VITTORINA di Patrizia Lo Bue
Se non c’è qualcuno che raccoglie una testimonianza, che ne scrive,
qualcuno che fa una foto, che ne lascia traccia in un libro, è come
se quei fatti non fossero mai avvenuti.
Sofferenze senza conseguenze, senza storia.
Perché la storia esiste solo se qualcuno la racconta.
Tiziano Terzani (1938-2004)
PREMESSA
Amore e morte, poi un lungo tunnel di dolore ed espiazione in fondo al quale si trova la luce della speranza. È il tema di una storia vera, illuminata dalla splendida figura di una giovane ragazza, Vittorina, elaborata sulla base dei ricordi di avvenimenti realmente accaduti tanti anni fa, nei primi anni del Novecento, in una Sicilia austera e povera, in cui i cambiamenti, specie nei piccoli centri dell’entroterra, erano impercettibili e la vita scorreva lenta e quasi come nell’Ottocento.
Erano episodi che mia madre amava narrare nelle sere d’inverno vicino al braciere, mentre si preparavano i dolci di mandorla per il prossimo Natale e con le mie zie e cugine si stava insieme a chiacchierare su tanti argomenti. Le storie più belle e che preferivo erano le storie d’amore. La storia di Vittorina con le sue luci e le sue ombre è fra quelle che mi aveva colpito di più per la sua trama, per il personaggio di particolare bellezza e di grande passione.
Vittorina vive profonde delusioni e umiliazioni, e nell’impeto del dolore commette anche un omicidio, ma la creatura innocente che metterà al mondo le ridarà la forza per riscattare la sua colpa e le restituirà il coraggio che la farà tornare a vivere e a sperare.
ANTEFATTO
I passi veloci risuonavano sulla strada acciottolata, bagnata da una pioggia sottile ed insistente. Camminava veloce con l’affanno che le serrava la gola mentre in mano serrava ancora la pistola con cui aveva ucciso il suo amore.
Scendeva le scale in pietra che, dalla parte alta di Cammarata, paese di stampo medievale, portavano giù, verso un quartiere più moderno e pianeggiante. Attraversava correndo i vicoli stretti, collegati da archi antichi, privi di ogni illuminazione che terminavano in strade più larghe o in improvvise piazzette ornate da fontane, da antiche chiese e palazzine signorili, rischiarate dai lampioni in ferro battuto. Data l’ora tarda non si incontrava quasi nessuno e i pochi passanti la guardavano meravigliati e incuriositi, ma nessuno aveva il coraggio di fermarla e domandarle cosa le fosse successo.
Molte case erano illuminate dal chiarore delle lampade ad olio e dalle finestre che si affacciavano sulla strada, si intravedevano stanze riscaldate dai camini o da grandi stufe e le tavole erano già imbandite per la cena.
Il freddo era intenso e una nebbia sottile si era diffusa, insinuandosi attorno alle case e ai campanili, avvolgendo tutto il paese che adagiato su una rupe dominante dell’omonimo monte, ricoperto di fitti boschi, sembrava un piccolo presepe, quasi tagliato fuori dal mondo e proiettato all’indietro in secoli passati.
La ragazza, nella sua corsa, non si accorgeva di nulla, né del freddo, né della pioggia sottile, né della nebbia. L’angoscia le opprimeva il respiro e le paralizzava il cuore spezzato.
Si fermò di colpo, accorgendosi di essere arrivata davanti ad un edificio scuro che portava sopra il grande portone la scritta Carabinieri. Tutto l’aspetto della giovane donna era stravolto. I meravigliosi capelli neri le cadevano sul collo in modo scomposto e arruffato, il viso estremamente pallido, segnato da ombre, era reso ancora più tragico dalla cupa espressione degli occhi. Tremava di paura e di orrore, ma con decisione entrò in un grande salone semi deserto e freddo, arredato con scrivanie, scaffali e panchine di attesa, e rivolgendosi all’uomo in divisa che l’osservava stupito, disse con voce accorata:
– Vi prego arrestatemi, ho ucciso il mio fidanzato! – poi le cadde la pistola a terra e svenne.
DAL CONVENTO ALL’INIZIO DI UNA NUOVA VITA
Tutto aveva avuto inizio un anno prima.
Uscendo dal convento, che l’aveva ospitata tanti anni, Vittorina si volse indietro a guardare il grande portone di legno scuro che si richiudeva lentamente e sollevando lo sguardo vide le suore che si erano affacciate dalle finestre del piano superiore del convento Santa Maria di Gesù di Cammarata, mentre tra le inferriate in ferro battuto, agitavano sorridendo i fazzoletti bianchi in segno di saluto. Ricambiò i saluti sorridendo anch’essa e poi volgendo le spalle, proseguì verso la sua nuova vita.
Non le avrebbe mai dimenticate. L’avevano accolta quando, appena una bimbetta, orfana dei genitori periti in un brutto incidente, giunse al convento in lacrime, trascinata quasi a forza da una lontana parente che non poteva o non voleva tenerla. Insensibile alle sue lacrime, la consegnò alle religiose che ospitavano bambini orfani o sfortunati e senza nemmeno voltarsi indietro, andò via e non la vide più.
Ricordava ancora la paura, il senso di solitudine e di abbandono provati quando entrò nell’edificio religioso imponente, freddo e silenzioso. La suora che le stava vicino le aveva preso la manina tremante di paura e chinandosi su di lei le aveva detto:
– Vittorina, non aver paura, ci siamo noi con te. Qui sei al sicuro e non ti mancherà nulla. –
L’ aveva condotta attraverso un lungo e largo corridoio grigio e silenzioso che sembrava non finire mai e mentre camminavano sul pavimento estremamente pulito di colore scuro, sul lato sinistro si susseguivano le stanze delle religiose, con porte in legno scuro, mentre sull’altro lato si aprivano grandi finestre, definite all’esterno da griglie di ferro, quasi a sottolineare la chiusura con il mondo esterno. Poi infine giunsero nella stanza dormitorio delle ragazze, che corrispondeva a due grandi saloni, con tanti lettini disposti in fila. Ovunque erano affisse figure sacre e un grande crocifisso di legno, posto al centro di una parete, sembrava benedire tutte quelle povere vite.
