli autobus. Se avessi saputo come fare, sarei svenuto.

Mi mancava il biondo, ma al contempo lo odiavo. Si era dimenticato di me. Come aveva potuto? Come aveva potuto lasciarmi nelle mani di una sconosciuta? Continuavo a pormi queste domande. Mi sentivo così triste. Ero solo un oggetto. Il mio scopo era essere usato, ed è arrivato anche quell’odiato momento.

Essere usato dal biondo mi piaceva. Ma il solo pensiero di avere addosso le mani di qualcun altro mi disgustava. Ma dovevo smetterla di pensare a lui. Mi aveva abbandonato. La colpa era sua se mi trovavo nelle mani di una sconosciuta.

Era insieme al ragazzo con il cappellino nero. Era sera e loro erano affacciati alla finestra della loro camera da letto. Abitavano in un palazzo di sette piani, ed io ero in bilico. La ragazza mi teneva fra le sue mani, che erano l’unica cosa che mi impediva di cadere nel vuoto. Lei era affacciata e guardava giù. La mia vita appesa ad un filo. Perché il biondo mi aveva fatto questo? Ancora continuavo a chiedermelo. Avevo davvero tanta paura.

Lì, sospeso nel vuoto, la ragazza mi ha usato. Non ho provato nulla, soltanto tristezza. Infinita tristezza. Tristezza e paura.

«E se mi cade la sigaretta giù?» ha chiesto la ragazza.

Ho sentito il ragazzo ridere.

Poi sono scivolato.

«Cazzo, l’accendino!» ha urlato la ragazza, mentre io ero in caduta libera dal settimo piano.

Se avessi saputo come fare, avrei riso. Non sono mai stato amato davvero. Non sono mai stato nessuno, per nessuno, nemmeno per me.

USATO è un racconto di Maria Cristina Oi

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