VOCI di Martina Enny (17 anni)

Carol non aveva ancora compiuto ventitré anni quando venne mandata contro la sua volontà al St. Bernand Hospital, nella cittadina di Hanwell, a pochi chilometri da Londra.

L’intenzione dei suoi genitori era quella di trovare un posto sicuro e di supporto per la loro povera figlia, la quale, a detta loro, a causa delle sue “scelte sbagliate” aveva portato a un netto indebolimento della sua salute mentale, a seguito di quell’avvenimento dello scorso novembre e di cui la stessa Carol preferiva scordare tutto.

Ci volle un mese intero per arrivare a una soluzione plausibile per tutti e due, e alla fine, dopo varie litigate e bronci per tutto il periodo natalizio, Mr. e Mrs. Walker capirono che per la figlia non si poteva più far ricorso a ulteriori giustificazioni per la tremenda vicenda.

L’unico modo per salvarla dalla perdizione era il manicomio, secondo i consigli dell’avvocato di famiglia. Non vi poteva essere altrimenti.

«La vostra Carol sarà nelle mani di Dio» disse con sicurezza l’avvocato un giorno, e ribadito successivamente dal proprietario del manicomio, Mr. Parker.

Dopo le parole suggestive dei due dottori i Walker non avevano più alcun dubbio, la giovane sarebbe finita di lì a poco in quello stabilimento così ben gestito e di cui parlavano tutti bene, anche dai giornali londinesi. Hanwell aveva una così bella reputazione in fatto di cura mentale che lasciava tutti i parenti dei pazienti calmi e soddisfatti. Non era il caso per i pazienti, tuttavia.

Si diceva infatti che il manicomio, nato verso la metà del diciannovesimo secolo, fosse un luogo tutt’altro che soddisfacente: inizialmente lo stabilimento era utilizzato per curare la cosiddette anomalie dei poveri che non potevano permettersi cure mediche adeguate, ma nel corso degli anni, a causa del sovraffollamento di questi ultimi, il manicomio venne liberato della maggior parte dei malati e mandati in un carcere più vicino, dato che per la mentalità dell’epoca la differenza tra malato di mente e criminale non era molta.

I veri cambiamenti vennero effettuati proprio in questo periodo, quando i poveri vennero cacciati via e le stanze della struttura vennero riempite da figli di famiglie benestanti o comunque più normali, che potessero donare una reputazione ancora più bella all’edificio.

Nonostante questi cambiamenti, il metodo di tortura all’interno del St. Bernard Hospital rimaneva tale che i pazienti non potessero spifferare alcuna parola a riguardo senza essere severamente puniti in modi tutt’altro che gentili.

La realtà all’interno dell’ospedale psichiatrico era tutto fuorché semplice e confortevole, eppure i giornali non ne parlavano o comunque non ne erano informati. L’unico commento negativo venne pubblicato da un presunto ex paziente dell’ospedale che riteneva che “gli uomini negassero l’inferno, ma non ancora Hanwell”.

Gli occhi curiosi di Carol vennero catturati da questa inconsueta frase, mentre ella sfogliava il giornale che l’avrebbe accompagnata nel suo viaggio in treno ad Hanwell. Con lei vi erano i suoi genitori, che la fissavano apprensivi dalla parte opposta del tavolino.

Era una ventosa giornata di gennaio, e Carol non si sentiva per niente bene.

Fuori dal finestrino il paesaggio grigio e spento della brughiera dove viveva stava via via sfumando fino a raggiungere quasi le gradazioni del nero. Stava ormai arrivando un temporale.

Carol non staccò gli occhi dal giornale per un attimo, paurosa di poter incontrare gli occhi preoccupati dei suoi genitori, e non si accorse minimamente del tempo che passò come acqua tra le dita d’una mano.

In un attimo arrivarono a Londra, a Victoria’s Station, dove il tempo si era ormai calmato.

“È giunto il momento” pensò la giovane ripiegando il giornale.

Prese un respiro ed esclamò:

«Andrà tutto bene!»

La famiglia scese dal treno, e dopo aver trovato un taxi disponibile partirono immediatamente per il paesino vicino di Hanwell, dove Carol avrebbe passato gran parte della sua vita.

Durante il viaggio nessuno parlò o mostrò segno di compassione o tristezza per l’imminente rottura della famiglia.

Era un momento abbastanza imbarazzante, nel quale Carol non fece altro che guardare fuori dal finestrino, dove il cielo all’orizzonte era ancora abbastanza minaccioso, e giocare con i suoi capelli corti, stringendo ogni tanto con l’altra mano l’orlo della gonna.

Il viaggio non durò che un quarto d’ora, ma alla ragazza sembravano essere passati anni, forse decenni, per via della tensione. La macchina parcheggiò in un cortile abbastanza largo, contornato da un alto recinto di forma quadrangolare che terminava con un enorme cancello in ferro, aperto, all’apparenza molto antico, ornato da grandi simboli circolari e ruggine.

Carol aspettò qualche istante prima di scendere dall’automobile, avvolta nei suoi pensieri. Non era certamente un momento molto bello per lei.

Non appena saltò giù, fu accolta dal proprietario dell’edificio, Mr. Parker, che la salutò calorosamente con una stretta di mano.

Finalmente i genitori si decisero a proferire parola mettendo fine a quel momento di imbarazzo generale.

Fu in quel momento, che Carol si rese conto della grandezza dell’edificio e della quantità di occhi curiosi e irrequieti dietro le finestre alte e polverose. Avevano tutti gli occhi fissi sulla nuova paziente, occhi grandi, traboccanti di curiosità e iniettati di pazzia.

Carol non riusciva a concepire come quegli occhi così macabri potessero essere simili ai suoi, come quelle persone così strane potessero essere come lei. Non riusciva a rendersi conto che anche lei era diventata pazza.

Mentre i suoi genitori discutevano con il direttore dell’ospedale, Carol venne accolta gentilmente da due infermiere che la invitarono ad entrare.

Era giunto il momento dei saluti.

Carol si girò verso i suoi genitori con il cuore che le palpitava in gola, e loro la guardarono con occhi pieni di tristezza.

Con rammarico la madre si avvicinò e sussurrò un “Buona fortuna, tesoro” con le mani tese a indicare il desiderio di un abbraccio.

Carol decise di soddisfare questo suo piacere con una certa riluttanza, avendo sempre odiato gli abbracci o qualsiasi tipo di dimostrazione d’affetto.

Il padre si limitò a salutarla con la mano, con discrezione. Aveva preso da lui questa sua freddezza, dopotutto.

Dopo qualche altra frase di addio di troppo e vari singhiozzi della madre, Mr. e Mrs. Walker se ne andarono, lasciando un grande vuoto nel cuore della giovane che fin da subito si sentì sola e persa. Non le era rimasto nulla se non la sua valigia, che le venne confiscata subito dalle infermiere, le quali con improvvisa rigidità affermarono che non vi era bisogno di vestiti e che le avrebbero procurato loro degli indumenti adeguati.

La condussero all’interno della struttura, senza alcun tipo di presentazione o giro dell’ospedale, non le fu detto niente riguardo la sua permanenza lì, se non che doveva recarsi nello studio del medico per il primo controllo per poi prepararsi per il pranzo.