Nei giorni successivi al suo arrivo, chiusa in un silenzio ostinato, Vittorina rifiutò il cibo, che si limitava ad assaggiare e i suoi sonni erano spesso agitati. Spesso si svegliava in preda agli incubi, con il respiro affannoso in uno stato di angoscia che poi non le consentiva più di riprendere sonno facilmente.
Suor Maria le stava vicino tutte le volte che poteva, perché i bimbi erano tanti e aveva molte cose da fare, ma le dedicava un po’ di attenzione in più. Le altre bimbe, incuriosite, mentre giocavano nel cortile centrale dell’edificio, le si avvicinavano e cercavano di farla parlare, ma lei non voleva stare con nessuno.
– Dai Vittorina, vieni, vieni a giocare! – la invitavano spesso in coro.
Ma lei non voleva saperne, preferiva stare in un angolo silenziosa e triste.
Conservava in una tasca, una foto, che iniziava ad essere sbiadita, dei suoi genitori. Venivano ripresi giovani e sorridenti con lei piccina nel mezzo.
Era ciò che le rimaneva dei suoi affetti più cari e non se ne staccava mai.
Ogni tanto la prendeva e la guardava, cercava di comunicare con loro e poi sconfortata la rimetteva in tasca.
Poi lentamente cominciò ad adattarsi a quella nuova vita, timidamente riprese a mangiare, a fare qualche gioco con le altre bimbe e a parlare. E il tempo trascorse. Le stagioni si susseguivano e così gli anni. Vittorina crebbe e il suo carattere istintivamente gioioso prese il sopravvento sulla tristezza e sul dolore, mentre tra le spesse mura dell’istituto la vita scorreva cadenzata da ritmi e rituali, con orari precisi e ripetitivi, scanditi dal tocco della campana della cappella. La giornata era segnata da preghiere, canti e varie attività lavorative, tra cui quelle dedicate alla cucina, al cucito e al ricamo. Si trattava di attività che in collegio venivano insegnate per poter trovare un lavoro onesto, quando appena raggiunta la maggiore età, uscivano da lì.
In quel mondo chiuso e austero, Vittorina aveva imparato a cucinare pietanze di tutti i tipi e in particolare i dolci, soprattutto quelli a base di mandorla che anticamente venivano ordinati dalle famiglie benestanti alle suore dei conventi, severe e gelose custodi delle preziose e antiche ricette.
Ma lei, anche se aveva imparato a lavorare paste di mandorla, altri dolci e a ricamare stoffe preziose, preferiva confezionare abiti, attività in cui riusciva a perfezione e aveva presto deciso che questo sarebbe stato il suo lavoro, una volta fuori dall’istituto religioso.
Fu così che quel giorno, uscendo dal convento, si recò presso la sartoria femminile della signora Giuseppina. Andava con le referenze delle suore stesse che negli ultimi giorni si erano trovate indaffarate a trovarle una sistemazione per poter iniziare la sua nuova vita.
Avanzava per le strade acciottolate, spesso articolate in interminabili scalinate, ora in salita e a volte in discesa del paese arroccato sul monte, baluardo feudale di cui tramandava la memoria storica un castello con il torrione ormai in rovina. La sua figura diritta, chiusa nel vestito di lana grigio, di taglio semplice, destò immediatamente l’attenzione degli abitanti, che dalle finestre o dalla strada, si fermarono al suo passaggio per scrutare la nuova arrivata.
Di lei colpivano i capelli, una cascata di riccioli neri che si poggiavano sulle spalle e incorniciavano un bellissimo viso dall’incarnato chiaro, trasparente come l’alabastro dove brillavano due grandi occhi neri. Si rimaneva incantati ad ammirarla per la sua grazia e per la dolcezza del suo sorriso. La sua figura snella si muoveva con leggerezza, come se danzasse.
La signora Giuseppina restò meravigliata a guardarla e l’accolse con un sorriso, poi la presentò alle altre giovani che lavoravano in sartoria. La guardarono senza simpatia, insospettite e indispettite dalla sua bellezza, però, la discrezione e la riservatezza che Vittorina mostrò subito, cancellò in breve tempo ogni riserva nei suoi confronti e fu presto benvoluta. Ad una ad una si presentarono e iniziarono a farle domande, incantate da quella bellezza bruna e fiera e che si scopriva anche elegante nei gesti, nel modo di abbigliarsi, nel modo di parlare. Dopo un po’ di tempo, necessario per l’adattamento a quella nuova vita, tranquillizzata da quell’ambiente tranquillo e semplice, cominciò a sentirsi a proprio agio e a provare nuove sensazioni di gioia e di serenità. Scriveva lunghe lettere alle suore raccontando loro la sua nuova vita, descriveva tutto quello che faceva e che le succedeva durante la giornata, mentre iniziava ad amare quel lavoro che altre detestavano o affrontavano di malavoglia.