«Prendi già qualche farmaco, signorina?» chiese una delle due infermiere, alta, con i capelli ricci e sguardo penetrante. Non doveva avere più anni di Carol.

«Amfetamina, infermiera, in piccole quantità.»

«Amfetamina? Non ti ha detto nessuno che è estremamente pericolosa da assumere?» –

«È per la depressione.» 

A quel punto le due infermiere si guardarono con occhi quasi compassionevoli, se non fosse per l’estrema freddezza delle parole dell’altra donna.

«Da oggi non la prenderai più, il medico ti prescriverà qualcosa di più adeguato alla tua anomalia» disse infatti arricciando il naso.

Prese la valigia e la perquisì fino a trovare un piccolo contenitore cilindrico contenente la droga.

«Ah, Ah!» esclamò con soddisfazione.

Carol rimase impassibile. Sapeva fin dal principio che gliel’avrebbero rubata in quanto considerata pericolosa per la sua salute.

Tuttavia, questo non le impedì di lasciare quel poco di amfetamina prescritta dal medico nella valigia e nascondere qualche altro grammo nel taschino della sua gonna. Era un atto puramente sbagliato, ma non riusciva a lasciar morire la sua dipendenza.

«Adesso vai» ordinò l’infermiera riccia, e con qualche indicazione riuscì a trovare lo studio del suo medico per la visita.

Anche questa conversazione non durò molto.

Il dottore, un tale sulla sessantina con un tic all’occhio ben visibile quando si toglieva gli occhiali, non si era minimamente accorto della bustina nella gonna della ragazza. Evidentemente oltre che abbastanza sordo aveva anche qualche problema di vista. “Meglio così” pensò Carol.

Dopo il controllo medico e gli accertamenti sul piano psichiatrico, il dottore poté prescriverle il farmaco che avrebbe calmato i suoi deliri.

«Mi raccomando, due volte al giorno.»

Carol annuì.

Non appena fuori dallo studio, senza farsi vedere dalle infermiere che la stavano aspettando annoiate più avanti, buttò il medicinale datogli dal dottore nel vaso di una pianta vicino all’entrata dello studio.

Non poteva esserci nulla di più stupido che prendere quella robaccia, pensò la giovane mentre raggiungeva le due donne.

Era ora di pranzare ormai, tutti i pazienti si erano riuniti con i rispettivi infermieri pronti ad aiutarli nella sala più grande che Carol avesse mai visto non appena entrata nell’edificio. Sentì varie voci e brusii provenire dai tavoli, e da quegli sguardi e occhiatacce capì che non era la benvenuta lì.

La mensa dell’ospedale era enorme, ma anche abbastanza povera per quanto riguardava gli arredi. Vi erano vari tavoli ordinati sul pavimento piastrellato, tutti occupati da persone di ogni genere. Uomini con visi lunghi e pallidi mangiavano senza forze guardando un piatto ancora più bianco di loro, talvolta vi erano delle infermiere che picchiavano i pazienti costringendoli a mangiare.

Carol si sentì in pena per loro.

Volgendo un altro po’ lo sguardo vedeva un gruppo di donne con delle vestaglie abbastanza sporche che urlavano isteriche contro i cuochi davanti al bancone della mensa. Alcune per giunta si buttavano per terra rotolandosi tra le persone, rifiutandosi di mangiare. Sempre queste venivano fatte alzare apposta e con un bastone venivano colpite ripetutamente causando loro lividi violacei sulle braccia e sul viso.

Le loro urla si spensero in un pianto.

Una di queste donne, tuttavia, non cedette, e iniziò a correre lontano dai vari infermieri che accorsero a fermare questa piccola rivolta. La donna si nascose sotto un tavolo, accovacciata, le mani sopra la testa corvina, che ripeteva costantemente con voce roca:

«Lasciatemi stare! Lasciatemi stare!»

In quel momento, Carol provò ancora più pena per la donna, ma non si scompose, e non appena venne fatta accomodare in un tavolo un po’ più appartato, la donna dai capelli neri venne strattonata da sotto il tavolo con violenza e fatta sedare immediatamente. Il corpo di quella signora, prima di colore rossastro a causa delle urla e delle botte, divenne improvvisamente pallido, e afflosciò sul pavimento ghiacciato, sporcandosi leggermente di sangue.

Questa scena, agli occhi di Carol, apparve come una mostruosità inaudita, ma per i pazienti del St. Bernard Hospital era cosa normale, abitudine di tutti i giorni, per cui nessuno proferì parola riguardo all’accaduto se non per parlare tra sé e sé per quanto facesse vomitare il cibo della mensa.

Tutto ritornò alla normalità in neanche un minuto.

La gente tornò a mangiare con quella faccia desolata che aveva fin da subito scombussolato l’animo di Carol.

Non riusciva a capire tutta questa indifferenza, ma di lì a poco avrebbe fatto anche lei lo stesso e sarebbe stata inghiottita da quell’atmosfera di desolazione e malinconia che avvolgeva con solennità quel luogo spettrale.

Carol sospirò. Non capiva se per la stanchezza del viaggio o per il suo incombente futuro pervaso di tristezza, ma quando le venne servito il vassoio con dentro il cibo in pessime condizioni capì immediatamente.

«Hai bisogno di forze dopo il viaggio» affermò l’infermiera dai capelli ricci accanto a lei, che dalla targhetta poté dedurre che si chiamasse Joanna.

“Oh Joanna” pensò Carol quasi rassegnata, “ora come ora vorrei solo morire.”

Le due infermiere lasciarono Carol da sola a mangiare, e la ragazza, rifiutatasi categoricamente di mangiare quella porcheria iniziò a scrutare l’ambiente e le persone attorno a sé.

Non vi era nulla di nuovo. Tutte facce uguali, intente a crogiolarsi nel loro piatto. Facce marmoree, insipide, stanche, che avrebbero preferito sicuramente bere le proprie lacrime che ritrovarsi in quel manicomio.

Carol, dunque, si chiese come faceva un posto del genere a essere così apprezzato da tutti i londinesi. Vi avevano mai messo piede dentro? Carol credeva proprio di no.

Pucciò il cucchiaio nella zuppa insipida e poté vedere il suo viso affilato attraverso il riflesso. I suoi occhi verdi risultavano ancora più depressi e spenti di quanto già non fossero da mesi, e i capelli non erano più lisci e ordinati ma un ammasso di ciocche ondulate increspate dall’umidità.

Si chiese che fine avessero fatto i suoi bellissimi capelli ramati, per cui da tutti era invidiata. Ormai da mesi si erano afflosciati e avevano perso tutta la loro lucentezza, tutto a causa della sua depressione. Tutto a causa sua.

In un attimo, si sentì osservata e alzò di scatto lo sguardo leggermente spaventato. Non era inusuale che si sentisse perseguitata, dopotutto l’ansia e la paranoia le avevano fatto perdere il sonno parecchie notti, il suo psichiatra diceva che era normale per la sua condizione, eppure si sentiva sempre con il cuore in gola quando ciò accadeva.

Si guardò freneticamente attorno, il petto che le andava su e giù per la paura, il sudore che le impregnava i capelli sulla fronte. Finalmente riuscì a scrutare uno sguardo differente dagli altri.

Carol constatò immediatamente che quegli occhi che la stavano guardando così attentamente non fossero così benevoli nei suoi confronti, né tantomeno le trasmettevano una sensazione di sicurezza. Erano due occhi cupi, scuri, così tanto scuri che non riusciva a distinguere il distacco dell’iride con la pupilla. Questi due occhi le davano una sensazione di disagio mista a paura, ma era come se non riuscisse a smettere di guardarli, tanto era incuriosita e attratta.

Notò, inoltre, come questa espressione glaciale fosse accompagnata da una tale rigidità nel volto che la sorprese e non poco. Era come se il viso in questione fosse stato scolpito dal diavolo stesso.

Carol cercò di distogliere gli occhi da quell’oscurità per concentrarsi meglio sugli altri particolari di quella curiosa persona, anche se difficilmente.

Tutto ciò che vide fu un biancore intorno agli occhi tale che le fece quasi credere che quell’essere, quel ragazzo, non fosse davvero reale ma frutto della sua fervida immaginazione da malata psichiatrica. Come poteva essere reale un volto così cadaverico con degli occhi così vivi e penetranti?

Mentre tentava di trovare una risposta plausibile, il ragazzo in questione fece una cosa che le fece inspiegabilmente accapponare la pelle. La sua bocca, così piccola e sottile, si trasformò in un ghigno mostruoso che non aveva nulla di umano, e gli occhi si accesero ancora di più alla vista di una tale curiosità da parte della ragazza.

Carol sentì un brivido correrle lungo la schiena al solo pensiero che quell’essere stesse guardando proprio lei, proprio Carol Walker, quando tutto il resto della stanza si era ormai spento per dare spazio a quel momento così peculiare e macabro.

La ragazza non poté fare altro che distogliere coraggiosamente lo sguardo e ritornare a fissare il suo piatto disgustoso, che era decisamente più gradevole da guardare rispetto a ciò che aveva visto.

Prese il cucchiaio, che un istante prima le era caduto maldestramente dalla mano a causa del tremore, e finalmente sentì di nuovo il mondo girare nel verso giusto. Fino ad allora non aveva sentito più nulla nella mensa, nessun urlo o risata. La vista di quel ragazzo le aveva fatto perdere il contatto con la realtà.

“È incredibile…” pensò.

Rialzò lo sguardo e lo posò nel punto esatto in cui si doveva trovare quel ragazzo.

Non c’era più nessuno.

Il giorno dopo Carol si svegliò nella sua stanza.

Erano passate quasi ventiquattro ore dall’accaduto, ma ancora non riusciva a spiegarsi cosa fosse successo.

Quando si alzò dal letto si accorse quanto esso fosse scricchiolante, e si rese conto che era passata già una giornata dal suo arrivo.

Dopo il macabro pranzo del giorno prima Carol sostanzialmente non aveva fatto nulla se non stare ad osservare gli altri pazienti e girovagare tra i corridoi dell’edificio. Ancora non comprendeva la grandezza della struttura e per questo si perse svariate volte nel tentativo di cercare la sua camera; tuttavia, questo le servì per capire i meccanismi del manicomio dove era finita.

I pazienti solitamente non facevano niente, se non partecipare giornalmente ai gruppi di sostegno e alle varie sedute con gli psichiatri di turno per poi prendere la loro medicina e non fare niente per il resto della giornata.

Vi erano pazienti, notò, costantemente seguiti da infermiere per essere controllati, altri invece giravano liberi finché non si annoiavano e se ne tornavano in camera a riposare.

Al piano terra era disposta inoltre una sala comune dove tutti i pazienti si riunivano per svagarsi e parlare… Se poteva essere definito tale urlarsi i peggiori insulti a vicenda. In questa sala erano presenti libri, tavoli, giochi da tavolo, poltrone e persino un pianoforte.

La cosa che subito balzò all’occhio a Carol fu la presenza di un giradischi molto vecchio ed impolverato vicino alla finestra centrale della parete di fondo della sala, che riproduceva sempre la stessa canzone di Édith Piaf.

Giorno e notte. Ininterrottamente.

Carol si chiese, appena lo vide, se non fosse quello il motivo per cui erano tutti impazziti lì, e soprattutto si chiese se non sarebbe morta di noia di lì a una settimana con tutte quelle attività così noiose e monotone.

La bruttezza di quel posto le fece quasi maledire il giorno in cui era nata.

Tuttavia, vi fu un risvolto durante il tardo pomeriggio, quando fu concesso loro di uscire un’oretta nel cortile per respirare un po’ di aria fredda invernale. Tutto sommato non era così male, pensò. Nel cortile poté gironzolare indisturbata fino all’ora di cena, a osservare il cielo color grigio piombo, l’unico ricordo della sua ormai vecchia vita.

Quando rientrò era ora di cenare, tutti si stavano avviando verso la mensa comune, e Carol provò nuovamente quella sensazione di paura mista a terrore che aveva avvertito a pranzo nel vedere quel ragazzo così strano, ma fortunatamente, e forse anche stranamente, non vi era traccia di lui. Carol sospirò sollevata, e poté finalmente cenare in tranquillità, nel mezzo di quel putiferio di gente che urlava e sbraitava a cui ormai stava iniziando ad abituarsi.

Finita la cena venne accompagnata nella sua camera, dove ebbe il piacere, se così si può dire, di incontrare finalmente la sua compagna di stanza.

Appena entrò, non la vide subito in faccia, era chinata in avanti a rovistare in una borsa con fare concentrato e non sembrava essersi minimamente accorta della sua presenza. Quando l’infermiera la richiamò con fermezza la ragazza si girò di scatto, e Carol poté notare dai suoi lineamenti tirati in una espressione brusca che non era esattamente contenta di vederla.

«Sue, questa sarà la tua nuova compagna di stanza» affermò l’infermiera rigidamente.

Sue iniziò a squadrare Carol in cagnesco, e subito dopo aver sbuffato commentò con una certa acidità:

«È brutta.»

«Sue!»

«Potevate scegliere di meglio» e si rigirò a frugare nella sua borsa come se nulla fosse.

Da dietro le spalle larghe Carol la osservò, indifferente al commento che le fece.

Sue Thompson non era certamente una bellezza, questo doveva dirlo. Era una ragazza abbastanza in carne, con delle fattezze quasi mascoline. Le spalle coprivano gran parte di ciò che le stava davanti, e le braccia, mollicce e dalla pelle penzolante, si muovevano simultaneamente nell’atto di cercare qualcosa con frenesia, discostando di tanto in tanto i pochi ricci biondo scuro che le finivano in faccia. Gli occhi erano piccoli e chiari, e già contornati da rughe che si intrecciavano fino ad arrivare ai lati del viso rotondo.

Nel guardarla, Carol provò un senso di disgusto.

«Potrei dire la stessa cosa» disse infine, meritandosi un rimprovero severo dall’infermiera.

Sue Thompson si girò di scatto, sempre con lo stesso sguardo adirato per cui Carol pensò fosse caratterizzata.

«Come, scusa?»