La sua mano muoveva sicura e veloce l’ago con il quale imbastiva orli e cuciva maniche, colletti e tasche. Sembrava nata per quel mestiere. Ma a volte si fermava quasi incantata a fissare il riquadro della finestra che dava sulla via principale, attraverso cui vedeva passare persone che non conosceva, donne con panieri di vimini per la spesa, contadini che camminavano in compagnia di uno o più animali al seguito. Spesso si trattava di un mulo o di caprette, mentre al loro passaggio qualche cagnolino si avvicinava scodinzolando la coda e abbaiando, facendo rintanare velocemente i gattini accovacciati negli angoli delle case. Passava anche qualche carrozza e persone vestite elegantemente. Quelle visioni di vita semplice e quotidiana, la portavano a rievocare nostalgicamente i suoi genitori, in una immagine che diveniva sempre più sfuocata, ma la portavano anche a pensare alle compagne, con cui era cresciuta in convento.
Le giornate si susseguivano e trascorrevano tranquille nella stanza della sartoria, dove il ritmo delle macchine da cucire e il chiacchiericcio delle donne scandivano il tempo e dove si tagliavano e cucivano stoffe di ogni genere e colore: dal cotone leggero al panno pesante, alla seta, all’organza, al lino. Allo sguardo vigile della signora Giuseppina non sfuggiva nulla, ma la sua apparenza burbera nascondeva in realtà un cuore tenero e a volte il suo istinto materno veniva fuori e sentiva di dover proteggere quelle ragazze come figlie.
Nella pausa per il pranzo la maggior parte di esse tornava a casa, specie chi aveva una famiglia che l’attendeva o aveva bambini da accudire. C’era chi invece preferiva fermarsi sul posto di lavoro e cucinava qualche pietanza nella grande stanza adiacente, dove la proprietaria aveva messo a disposizione la cucina. Vittorina era fra queste perché non le piaceva giungere a casa e non trovare nessuno. Il senso di solitudine la invadeva e si caricava di nostalgia. Così aveva modo anche di lavorare qualche altra ora e guadagnare qualcosa in più.
La sera infine tornava in quella che era diventata la sua casa, una piccola abitazione costruita in una delle strade interne, dipinta all’esterno di bianco, con poche stanze e senza alcuna eleganza, ma tenuta in ordine e pulita, mentre sulle finestre e sulle ringhiere dei balconi stavano appoggiati vasi colmi di gerani rossi e rosa che sembravano illuminare la facciata.
Dopo una giornata di lavoro si sentiva stanca, ma stesa nel suo lettino in ferro battuto, iniziava a fantasticare e a far progetti. Le sarebbe piaciuto in futuro avere una sartoria propria, dove confezionare vestiti eleganti, anche da sposa. Si vedeva, con gli occhi della fantasia, mentre dava consigli alle clienti che il suo innato buon gusto le suggeriva e mentre creava con stoffe pregiate, abiti particolari per tutte le occasioni. Così sognava e di tanto in tanto buttava giù qualche bozzetto, disegnava spose e bellissime donne con lunghi vestiti eleganti.
Certo non immaginava che presto la sua vita sarebbe cambiata, che avrebbe conosciuto l’amore, ma anche l’inganno e la perfidia che l’avrebbero portata a compiere un gesto estremo e a vivere la più grande e profonda disperazione.
L’AMORE E L’ODIO
Un giorno, mentre imbastiva con attenzione una gonna, si delineò sulla portafinestra di ingresso a pianterreno una alta figura maschile ed una volta fatto l’ingresso in sala, la luce dell’interno mostrò il suo aspetto di bel giovane vestito elegantemente e il volto bruno dai lineamenti infantili.
– La signora Giuseppina per favore? – chiese con tono gentile
– Oh, signor Montalto, che piacere, si accomodi… – rispose la signora, rizzandosi subito in piedi, col viso arrossato per l’emozione – In cosa posso servirla? –
– Mia madre profitta sempre di me. – rispose prontamente il giovane – Ha visto che stavo per uscire ed invece di mandare un fattorino, mi ha chiesto di passare da lei, per sapere se i suoi vestiti sono pronti. – aggiunse il giovane con un pizzico di ironia.
Un po’ affannata dall’agitazione, la signora si assicurò che fosse tutto pronto. Diede degli ordini ad alcune lavoranti e poi si avvicinò al giovane.
– Le mando tutto a casa stia tranquillo! – rispose la signora col sorriso un po’ tirato. Ma lui stava ancora lì, come se non avesse fretta di andar via, mentre i suoi occhi indagatori ispezionavano la stanza e si soffermavano sulle sartine, fermandosi inequivocabilmente sulla nuova arrivata.
Vittorina, imbarazzata dallo sguardo, continuò a lavorare sul vestito adagiato sul tavolo posto innanzi.
– Vedo che c’è personale nuovo! – continuò il giovane con gli occhi illuminati da un nuovo interesse.
– Oh sì, lei è Vittorina ed è una bravissima sarta! – la presentò con enfasi.
La ragazza teneva il capo chino sul lavoro, ma sentendosi nominata, lo sollevò di scatto, mostrando un volto pallido dall’espressione fiera, ma costretta a salutare.
Di fronte a quello sguardo indomito il signor Montalto sorrise e finalmente salutò con un mezzo inchino e uscì dalla sartoria.
Quel giorno la giovane che, al chiuso del convento, non aveva mai subìto lo sguardo maschile, non riuscì a mangiare e quando giunse a casa si rese conto di non pensare ad altro e si sentiva percorsa da una emozione nuova che non aveva mai provato.
La sua giovane età la portava a fantasticare sull’amore e stesa sul suo letto rivedeva gli occhi ridenti di quell’uomo che la guardavano con ammirazione e le sembrava impossibile che un signore così distinto provasse interesse per lei, ragazza orfana e umile. Non si accorgeva di possedere una bellezza particolare che colpiva, che destava ammirazione negli uomini e invidia nelle donne.