«Sei proprio brutta,» continuò Carol coraggiosamente «anche la regina Vittoria è più bella di te.»

La reazione della sua coinquilina non fu di certo delle migliori, e Carol si ritrovò a dormire con un occhio viola e un sacchetto contenente del ghiaccio accanto al cuscino.

La vita ad Hanwell non era iniziata molto bene per la ragazza.

Tutta la notte, sentì per giunta vari altri insulti provenire dal letto sopra il suo, e qualche volta giurò di sentire anche delle croste di muro finirle in testa inspiegabilmente.

Il mattino dopo, insieme al pensiero costante del ragazzo della mensa, si aggiunse anche il problema dei pezzetti di vernice bianca nei suoi capelli, sicuramente un dispetto della sua affabile coinquilina.

Cercò di non darle così tanta importanza, eppure non poteva ignorare il fatto che ci stava male a ogni parola cattiva che le rivolgeva e ogni gomitata che le tirava.

Quando uscirono per fare colazione, non si rivolsero parola, e raggiunsero la mensa seguite da due infermiere con le rispettive medicine.

Medicina che Carol avrebbe poi sostituito con la sua personale che era già pronta per essere utilizzata nel taschino della gonna, questo era ben che ovvio.

La colazione, questa volta, si rivelò più calma dei due pasti del giorno prima, eppure la consistenza del cibo servito non cambiava.

Mentre mangiava, Carol osservò intorno in cerca di qualche nuovo cambiamento o battibecco tra i pazienti per non annoiarsi, eppure erano tutti calmi.

Il suo sguardo si posò nuovamente nel punto dove aveva visto quel personaggio così inquietante il giorno prima, e ancora non si capacitava di come fosse scomparso così improvvisamente.

In un attimo, tornò la paura in lei che potesse ritornare da un momento all’altro, e aveva come la sensazione che la sua presenza non se n’era andata via del tutto…

«Hai finito di cercarmi?» sibilò una voce roca nel suo orecchio.

Carol fece un balzo sulla panca dove era seduta, e la fetta di pane rinsecchito che teneva tra le mani cadde per terra con un piccolo tonfo.

Si girò di scatto alla sua sinistra dove sentì quelle parole e sbiancò in viso.

Il ragazzo accanto a lei le rivolse un sorriso dolce.

«Allora?»

Carol non capiva come era possibile. Fino a un giorno prima le pareva di aver visto la morte in faccia, mentre ora, guardando lo stesso ragazzo, con gli stessi lineamenti e gli stessi occhi riusciva a percepire tutt’altre sensazioni, seppur miste a un certo disagio per cui non sapeva spiegarsi.

Il ragazzo che si trovava davanti era davvero attraente. Aveva due occhi scuri profondi e rassicuranti, non cupi e maligni come aveva visto il giorno prima, accompagnati da un dolce sorriso che nascondeva una certa punta di malizia, la quale rendeva l’espressione ferma ancora più seducente. La pelle era bianca, candida, quasi perlacea, contrariamente al pallore cadaverico che aveva notato, e questa creava un bellissimo contrasto con i capelli corti corvini.

Carol restò imbambolata a fissarlo per qualche secondo prima di ristabilirsi e rispondere. Il mondo era ancora come se non esistesse più.

«Non sto cercando nessuno» ribatté con fermezza.

Il sorriso si ampliò:

«Come no.»

«Cosa sei venuto a fare qui?»

«A mangiare?»

«Dico al mio posto.»

«Non è il tuo posto.»

«Beh, ci sono seduta, quindi tecnicamente sì.»

«Magari prima di te si è seduto qualcun altro e ci ha fatto pipì per marcare il territorio, che ne sai?»

«Ma che schifo!» commentò Carol indignata.

Il ragazzo scoppiò in una risata genuina e limpida.

Carol era ancora più confusa.

«Non mi hai ancora risposto.»

«A cosa?»

«Alla domanda.»

«Quale domanda?»

«Oh, per l’amor del cielo!» esclamò la ragazza esasperata «ti sto chiedendo cosa stai facendo qui accanto a me!»

«Mi sembra chiaro che ti sto parlando» rispose con un sorriso beffardo.

Carol non capiva se si stesse divertendo o no a prenderla in giro, ma lo scherzo la stava ormai stancando. Si girò dall’altra parte e prese un’altra fetta di pane dal vassoio, impregnandola di latte.

«Fai come ti pare» sbuffò.

«Se facessi come mi pare ti chiederei come ti sei procurata quel livido orribile su quel tuo bel viso, poiché mi pare opportuno chiederlo.»

Carol lo guardò stranita e si chiese che problemi avesse, poi si ricordò di trovarsi in un manicomio e che tutto era possibile.

«Niente che mi pare opportuno rivelare a uno sconosciuto.»

«Se mi parli e ti rivolgi a me con quel tono così adirato allora un po’ di confidenza ce l’abbiamo!» affermò con calma.

«Non è vero, per conoscerti devo almeno sapere chi sei.»

«Mi chiamo Bryan, ora mi conosci» il suo sorriso malizioso si ingrandì notevolmente. Carol capì a quel punto che era giunto il momento di arrendersi.

«Beh, ieri mi sono imbattuta con la mia nuova coinquilina e diciamo che non ci riserviamo una gran simpatia.»

«Capisco!»

In quel momento Carol voleva tanto rispondergli con un “chi l’avrebbe mai detto!”

«Comunque io sono…»

«Lo so.»

Carol lo guardò e aggrottò la fronte:

«Come lo sai?»

«Lo so e basta.»

Il suo sorriso si attenuò in un’espressione di consapevolezza, e fece spallucce. Questa cosa turbò non poco l’animo di Carol, che iniziò a mettersi in guardia non sentendosi più sicura.

D’un tratto, risentì la sensazione di macabro disagio che aveva percepito il giorno prima a pranzo, e si sentì in dovere di terminare immediatamente la conversazione, cosa che venne anticipata direttamente da Bryan stesso.

«Beh, è stato un piacere Carol Walker!»

Il ragazzo si alzò dalla panca con strana fretta e fece un inchino alla ragazza abbastanza buffo, ma Carol non vi trovò nulla di divertente.

«Ehm…»

«Ti do un consiglio, se vuoi stare qui senza avere problemi dovresti nascondere meglio i tuoi segreti» e indicò con gli occhi accesi il taschino della gonna di Carol «o faranno la fine di Luke» e se ne andò senza dire nient’altro.

Carol si ritrovò pietrificata sulla panca con il sangue nelle vene raggelato, e prima che potesse anche solo battere ciglio si ritrovò a camminare insieme alla massa degli altri pazienti all’uscita della mensa, andando incontro come tutti a un altro pomeriggio dominato dalla noia.

Le giornate ad Hanwell, da quel giorno, passarono lente e monotone.

Carol le poteva scandire, mogiamente, dal suo letto ogni mattina quando posava gli occhi sulle reti del letto scricchiolante sopra il suo.

Era già passata una settimana, e la sua coinquilina non aveva ancora smesso di darle fastidio ossessivamente ogni giorno, nonostante lei l’avesse riempita di scuse per il suo comportamento già la sera del giorno dopo la sua permanenza al manicomio, non riuscendo più a sostenere una simile condanna.