Trascorse una notte agitata, poi quando giunse l’ora solita di alzarsi si preparò con una cura maggiore, rispetto gli altri giorni. Scelse un vestito color verde chiaro che si era confezionata lei stessa, con un colletto in bisso bianco che si chiudeva nella scollatura con un piccolo grappolo di perline trasparenti. Raccolse i ricci capelli neri sulla nuca in una morbida coda che evidenziava il collo sottile e l’incarnato chiarissimo. Si sentiva percorsa da una strana euforia.
In sartoria si mise al lavoro in silenzio, con un’espressione un po’ distratta, atteggiamento che le sartine sue colleghe, ridacchiando e parlottando tra di loro, non tardarono a notare. Sembrava trasognata e assorta e il suo volto sembrava emanasse una strana luce. Ogni tanto guardava l’uscio come se aspettasse qualcuno. Ma nessuno, fino a quel momento era entrato. Finalmente nella tarda mattinata il signore che si era presentato il giorno precedente si fece avanti nuovamente dalla portafinestra e venne così a conoscenza che il suo nome era Pino Montalto. Entrò sorridente ed elegante, cercandola subito con lo sguardo. Doveva essere di una famiglia importante perché la signora Giuseppina, la proprietaria della sartoria, ogni volta che lui si presentava si alzava all’istante per servirlo.
– Cosa posso fare per voi, signor Montalto? –
– Mia madre mi ha preso per inserviente – disse in tono ironico – e mi manda a chiedervi se entro sabato può avere il vestito da cerimonia che vi ha ordinato pochi giorni fa. C’è un ricevimento e assolutamente vuole indossarlo per l’occasione. –
La signora Giuseppina rimase un attimo smarrita perché il lavoro era tanto e i giorni disponibili erano pochi, ma non si poteva scontentare la signora Montalto.
Per cui rispose sorridendo:
– Accontenteremo la sua cara mamma, stia tranquillo, più tardi verrò con una delle mie sartine per la prova. –
Quando il giovane Montalto uscì dalla sartoria, la signora cercò subito di Vittorina:
– Mia cara, tu sei una tra le più veloci lavoranti che ho e sei abbastanza precisa, per cui ora ti metti con Marietta che ha più esperienza e insieme preparate il vestito della signora Montalto, poi, visto che tu quasi sempre rimani per il pomeriggio, vieni con me per la prova. –
Vittorina arrossì al pensiero di dover andare nell’abitazione, sicuramente elegante, della famiglia Montalto, ma nel suo intimo era contenta perché avrebbe potuto vedere nuovamente il signor Pino.
Trascorse la mattinata con Marietta a tagliare e cucire la preziosa stoffa di velluto liscio di un colore verde così scuro da sembrare quasi nero. Il verde si percepiva nella lucentezza dei riflessi e nella morbidezza del modello. Non aveva mai visto la signora e Vittorina immaginava che dovesse essere una bella donna, forse un po’ vistosa, vista la misura dell’abito.
Dopo un pranzetto frugale a base di patate e insalata, le due donne si riordinarono velocemente e si avviarono a piedi per arrivare presso l’abitazione della famiglia Montalto. Non erano nobili, ma il marito, scomparso da qualche anno in seguito ad una brutta malattia, era un facoltoso avvocato ed era una delle famiglie più in vista del paese.
Rimasta improvvisamente vedova, la signora si era aggrappata al loro unico figlio, Pino, riversando su di lui tutte le sue speranze, imponendosi come una domatrice per fargli portare avanti lo studio legale del marito e per la realizzazione di un matrimonio importante. L’affetto per lui si trasformò piano piano in possessione, soffocandolo e controllandolo in tutte le sue mosse.
La palazzina signorile, con evidenti miscugli di stili, era poco distante dalla sartoria e si mostrava con la facciata principale sulla piazza del paese. Sopra il pesante portone di legno, che dava accesso ad un cortile interno, sporgevano tre balconi ricurvi in ferro battuto lavorato, ornati da numerose piante, molto curate e disposte in fila lungo la ringhiera.
Vittorina si sentiva molto intimidita da quella imponenza, ma camminando a fianco della signora Giuseppina, entrò in quella casa con passo sicuro.
Ritta in piedi la signora Montalto vide entrare le due donne nel grande salone elegantemente arredato con mobili antichi, tendaggi di broccato e vasellame di pregio. Una ricchezza ostentata che sconfinava con l’esagerazione nei decori dorati, nell’eccesso delle suppellettili e nell’opulenza dei mobili estremamente articolati. Un ambiente che diveniva pesante e cupo per la fioca luce che giungeva dalle grandi imposte dei balconi, nascoste dai drappeggi dei tendaggi.
Vedendole avanzare la signora rimase colpita dalla bellezza statuaria della ragazza, da quei capelli, che sebbene sollevati in una morbida coda, ricadevano in tanti ciuffetti di ricci neri sulle spalle, dalle movenze morbide del corpo, dal viso bellissimo in cui brillavano grandi occhi neri.
Naturalmente ne fu contrariata, perché tanta bellezza in una semplice ragazza che per vivere lavorava come sartina, si prospettava come un grande pericolo per suo figlio che, attratto dalle donne com’era, non avrebbe tardato a notarla.
Con le palpebre ristrette, quasi come due fessure, la signora la guardò con freddezza e immediatamente fece in modo di metterla in difficoltà durante la prova dell’abito.
– Stai attenta ragazza con quelle spille, mi hai punto! Non capisco perché si fanno lavorare stupide incompetenti! –
-Mi scusi, signora… – disse con mortificazione Vittorina, abbassando gli occhi.
La signora Giuseppina, che cercava di acquisire la sua benevolenza, conversava amabilmente con lei ed elargiva complimenti sulla sua figura e poi il vestito le stava benissimo.
Ma i complimenti non servirono ad ammorbidire l’espressione cupa della signora che anche se non brutta, era così rigida da sembrare sgradevole e più anziana dei suoi anni, con il naso lungo e i grigi capelli tirati in alto.
Dopo un po’ entrò Pino che, alto ed elegante nel suo vestito scuro, con un sorriso smagliante, si avvicinò alle sarte per salutarle.
Gli sguardi e i saluti che si scambiarono i due giovani non sfuggirono all’implacabile madre, che furbamente non disse nulla per non urtare il sensibile giovane, ma aveva già capito che sarebbe dovuta intervenire, magari al momento giusto. Rimase in silenzio covando una grande rabbia contro la giovane fanciulla e si sentiva nervosa per non aver potuto eliminare immediatamente quel pericolo che minacciava i suoi piani. L’odio si era già impossessata di lei, divampando nel suo animo come un grande male oscuro.
Nei giorni successivi ogni occasione diveniva buona ai due giovani per incontrarsi, parlare, sorridere, cercarsi con gli occhi. A Vittorina, sembrava impossibile che lui si interessasse alla sua persona, ma il sentimento che provava si ingigantiva sempre più. Cominciava a sentirsi confusa e non sapeva più come comportarsi.
Il giovane signorotto, che in quella fase del corteggiamento mostrava un sincero amore per Vittorina, continuò a farsi trovare vicino la sartoria e ad accompagnarla con galanteria fino a casa. Ancora la madre non aveva alzato le barriere e i divieti, anzi lo lasciava fare, ma come un feroce predatore, aspettava nell’ombra che la situazione divenisse matura, per poi intervenire e colpire.
Nacque l’amore tra i due giovani, un amore in apparenza vero e sincero che riempì la vita solitaria della giovane ragazza. Le sembrava di vivere una splendida favola e sognava un avvenire colmo di gioia: una casa, dei figli, l’affetto di un marito, specie dopo la dichiarazione di Pino, ma sapeva che era impossibile che si realizzasse.
– Sono una semplice ragazza orfana e voi siete una persona importante… –
– Cosa vuoi che mi importi, mia cara, la vostra bellezza e il mio amore supererà qualsiasi ostacolo. Io vi voglio per me, per tutta la vita. –
Quelle parole, che risuonavano sincere, stordivano la ragazza, che dopo tanti anni di solitudine, si sentiva finalmente felice, ma la paura per la importanza di quella famiglia, oscurava la sua gioia.
A nessuno era sfuggito quel fidanzamento e i pettegolezzi erano subito iniziati e la notizia passava di voce in voce, da casa a casa. Una novità sconvolgente in cui tutti trovavano da ridire, che un signore come lui non poteva certo fidanzarsi con una ragazza senza dote che usciva dall’orfanotrofio.
La signora Giuseppina, che si era affezionata alla giovane, la mise in guardia, perché sicuramente lui la stava prendendo in giro ed era meglio lasciarlo perdere.
L’invidia e la gelosia serpeggiavano tra la gente e pochi erano quelli che gioivano per lei, augurandole di essere felice. Ma purtroppo, il tradimento era in agguato, pronto a rovinare l’esistenza di Vittorina, perché l’odio, il disprezzo e il dolore subito l’avrebbero trasformata presto in un’assassina. L’amore e la dolcezza che la distinguevano si sarebbero spenti, insieme alla sua bellezza.
La signora Montalto assisteva a quella vicenda con la pazienza del ragno e stava nascosta nella sua ricca casa a tessere la sua tela fatta di trame, di sospetti e di calunnie.
In una calda sera d’estate il loro amore divenne passione travolgente e quella prima esperienza d’amore aveva lasciato Vittorina stordita e felice. Lui non diceva nulla, la guardava con amore e tenerezza e la stringeva al cuore.
Il ragazzo l’andava a trovare spesso, ma il suo atteggiamento piano piano cominciò a cambiare e il suo viso si riempiva di ombre. Ancor di più quando seppe che la ragazza era incinta. Cominciò allora ad allontanarsi e farsi vedere sempre più di rado, mentre un sorrisetto forzato gli induriva l’espressione del volto.
Lei non sapeva spiegarsi quel voltafaccia, quell’atteggiamento freddo e distaccato, quell’abbandono. Pensava che forse avesse commesso qualche errore e doveva scusarsi con lui. E si sentiva male, aveva spesso senso di nausea e quando lui non si fece più vedere iniziò ad avere paura.
Con il coraggio della disperazione Vittorina andò nella casa di lui; ma a riceverla c’era la madre, ritta in piedi, con la figura rigida, vestita di nero:
– Cosa vuoi ragazza? Come osi disturbarci? – disse con tono ostile.
– Desidero parlare con vostro figlio – rispose timidamente Vittorina, ma lo sguardo fiero e i grandi occhi neri che le brillavano rivelavano il suo carattere forte e determinato.
– Perché mio figlio dovrebbe parlare con te, sartina da quattro soldi. Che ti sei messa in testa? – e continuò implacabile – Mio figlio si è passato il tempo con te, ora è stufo e ha cose più importanti da fare che chiacchierare con una poco di buono come te. – concluse con freddezza.
– Vorrei che me lo dicesse lui con la sua voce, signora – rispose la ragazza, senza abbassare lo sguardo.
– Sei preoccupata perché sei incinta? – la derise implacabile la madre che non aspettava altro e continuò con cattiveria, fissando il viso pallido della ragazza, e infierendo su di lei cominciò a dirle di essere a conoscenza di tutto, ma bisognava che si togliesse ogni speranza anche perché quel bambino non era certo di suo figlio ed era figlio chissà di chi.