Carol aveva inoltre scoperto tramite i vari gruppi di sostegno che si svolgevano all’Hanwell che la sua cara compagna di stanza non solo era affetta da disturbo ossessivo compulsivo, ma era anche affetta da isteria, il che non giovava molto alla sua condizione di coinquilina.

Ogni giorno, succedeva sempre qualcosa ai danni della ragazza nuova: dentifricio sul cuscino o spalmato sulla parete a formare delle frasi d’odio nei suoi confronti, vestiti strappati o gonne misteriosamente bucate o mangiucchiate, il letto sempre disfatto, nonostante lei lo rifacesse quotidianamente come sua abitudine…

Una volta persino, di venerdì, si ritrovò un ratto ai piedi del letto che le squittiva terrorizzato in cerca di un’uscita, e sebbene lei non si spaventasse per animaletti del genere, trovò il gesto molto subdolo.

Provò svariate volte a chiedere un colloquio con il direttore per poterle permettere di cambiare stanza o compagna, ma senza risultati.

Dopo due settimane, la situazione peggiorò ancora, e la ragazza si vide costretta a pregare ogni sera prima di dormire purché Sue Thompson non le tagliasse i capelli nel sonno o non la riempisse di schiaffi e calci non appena tornava dalla mensa.

Anche quando si riunivano tutti per andare a messa alla domenica, si ritrovava un qualche scherzo di pessimo gusto in agguato, e ormai Carol viveva nella paranoia che potesse succederle qualcosa di veramente brutto di lì a poco. Non si fidava più di nessuno.

La notte aveva iniziato a non dormire più, gli occhi luccicanti sempre rivolti verso l’alto in direzione della sua compagna di stanza.

Carol non era una ragazza che si spaventava per queste cose, era forte, aveva un animo d’acciaio, molto spesso le passava per la testa che non avesse quasi sentimenti del tutto, eppure tutta questa forza d’animo era evaporata man mano che passava del tempo lì in quell’ospedale psichiatrico, in mezzo a quella gente che non la faceva sentire sicura.

Si rese conto che lì non era come nella realtà di tutti i giorni. La realtà dei malati di mente era ben più oscura e criptica di quanto si aspettasse.

D’altro canto, il luogo in cui era finita diventava sempre più brutto e desolato agli occhi di Carol. Aveva una sensazione di disagio che cresceva man mano che metteva il piede fuori dalla sua camera, una sorta di inquietudine mista a timore la prendeva ogni volta che girava per i corridoi sperduti del manicomio, a volte sola, a volte in compagnia di qualche lamento macabro proveniente dai meandri delle scale o dalle piccole stanzette dei vari pazienti.

A volte se li sognava pure quei lamenti.

Alla terza settimana, aveva già fatto ben quattordici incubi riguardanti quelle voci, quei sospiri freddi che nel mezzo della notte le squarciavano i pensieri con i loro commenti orridi e violenti.

All’inizio erano sogni normali, tipici dei nuovi arrivati che non sopportano i cambiamenti drastici… Poi la situazione peggiorò, e gli incubi non si limitavano a certe immagini scure che si presentavano nella sua mente una sola volta per poi scomparire. Lentamente, le sue paure e la sua paranoia presero possesso dei suoi pensieri, e le ombre del manicomio di facevano vedere per più notti di seguito, sussurrandole di aiutarle, quelle povere anime dannate.

A volte erano ombre, altre erano persone vere e proprie.

A volte erano voci e basta, altre erano bambini che piangevano.

Lentamente, questi incubi iniziarono ad avere un certo peso nella vita di Carol, tanto da presentarsi pure ai suoi occhi non appena si svegliava nel cuore della notte.

I medici l’avevano definita “paralisi del sonno”, aveva letto Carol una volta, ma tutto ciò che vedeva quando aveva gli occhi aperti difficilmente credeva fosse semplicemente frutto della sua immaginazione.

Ci stava pensando esattamente durante la colazione, il giovedì della quarta settimana ad Hanwell. I suoi occhi vacui e stanchi fissavano mogi il vassoio davanti a sé, aspettando l’arrivo della fame che si faceva aspettare da ormai un po’ di tempo.

In quell’ultimo periodo Carol era dimagrita a vista d’occhio. La pelle, scarna e pallida, aveva le sembianze di un lenzuolo scolorito sopra le sue ossa, che mentre si muoveva per prendere un biscotto pareva tremassero per la fragilità. I capelli scombinati e arruffati le cadevano sugli zigomi aguzzi mentre con un fare melanconico girava lentamente il cucchiaio nel latte annacquato, gli occhi fissi e spenti verso il vuoto.

Non avrebbe mai creduto si sarebbe sentita così male in un posto così noioso e… normale, se si può così definire, eppure più passava il tempo lì e più lei si affaticava. Era come se quel posto le stesse succhiando via tutta la sua linfa vitale. O quasi del tutto.

La ragazza alzò gli occhi un attimo per vedere se qualcuno la stesse guardando, per poi fiondare la mano nella gonna, afferrando un una piccola bustina trasparente, contenente la sua “cura”.

Nel fracasso generale Carol abbassò la testa sotto il tavolo per inspirare il contenuto della busta, e subito dopo si sentì come se tutti i problemi fossero stati eliminati per sempre.

Rialzò la testa e prese un respiro profondo, pensando a come questa sua azione quotidiana la facesse sentire così bene, anche se per poco tempo.

Ancora stentava a crederci che dopo quasi un mese non l’avessero ancora scoperta. Carol, dopotutto, era una persona molto attenta nel fare questo tipo di cose, raramente falliva nel mantenere un segreto. O almeno questo era quello che pensava.

In tutto l’istituto non vi era persona che avesse scoperto il suo infallibile trucchetto, se non una. E chi altri poteva essere se non Sue Thompson?

La sua coinquilina, infatti, al culmine della sua ossessione per la compagna di stanza, l’aveva perseguitata e spiata al punto tale da coglierla sul fatto e ricattarla in cambio di favori improponibili.

Ovviamente Carol, fin da subito, si sentì in dovere di difendere la propria dignità e rispose fermamente di no, ma, riflettendoci, questo non poteva altro che ritorcerglisi contro, allora decise di chiudere la bocca e obbedire, ancora una volta.

Carol non riusciva a sopportarla, il solo vederla le faceva rivoltare lo stomaco, così tanto che quella mattina, non appena la vide entrare in mensa col vassoio in quelle mani enormi, non poteva fare altro che lanciarle un’occhiataccia, in preda dagli effetti della droga.

Sue si avvicinò con aria di sfida al tavolo di Carol, e con finta sbadataggine lasciò rovesciare la tazza di caffè bollente sulla gonna della ragazza.

Carol si mise a urlare, ma nessuno le venne in aiuto.

«Che c’è, drogata, ti sei fatta male?»

«Bastarda!» urlò la ragazza tra le lacrime.

Per fortuna la chiazza di caffè non era grande, e Carol non si ustionò più di tanto. Più che altro ci rimase enormemente ferita in fatto di dignità.