– E non pensare di chiedere denaro, perché non ne avrai. Ricordati anche che posso farti licenziare subito, quindi vai via e non tornare più. –
Gli occhi grandi e scuri della giovane cercarono nella stanza, come se ne avvertisse la presenza, colui che era stato il suo amore, e vide con meraviglia che era seduto in un angolo della stanza in penombra e sperò che dicesse qualcosa in sua difesa, ma vide solo la sua testa china, incapace di dire una parola, paralizzato dall’autorità di una madre piena di veleno e odio e che certo aveva ben altri progetti per il suo amato figlio.
Quella visione rese la situazione insopportabile e così Vittorina andò via quasi correndo, ferita e umiliata, ma non piangeva, perché era troppo grande lo sgomento che provava.
A casa le sembrò tutto un incubo. Non riusciva a credere che Pino non l’amasse più e non volesse la sua creatura.
Sperava che Pino riflettesse e tornasse da lei. Non voleva le sue ricchezze, non pensava al matrimonio, ma desiderava solo che Pino le rimanesse vicino, che non l’abbandonasse.
Soffrendo cercò di continuare la vita di ogni giorno ma sentiva di essere guardata male e che si era sollevata una barriera di commenti ostili contro di lei. Sentiva un’atmosfera negativa e la realtà divenne insopportabile quando la signora Montalto, tramando crudelmente contro di lei, cominciò a diffamare la povera fanciulla dicendo alle vicine che aveva stregato suo figlio e che il bambino in arrivo non era certo suo.
Le voci del recente scandalo si moltiplicarono e simili ai tentacoli di una piovra raggiunsero anche la sartoria. La proprietaria che benevolmente l’aveva accolta, e che aveva pensato che Vittorina fosse solo una povera ingenua, si arrabbiò sapendo che invece il bimbo era di chissà chi, la licenziò su due piedi, disgustata da un comportamento così disonesto e anche le sartine le voltarono le spalle. Nessuno le voleva credere e nessuno le rimase vicino. Così Vittorina si trovò sola, col cuore spezzato, diffamata e senza più il lavoro.
Sembrava che un brutto vento avesse cancellato la sua bellezza e la sua gioia, ora si sentiva spenta e sola con un bimbo in grembo a cui non sapeva che futuro dare.
Aspettò nell’ombra della strada che il giovanotto uscisse dalla sua abitazione. Attese, con la sua splendida figura divenuta ora quasi ricurva, all’angolo del palazzo, mentre il vento freddo della stagione autunnale in arrivo, la colpiva facendola rabbrividire. Lo vide uscire, spavaldo e sorridente come sempre. Gli si accostò chiamandolo.
Egli si fermò girando la testa verso di lei, mentre nel volto gli si dipingeva una espressione contrariata:
– Cosa volete? – le disse
La giovane non riuscì a reprimere un singhiozzo e guardandolo tra le lacrime lo implorò:
– Voglio sapere se è vero che non mi amate più e che non volete la vostra creatura. –
La ragazza aveva perso ogni orgoglio e si sentiva pronta a supplicarlo.
La risata sarcastica di Pino risuonò nella strada in quel momento deserta e poi con cattiveria aggiunse duramente:
– Non ti sposerò mai, se è questo che vuoi sapere. Sai, mia madre ha di sicuro ragione. – Girò le spalle, facendole intendere che ogni argomento era concluso e chiuso nel vestito elegante continuò a camminare facendole capire che non si tornava più sull’argomento. Sconvolta, Vittorina, andò nella dimora dove aveva vissuto fino a quel momento, ma che la proprietaria aveva intimato di lasciare perché non voleva disoneste nella sua casa.
Tra i bagagli che stavano già pronti nell’ingresso, si ricordò di avere una pistola lasciatale dal padre, regolarmente denunciata, che lei teneva per difendersi da qualsiasi pericolo.
I capelli, una volta una cascata di riccioli neri sulle spalle, erano tutti arruffati e il suo aspetto era completamente sconvolto.
Tornò ad aspettare vicino al portone ed era sera, dopo ore infinitamente lunghe, quando lo vide arrivare e come se vivesse un incubo gli si avvicinò supplicandolo.
Ancora una volta lui la allontanò con il braccio come fosse un insetto fastidioso e si mise a ridere crudelmente:
– Ma ti sei vista? Sembri una pazza, pensi proprio che io mi possa sposare con te? Lo sai che mi sono fidanzato con una ragazza seria, di una famiglia importante che sposerò tra un mese? –
Vittorina sconvolta urlò, urlò il suo dolore, la sua rabbia e il suo urlo venne coperto dallo sparo che rimbombò nella strada.
Il proiettile andò dritto al cuore di Pino che morì all’istante.
IL PROCESSO
Passarono alcuni minuti successivi allo sparo, lunghi come un’eternità, mentre qualcuno iniziava ad affacciarsi. Vittorina, sconvolta, guardava inorridita il corpo senza vita di Pino, quello che era stato il suo amore, disteso sulla strada e che una pioggia sottile cominciava a bagnare.
Guardò in alto verso il cielo, forse cercando Dio, poi iniziò a correre.
In quella sera d’inverno, fredda e piovosa, Vittorina si costituì alle forze dell’ordine e i giorni che seguirono divennero un grande incubo nero senza luce.
Il funerale del giovane fu celebrato con una cerimonia solenne e con grande partecipazione della gente che condannava la ragazza senza pietà.
Nel buio della sua cella Vittorina avrebbe voluto sprofondare in un sonno continuo e non pensare più a nulla. Non si accorgeva nemmeno del tempo che trascorreva. La creatura cresceva in lei e come una carezza si faceva sentire ora con un colpetto, ora con un movimento leggero e dolce. Le sue forme si arrotondavano e il vestito di stoffa grezza iniziava a starle stretto.
Il meccanismo della giustizia iniziò il suo percorso inarrestabile e quasi tutti si auguravano il massimo della pena per quella poco di buono.
Fu interrogata tante volte, ma lei rispondeva a monosillabi, chiusa in un dolore senza fine.