Nella mensa tutti la guardavano ma nessuno osava avvicinarsi. Ormai era normale che succedesse qualcosa del genere la mattina, gli infermieri ritenevano non fosse opportuno intervenire.

Non era importante, pensavano. Diventa importante solo se si arriva alle mani, dopotutto.

Sue Thompson scoppiò a ridere e se ne andò via, felice delle attenzioni che stava ricevendo dagli altri pazienti che osservavano allibiti.

Tempo cinque minuti, che tutto tornò normale, e tutti ripresero a mangiare tranquillamente. Tutti tranne Carol, ovviamente, che dalla vergogna arrossì e affondò la testa tra le sue braccia, singhiozzando sommessamente.

Come poteva andare avanti in una situazione del genere? Dove nessuno la aiutava? Come poteva continuare a vivere sapendo che sarebbe andata avanti sempre così?

Mentre piangeva, Carol si chiese se non fosse giunto il momento di farla finita definitivamente. Forse il suo dolore avrebbe trovato una fine nelle braccia della morte. Era questo quello che voleva davvero?

«Non piangere.» esclamò una voce alle sue spalle.

Carol scattò sul posto e si ricompose immediatamente, per poi girarsi. Vide Bryan che le stava sorridendo.

«Cosa vuoi?» rispose lei fredda come sempre.

Non aveva più parlato con lui dopo quella strana conversazione avvenuta settimane prima, si era quasi dimenticata della sua esistenza lì. Non lo aveva neanche più visto nei corridoi.

Bryan, per tutta la domanda, ampliò il sorrise e si sedette accanto a lei sulla panca. Con fare gentile prese un tovagliolo e lo porse alla ragazza.

«Non ti meriti tutto questo.»

Carol lo guardò

«Come mai te ne esci così adesso? Non ti ho più visto.»

«Quante domande. Volevo solo essere carino.»

Carol mugugnò un ringraziamento forzato e si strofinò il tovagliolo sulla gonna sgualcita.

Bryan la fissò tutto il tempo.

«Perché non ne parli?» chiese con voce seria.

«Perché dovrei? A nessuno importa.»

«A me sì.»

Carol lo fissò stupita e lui ricambiò con un sorriso sincero.

Non si aspettava una risposta del genere, ben che meno da un ragazzo così strano e macabro.

«Perché dovrebbe importarti, scusa?»

«Perché ho come la sensazione che noi due siamo molto simili.»

«In che senso?»

Nella mensa inspiegabilmente calò il silenzio, o almeno questa era l’impressione di Carol. La ragazza non capiva come fosse possibile che ogni volta che parlava con lui era come se il mondo si isolasse e rimanessero solo loro due.

Lo guardò stranita e aspettò una spiegazione, che non tardò ad arrivare.

«Vedi, le persone come me e te hanno certi bisogni. Bisogni fisici, possiamo dire» si leccò il labbro prima di continuare «quando arriviamo a un certo momento della nostra vita, questi bisogni si fanno sentire più che mai. Mi capisci?»

«No.»

«Che cosa fai quando hai un problema?»

«Non sto capendo quello che mi vuoi dire.»

«Rispondi.»

«Beh, lo risolvo.»

«No.»

«Cosa no?» chiese Carol aggrottando la fronte. Era sempre più confusa.

Bryan la fissò negli occhi con uno sguardo talmente cupo e profondo che per un attimo si sentì nuovamente al primo giorno quando lo vide per la prima volta, in quella visione così funesta e surreale.

«Tu non risolvi un problema, Carol, tu lo elimini» affermò «ed è proprio quello che devi fare adesso.»

«E quale problema dovrei “eliminare”? Ne ho talmente tanti che non saprei quale scegliere.»

Carol abbozzò una risata.

Lui rimase serio.

«Sai cosa intendo. C’è solo un unico e vero problema qui.»

Bryan indirizzò gli occhi verso il fondo della sala, al tavolo dove si trovava Sue Thompson, intenta a fagocitare un vassoio pieno di biscotti.

Carol guardò schifata, e quasi si sentì d’accordo con la sua affermazione.

«Beh, in effetti dovrei proprio cambiare stanza. La situazione sta diventando ingestibile.»

«Non in quel senso.»

«E in quale?»

«Quando dico eliminare intendo davvero eliminare.»

Carol lo fissò ammutolita, capendo finalmente dove voleva arrivare. Un’ondata di paura la invase, mentre con lo sguardo frenetico passava da Sue a Bryan strabuzzando gli occhi.

«Intendi…?»

«Sì.»

«Non può essere.»

«Stanotte.»

«Come stanotte?»

Bryan non rispose.

Carol lo fissò ancora incredula per ciò che aveva appena sentito. Non poteva fare una cosa del genere.

«No.»

«Ti conosco, so che lo farai.»

«No, invece. Tu non mi conosci proprio.»

«Vedremo» e sorrise, gli occhi rivolti alla ragazza voluminosa in fondo alla mensa.

Carol, invece, non gli toglieva gli occhi di dosso.

«Tu sei pazzo.»

Bryan la guardò come i genitori guardano i propri figli orgogliosi dopo che hanno fatto qualcosa di meritevole.

«Lo siamo.»

Da quel giorno, Carol se lo ritrovò inspiegabilmente dappertutto.

Non c’era giorno in cui quando alzava gli occhi non vedesse quello strano sorriso che stava ormai iniziando a darle sui nervi, e non c’era momento di svago durante la giornata in cui lui non le proponesse di fare quanto aveva detto.

«Non se ne parla» rispondeva sempre e, con una smorfia sul viso scavato dalla fame, se ne andava lasciandolo mugugnare da solo.

Carol non aveva ancora capito se gli piacesse o meno quel ragazzo.

Da una parte era cordiale con lei, era l’unico che le fosse davvero stato accanto quando venne attaccata da Sue e certe volte doveva ammettere che i suoi modi la attraevano e non poco; ma dall’altra aveva uno strano presentimento a riguardo. A volte si chiedeva di quale malattia fosse affetto per essere finito lì con lei, ma non c’era ombra di dubbio che si trattasse di un vero e proprio psicopatico.

Carol aveva sempre i brividi solo a pensare a quel sorriso viscido. Non capiva cosa le trasmettesse. Per non parlare di quella proposta…

La ragazza aveva più e più volte riflettuto a riguardo, mentre era a leggere nella sala comune, molto spesso dopo aver avuto un litigio con la coinquilina.

Lei non era in grado di fare una cosa del genere dopotutto. La odiava, questo era certo, ma non fino a questo punto… O forse sì?

«No, è impossibile» e girava pagina.

Dopo tre giorni, passati a riflettere Carol pensò fosse opportuno fare il contrario di quanto Bryan le aveva detto.

Provò a fare pace con Sue, quasi a dimostrazione di non essere la persona che quello strano ragazzo dipingeva di lei. 

Armata di buona volontà e una certa angoscia, una mattina si alzò e decise di dare il buongiorno alla propria compagna di stanza, che non tardò a rispondere con un sonoro insulto, non tanto gentile.

La ragazza quasi se lo aspettava, ma non voleva demordere.

Appena saltata giù dal letto, infatti, si avviò verso il suo letto e con voce squillante chiese:

«Non sarebbe meglio per tutte e due se iniziassimo ad andare d’accordo?»