Venne nominato un avvocato di ufficio per la sua difesa che si presentò nel carcere del paese, dove era detenuta la ragazza. Quando venne chiamata per il colloquio Vittorina rispose di non volere alcuna difesa.
– Sono colpevole, avvocato, io non merito alcuna difesa, anzi è giusto che mi condannino al massimo della pena! –
L’Avvocato Di Maio, un uomo di mezza età, che aveva seguito quella vicenda con interesse e conosceva l’arroganza della famiglia Montalto, dissentiva da tutte quelle dicerie che venivano dette in paese. Intenerito da quel viso disperato e spento della giovane, cercò di convincerla, parlandole come se avesse parlato ad una bimba.
– Dai Vittorina, siediti e raccontami tutto, dall’inizio. –
Dopo tanta insistenza, finalmente lei si convinse e così, vestita con il ruvido vestito grigio imposto dal carcere, i capelli raccolti e il volto pallido chino, la ragazza con semplicità iniziò a narrare la sua storia. A convincerla a parlare era stata una vaga somiglianza dell’avvocato con suo padre, che guardava spesso nella foto ormai sbiadita che teneva sempre vicino e poi questo avvocato le parlava con un tono di comprensione e di amicizia. Non sentiva nella voce cattiveria e sarcasmo, per questo aveva deciso di narrargli la sua triste vicenda.
L’avvocato prese degli appunti, l’ascoltò con attenzione senza fermarla, solo ogni tanto le poneva qualche domanda. Poi, dopo averle detto parole di conforto e di incoraggiamento, se ne andò.
Ma lei si lasciava andare, consapevole del suo reato e si disperava perché giorno dopo giorno, sentiva crescere dentro di sé quella creatura innocente.
Guardava dalle sbarre le giornate che trascorrevano lunghe, con il buio che giungeva presto nelle prime ore del pomeriggio e sentiva di non essere più viva, come se la sua vita si fosse spenta insieme a quella di Pino. A volte pensava di non volere nemmeno più la creatura che portava in grembo, ma poi avvertiva piccoli movimenti, come il battito delle ali di una farfalla e guardava stupita il suo corpo che si modificava, che si arrotondava sempre più.
Le uniche visite erano quelle dell’avvocato che la incoraggiava sempre e del parroco, che l’ammoniva ogni volta di essere stata leggera e di aver fatto una cosa orribile. Doveva pentirsi se voleva il perdono divino.
Il processo ebbe finalmente inizio. L’avvenimento aveva destato molto scalpore e il salone era gremito di persone, accorse da molte località, avide di novità, pronte a spettegolare e a curiosare.
La stanza era gremita di persone e l’aria era soffocante. Gli occhi erano puntati su Vittorina che spaventata stava dietro le sbarre, quasi raggomitolata su se stessa. Sentiva un sudore freddo attraversarle la schiena e le mancava il respiro.
In prima fila la madre, ricoperta da un lugubre e lungo velo nero, seduta accanto al Pubblico Ministero, un uomo imponente con una barba strana a forma di pizzetto che esibiva un atteggiamento arrogante e vanitoso, vista la semplicità del caso.
Il processo ebbe inizio con l’accusa che dipinse il comportamento della ragazza come quello di una avventuriera che voleva approfittarsi del povero Pino, per farsi sposare e diventare ricca. Le parole dure di accusa del Pubblico Ministero avevano suscitato scalpore nei cittadini che la volevano condannata.
Si ascoltarono alcune testimonianze, tutte pronunciate a sfavore della povera Vittorina, parole che fomentarono ancora di più l’immagine negativa della ragazza e del suo gesto assassino e lo scenario divenne ancora più drammatico, quando si presentò la madre della vittima, completamente vestita di nero, immagine di un dolore senza fine.
Quando Vittorina salì alla sbarra degli imputati, molti inveirono contro di lei chiamandola assassina, imbrogliona, profittatrice. Il silenzio fu ripristinato presto dall’ autorità del giudice e la voce flebile della ragazza si levò nell’aula, guardando negli occhi il giudice, con il capo e lo sguardo dritto, dichiarandosi colpevole del gesto. Raccontò, spronata dalle domande che le venivano poste, la storia di quell’amore tragico e del dolore provato e che non meritava nessuna pietà. Chiedeva perdono del gesto compiuto, ma desiderava solo espiare la sua colpa.
Poi, quando il processo sembrava definito, venne data la parola all’avvocato difensore e la sua voce, profonda e decisa, si levò.
Iniziò ad esporre con calma la storia di una ragazza rimasta presto orfana e che presto si era messa a lavorare.
– La nostra Vittorina è colpevole sì, ma è una colpa essere così bella?
Essa è stata lusingata, circuita, sedotta da promesse false e bugiarde da chi voleva solo profittare della sua solitudine e giovane età. Si è resa colpevole di essersi innamorata, di cedere alle lusinghe di un uomo, che pace alla sua anima, aveva insistito con le sue promesse.
Messo di fronte alle sue responsabilità, ecco che non è capace di gestirle, si rifiuta e in combutta familiare, si decide di infangare la ragazza, di calunniarla, di umiliarla e rovinarle quel poco che si era guadagnata con il suo lavoro onesto. Viene derisa, maltrattata e scacciata, licenziata in tronco. La sua dignità è stata più volte calpestata infangata da falsità e cattiveria. Di fronte alla notizia che lui si era fidanzato con una ragazza dell’alta società e ad altre provocazioni, Vittorina perde la testa, lei, ragazza dolce e gentile, trasformata in assassina dalla gelosia e dall’odio di una famiglia. –
L’avvocato sostò un attimo con il capo chino senza più parlare, mentre l’aria era divenuta irrespirabile nel silenzio assoluto dell’aula. Poi continuò:
– Vittorina è colpevole e lei stessa, da subito si è costituita alle forze dell’ordine, ma grandi sono state le provocazioni e le calunnie subìte. –
Guardando il giudice concluse il suo discorso:
– Vittorina deve e vuole pagare, ma chiedo a questo tribunale le attenuanti per il gesto e quindi una riduzione sulla sua condanna. –
Lo sguardo della gente era cambiato, divenendo quasi benevolo e il mormorio delle persone che affollavano l’aula fu interrotto dal giudice con un colpo di martelletto sull’alto scrigno di legno.