L’altra ragazza si girò a fissarla, gli occhi intorpiditi ancora dal sonno, e con voce roca e irritata sbottò in un:

«Vai al diavolo!»

Carol ci rimase male quella volta, ma non voleva finirla.

Voleva dimostrare a tutti i costi che sapeva risolvere i problemi in maniera pacifica senza arrivare a compiere azioni brutte.

Riprovò a salutarla il giorno dopo, e quello dopo ancora in corridoio. Le riservò il posto in mensa e, ancora meno da aspettarsi, cercò un foglio di carta per scriverle una lettera di scuse e di perdono da lasciarle sul letto.

La sera dopo se la ritrovò stracciata nel cestino sotto la scrivania.

A ogni suo fallimento nel provare ad avere un buon rapporto con la coinquilina, vedeva da lontano gli occhi furbi di Bryan che la seguivano.

Questo la motivava ancora di più a continuare, per non vederlo più ridacchiare sotto i baffi.

Diventò quasi un’ossessione.

Tutto ciò, tuttavia, non durò molto, perché Sue Thompson si era stufata di tutti questi irritanti trucchetti della ragazza, e più Carol passava il tempo a cercare di essere amichevole con lei, come per paura di scoprire che era davvero come diceva Bryan, più Sue la odiava. La odiava al punto tale da volerla quasi uccidere.

Carol non se ne rendeva conto, ma era sempre di più a un metro dalla fossa, come ripeteva ormai sempre Bryan.

«Se non lo fai tu per prima, ti ammazza lei sicuro» ripeteva sempre il ragazzo ogni mattina in mensa.

Ma Carol non voleva crederci e cercava sempre di più un pretesto per avvicinarsi a Sue.

«Vedrai che ce la farò. Non sono pazza, né tanto meno cattiva» si ripeteva «diventeremo amiche presto.»

La sua speranza si frantumò quel maledetto 15 marzo, quando la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

Carol si era appostata dietro la porta con un pensiero per Sue tra le mani, sgraffignato dalla mensa quella stessa mattina a colazione.

Era sera, Sue doveva uscire dalla doccia comune a momenti, e Carol l’avrebbe accompagnata in camera donandole un sacchetto di biscotti, i suoi preferiti.

Aspettò circa un quarto d’ora, e quando la vide uscire le saltellò intorno presa dall’agitazione e le consegnò il dono.

«Questo è per te!»

Sue la guardò orripilata:

«Non prendo i tuoi biscotti di merda, ci avrai messo della droga di sicuro.»

«Non è vero!»

Sue la guardò nuovamente, aveva notato che giorno dopo giorno diventava sempre più strana. Era come se la paura delle affermazioni di Bryan la avessero sconvolta al punto di ossessionarsi a questo suo obiettivo di dimostrare la sua bontà d’animo…

Ma non era solo questo.

Sue aveva notato, inoltre, che passava molto più tempo in bagno prima di uscire a mangiare. Aveva capito subito, e la cosa la disgustava parecchio.

«Vattene via subito.»

«Ma come?»

«Mi hai sentito, brutta drogata? Vai via!»

«No!»

A quel punto Sue perse le staffe e la prese per i polsi.

Carol si dimenava tra le sue grinfie spaventata.

Non capiva cosa stesse succedendo. Gli effetti della droga non erano ancora passati, e lei era ancora euforica. Iniziò a piangere in modo incontrollabile, scatenando l’ira della sua nemica, che la sbatté contro il muro.

«Smettila!»

Carol piangeva, era agitata, confusa e aveva tanta paura.

Non sapeva come sarebbe finita.

A un certo punto, Sue le tirò uno schiaffo per farla stare zitta e, con una presa forte, la spinse e la costrinse a camminare nella direzione opposta a dove sarebbero dovute andare.

«Cammina!» esclamò.

La condusse nei sotterranei dell’edificio, lungo un cunicolo stretto e malandato.

Carol non vi era mai stata e si sentiva disorientata e sempre più spaventata da quel luogo scuro, pieno di tubi e ragnatele.

Sue la spinse fino ad una porta, la aprì, e quello che Carol vide dentro la fece rabbrividire.

All’interno della stanza, piccola, umida e piena di muffa, si trovava una sedia dall’aspetto antico, con intorno dei tubi malmessi e piccoli animali morti.

«Questa è la mia stanza dei giochi» disse Sue con voce gutturale «e adesso tu ti siedi».

Carol non osava controbattere, non sapeva come comportarsi.

Dopo un’altra violenta spinta, Carol ubbidì e si sedette sulla sedia.

Per lei, di lì a poco, si sarebbe scatenato l’inferno.

Sue le girò intorno, afferrò un tubo arrugginito dal pavimento e, senza una parola, lo sbatté con violenza sulla schiena della ragazza che iniziò ad urlare.

Furono minuti lunghissimi per Carol.

Venne picchiata e torturata nei più macabri e orribili modi possibili.

Il suo viso, una volta così perlaceo, era rigato da sangue che scendeva fino al mento a formare una maschera rossa.

La pelle, prima così delicata, era devastata da chiazze viola e rosso scuro.

Gli occhi…, gli occhi erano l’unica parte di Carol ad essere impregnati di una sostanza che non fosse sangue.

Sue continuò così per un’ora, forse due.

La vittima perse la cognizione del tempo.

Il dolore era tale da non riuscire neanche più a urlare.

Il suo sguardo stravolto vagava in cerca di aiuto.

Notò la porta semiaperta.

Da lì, le sembrò che una figura scura stesse guardando.

Con la poca forza rimastele, strizzò gli occhi incrostati di sangue e lacrime per cercare di scrutare meglio.

Ma la vista le si offuscò.

Stava per svenire.

O, forse, stava morendo.

Capì che non c’era più speranza e si abbandonò alla morte.

Era il sogno che aveva inseguito da tempo, da quando era lì ad Hanwell.

Chiuse gli occhi con il pensiero che fosse l’ultima volta per lei.

Ma non fu così.

Un urlo non umano la richiamò alla vita.

Stravolse gli occhi, con il cuore in gola, cercando, disperata, di afferrare la situazione.

Vide una figura alta e scura davanti a sé che la fissava con uno sguardo malvagio e folle.

Le tornò alla mente quel suo primo giorno al manicomio. Era lo stesso sguardo.

Sotto la figura c’era un corpo disteso e rivolto. Appariva privo di vita, forse svenuto, privo di sensi.

Immaginò che quel corpo a terra fosse quello di Sue.

Realizzò che sopra quel corpo, con gli occhi spalancati e un sorriso macabro, c’era Bryan, con un tubo di ferro in mano.

Il ragazzo, appariva fuori di senno, si girò a fissare Carol, che ebbe un brivido, terrorizzata da quello sguardo.

Bryan, la fissò, ampliò il sorriso, come faceva sempre quando si rivolgeva a lei, e disse:

«Eliminiamo il problema?»

Carol, sempre più in preda al terrore, parlò. Non seppe mai con quale forza d’animo riuscì a tirare fuori quelle tre parole. Non seppe nemmeno se fu davvero lei a parlare o qualcun altro. Era una situazione così irreale. Pensò di essersi divisa in due, che il suo lato ribelle fosse prevalso:

«Dammi quel tubo!»

Bryan glielo diede con evidente senso di piacere.

La ragazza si alzò dalla sedia tremolante e non vide più nient’altro.

Il corpo di Sue fu lentamente fatto a pezzi dalle sue stesse mani.

Bryan, accanto, la stava a guardare impassibile.

Passarono alcuni minuti, minuti nei quali Carol desiderava solamente distruggere il corpo della ragazza, senza rimorsi, colpendo ogni singola parte con furia irrefrenabile, con una forza sovrumana che appariva moltiplicata a dismisura.

Niente di quello che stava facendo era dettato dalla sua volontà.

Infine, smise.

Lasciò cadere a terra la sbarra di ferro, esausta.

Vide gli infermieri che accorsero nella stanza, allarmati dalle urla che erano arrivate anche ai piani più alti.

Videro la scena e non credevano ai loro occhi.

Carol sorrideva, il viso incrostato di sangue secco, gli occhi iniettati di sangue.

Si girò per rivolgere uno sguardo soddisfatto al suo amico.

Ma non vide più Bryan. Era come sparito nel nulla.

Un senso di vuoto la colpì. Fu come se fosse appena tornata dall’altro mondo.

In un attimo, tornò in sé e capì quello che aveva fatto.

Ma era troppo tardi.

«Portatela nella stanza dell’elettroshock» disse una voce seria fuori dalla stanza. Era il direttore del manicomio, Mr. Parker.

Gli infermieri si avviarono verso la ragazza.

Ella si fece prendere e portare fuori da quel luogo, ritornata docile. Era incredula e senza fiato per ciò che aveva appena vissuto. Non proferì parola. Tutto era solamente e semplicemente assurdo.

Due infermieri la trascinarono via.

Nonostante che tutto intorno a sé fosse ovattato, riuscì a comprendere alcune parole che gli infermieri dicevano:

«Non ci posso credere l’abbia fatto di nuovo.»

«Sono senza parole.»

«Come ti chiami?»

«Carol Walker.»

«Quanti anni hai?»

«Ventitré.»

Carol si trovava in una stanza vuota, molto più brutta di quella in cui si trovava prima. Attorno a sé vi erano solamente due dottori dall’aria anziana ed esperta, un tavolino e un macchinario strano accanto a lei.

Non si ricordava molto di come fosse entrata lì, solo che i due dottori le accennarono qualcosa riguardo a delle domande e la fecero sedere su una strana sedia collegata a un macchinario. Le strinsero i cinturini attorno alle braccia e posarono sulla sua testa un marchingegno metallico che la fece rabbrividire.

Si disse che non sarebbe finita bene.

«Di dove sei?»

«Io… Non me lo ricordo.»

«Capisco.»

Il dottore prese appunti sul suo taccuino, e con un cenno fece al suo collega di accendere il macchinario.

Era alto, aveva una lunga barba bianca e dei curiosi occhialetti scuri e rotondi sulla punta del naso. Dall’aria stanca e stressata e le rughe intorno agli occhi, pensò che non dovesse avere meno di cinquant’anni.

L’altro invece doveva essere leggermente più giovane, con i capelli brizzolati e un accenno di baffi sopra la bocca perennemente rigida.

«Cosa volete farmi?»

«Quello che ti meriti.»

«Non mi merito niente.»

«Oh, sì invece» esclamò quello più giovane «pagherai per quello che hai fatto!»

«Non sono stata io! Mi ha incastrato!»

«E chi? I topi?»

«Sono seria! Sto parlando del ragazzo che era con me durante l’accaduto!»

«Non dire sciocchezze! È chiaro che eravate solo te e la signorina Thompson, che riposi in pace.»

Carol si sentì sempre più confusa. Guardò i medici confabulare tra di loro e in un attimo si sentì il cuore in gola.

Iniziò a dimenarsi sulla sedia, ma era bloccata.

«Fatemi uscire da questo maledetto posto!» urlò.

«Per Dio! Chiudi quella bocca, canaglia!» sbraitò il più vecchio «come pensi che finisca una schizofrenica come te?»

«Schizofrenica?»

«Ah, sei pure sorda?»

Carol ammutolì per un attimo. Era sempre stata convinta di essere solamente depressa, era ciò che la sua psichiatra a casa le ripeteva costantemente. Era depressa per via delle violenze subite dal suo fidanzato, che la picchiava e insultava costantemente ogni sera a casa. Come poteva questa forma di orribile tristezza trasformarsi in una tale bestia del demonio quale la schizofrenia?

«Non capisco.»

«I tuoi genitori non ti hanno detto nulla a riguardo?»

«Di cosa?»

«Che sei un’assassina? Che tempo fa hai ucciso il tuo stesso fidanzato, Luke Stones? Ah! Che Dio lo benedica quel povero ragazzo! Ucciso in quel modo da una bestia del genere! Solo le donne isteriche come te possono fare cose orribili come questa!»

D’un tratto la ragazza si ricordò tutto, e fu uno shock per lei.

Le droghe che aveva continuamente assunto negli ultimi mesi avevano fatto sì che si dimenticasse piano piano di quanto era successo quel fatidico novembre. Carol deglutì, assalita dalla vergogna.

Non aveva più sentito pronunciare il nome del suo fidanzato da quando aveva avuto quella strana conversazione con Bryan…

«Johnson, prepara l’elettroshock.»

«Sissignore.»

«Aspettate!»

«Che c’è adesso?»

«Non ero sola!» si dimenò la ragazza sulla sedia «c’era un altro ragazzo con me prima mentre la uccidevo! Ha iniziato lui! Si chiama Bryan!»

«Bryan? Stai proprio delirando, non ho presente nessun Bryan in questo istituto.»

«Ma come! Ve lo posso giurare, era con me! È un ragazzo alto, pallido, dagli occhi profondi e scuri… Come fate a dire che sto mentendo? È proprio lì dietro di voi!»

Carol indicò con lo sguardo la porta, dove si trovava Bryan appoggiato allo stipite e le braccia incrociate.

I dottori si girarono verso la porta in direzione del ragazzo e rimasero perplessi.

«Figliola, ma lì non c’è nessuno.»

«Non è possibile! È proprio lì! Ve lo posso garantire! Bryan, diglielo che c’entri anche tu, ti prego!»

«Ora basta con queste cavolate! Johnson attiva la macchina!»

Il collega annuì e con un gesto semplice accese il macchinario, che iniziò a emettere un rumore assordante.

Carol capì che era la fine per lei, non poteva fare nient’altro.

«No! Fermatevi! Vi prego…»

I suoi occhi saettarono da una parte all’altra della stanza, mentre veniva immobilizzato dal medico più vicino.

«No!» urlò in preda dalla paura «No! No! No! No!»

«Stai zitta!»

«Bryan!» ella si rivolse al ragazzo in fondo alla stanza che la stava fissando incuriosito, quasi annoiato.

«Bryan! Aiutami!»

Il ragazzo non si mosse.

Tutto quello che fece fu, per Carol, qualcosa di atroce: sorrise.

Poi, fu il buio.

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