Quell’atmosfera di commozione che si era creato con le parole della difesa, venne spezzato dall’urlo dell’odio della madre, che senza più ritegno le vomitò addosso, come fosse un’indemoniata, ingiurie e parole di disprezzo indicibili. Toccò nuovamente al giudice riportare l’ordine e imporre il silenzio.
– Adesso la corte si ritira per deliberare la sentenza! – dichiarò il giudice sollevandosi in piedi, gesto che fu seguito da tutti.
Le emozioni provate, facevano agitare la sua creatura che si muoveva dentro di sé quasi a confortarla e a farle capire che non doveva spaventarsi, che nella sua vita non sarebbe stata più sola.
Infine, la sentenza del giudice, che giunse l’indomani, la dichiarò colpevole, ma le vennero riconosciute delle attenuanti e venne condannata a sette anni da trascorrere nel carcere del paese. Tale dichiarazione fu accolta con approvazione della gente, che applaudì. L’Avvocato Di Maio, colui che l’aveva difesa, guardò il Pubblico Ministero e si accorse che quest’ultimo era molto contrariato, si girò verso la ragazza e con fare soddisfatto del risultato, sorrise alla ragazza e quasi l’abbracciò. Mentre la madre, implacabile come una divinità del male, le puntava il dito inviandole terribili maledizioni.
Ma nulla sembrava interessare alla giovane che, pallida e distaccata da tutto, pensava con orrore al gesto compiuto, si sentiva piena di tristezza e accettava il castigo come una giusta punizione. Il vestito di lana grezza color grigio cominciava a venirle stretto e si sentiva soffocare e la pelle che si irritava a quel contatto. Era stanca.
Desiderava presto recarsi nella sua cella, come fosse un rifugio, andare lì e rimanere da sola.
RITORNO ALLA VITA
Vittorina trascorreva le giornate in silenzio, meditando tristemente sulla sua vita. Spesso non dormiva e si metteva da parte, come se avesse voluto sparire. La creatura cresceva sempre più e spesso si chiedeva che futuro poteva dare al figlio o alla figlia che stava per nascere.
Quando arrivò il tempo, dopo un lungo travaglio, nacque in carcere una bella bambina che Vittorina volle chiamare Aurora, come l’aurora di un nuovo giorno, pieno di speranza, speranza per quella creatura che veniva al mondo tra le grigie mura dell’edificio penitenziario.
Tutti quelli che erano lì in carcere avevano imparato a volerle bene e le stavano vicini per cercare di farla tornare a sorridere, quel bellissimo sorriso che le illuminava il viso e che ormai sembrava spento per sempre.
Dovere accudire alla bimba, la costrinse a reagire e si trovava spesso a guardarla con apprensione e con tenerezza. Nelle ore d’aria andava fuori nel cortile, con la bimba tra le braccia a respirare l’aria fresca e vedere un po’ di luce. Rimaneva lì a cullare la sua creatura con il sole che le avvolgeva in un caldo abbraccio, guardandola crescere di giorno in giorno e una tenerezza sempre più grande le riempiva l’animo.
Trascorse la prima estate e giunse di nuovo il freddo e l’inverno e fu in una buia giornata piovosa che si trovò dinanzi una nuova guardia carceraria giunta lì da poco.
Si trattava di un giovane bruno, con lo sguardo buono di nome Antonio, che rimase subito colpito dalla bellezza di Vittorina. Aveva saputo la sua storia e ora ammirava quella figura snella, il dolce ovale del viso, pieno di tristezza e lo colpiva lo sguardo pieno di amore diretto alla piccola bimba che si faceva ogni giorno più bella.
Lentamente Vittorina uscì dal tunnel della sofferenza e cominciò ad avvertire un senso di pace, mentre Antonio non perdeva occasione per starle vicino, la colmava di attenzioni e la trattava con rispetto.
Vittorina si accorse di cominciare a guardare Antonio con occhi diversi e a provare gioia ogni volta che gli stava vicino, spesso giocava con la sua bimba facendola ridere divertita.
Un giorno Antonio le chiese di sposarlo e condividere la loro vita.
La richiesta la colmava di gioia, ma non si sentiva degna di quella proposta.
Glielo disse:
– Antonio, io sono una assassina, ho compiuto una azione bruttissima e ho una figlia! –
– Amo tua figlia Aurora come amo te. Sei diventata assassina, come chiunque può diventare quando si subiscono provocazioni, cattiverie e ferite come le hai subite tu.
Dopo circa un mese si sposarono con una semplice cerimonia nella piccola cappella del carcere e il direttore offri dei dolcini a tutti.
Per buona condotta, Vittorina uscì presto dal carcere e iniziò una nuova vita. Il suo cammino adesso era illuminato dalla speranza e con Antonio e con la piccola Aurora iniziò un nuovo percorso di felicità.
La madre di Pino visse i restanti anni da sola, disperata e folle nelle buie ed eleganti sale del suo palazzo, ma mai pentita di ciò che aveva fatto, della tragedia suscitata dal suo odio.
Nessuno parlò più di lei e il suo ricordò svanì nel buio del tempo che tutto cancella.
Vittorina è un racconto di Patrizia Lo Bue