WOUNDED KNEE di Mike Papa

Alla fine, li abbiamo trovati.

Solo tre giorni or sono, stavamo rendendo omaggio con tutto il trasporto spirituale possibile alla nascita di Nostro Signore Gesù Cristo, scambiandoci strette di mano come simbolo di pace, e oggi eravamo lì, del tutto dimentichi dei suoi insegnamenti, a dare la caccia a quelli che secondo il Verbo dovrebbero essere nostri fratelli.

350 Miniconjou, un gruppo della tribù dei Sioux Lakota, la maggior parte donne e bambini, infreddoliti, affamati e sofferenti.

Inermi.

Il gran capo Piede Grosso, ammalato di polmonite, riusciva a stento a reggersi in piedi con l’aiuto di due guerrieri, eppure guidava la marcia dei suoi verso Pine Ridge, con l’intenzione di unirsi agli uomini di Nuvola Rossa, che da anni sono confinati in quella riserva.

Noi avevamo l’ordine di condurli al nostro accampamento di Wounded Knee. L’ennesima prigione a cielo aperto, niente di più.

Mi domando sempre più spesso se quello che stiamo facendo sia giusto.

Vedere questo popolo orgoglioso, questi eccezionali guerrieri, questi anziani che, per il poco che ho potuto comprendere, sono molto più saggi di generali o maggiori, queste bellissime donne, questi bambini sempre allegri e sorridenti chinare il capo sotto la minaccia delle armi di noi “Giubbe blu” che li sovrastiamo in numero (non certo in coraggio, oserei dire, ed episodi di cui sono stato testimone danno veridicità alle mie parole) mi riempie il cuore di tristezza e la mente di insicurezze.

C’è stato un tempo in cui il mio unico sogno era quello di far parte del glorioso Esercito degli Stati Uniti, portatore di civiltà in una terra selvaggia.

Dopo quattro anni di servizio comincio a non vedere più così netta la differenza tra civilizzazione e genocidio.

Torno a scrivere da un letto dell’infermeria nell’accampamento di Pine Ridge.

Sono stato fortunato, un proiettile mi ha solo sfiorato la testa e un altro ha trapassato la coscia senza gravissime conseguenze.

Zoppicherò solo per qualche tempo, mi hanno assicurato. Anche se fosse per sempre, non smetterò mai di ringraziare Dio.

Dall’olocausto di cui sono stato testimone potevo uscire molto peggio. O non uscirne affatto, come diversi miei commilitoni.

Una carneficina scaturita, come altre troppe volte, dalla stupidità, dall’arroganza e dal delirio di potere di cui fino a pochi giorni fa avevo avuto solo il sentore.

Nonché dalla paura comune a tutti i soldati coinvolti in una qualsiasi guerra.

Comincia a darmi fastidio anche scriverlo, questo vocabolo, sei lettere innocue che combinate insieme formano la parola più crudele mai pronunciata dall’uomo.

Ma torniamo ai fatti, che di sicuro spiegheranno con più efficacia ciò che voglio far intendere.

Una volta arrivati a Wounded Knee, dal colonnello James Forsyth, subentrato al maggiore Samuel Whitside, abbiamo ricevuto la disposizione di disarmare i guerrieri indiani.

Tutti hanno deposto le armi, rassegnati nell’animo ma non nello sguardo, quello sguardo fiero che ogni volta che si posa su di me ha il potere di farmi arrossire e di accrescere ancora di più i miei dubbi e le mie insicurezze.

Solo un giovane guerriero è restato con la sua carabina Winchester tra le mani, nonostante i soldati gli ringhiassero (uso questo termine non a caso) di posarla a terra.

Una decina di miei commilitoni l’hanno circondato in un cerchio sempre più stretto, mentre donne e anziani urlavano, inascoltati e sempre più disperati:

«Nuhcan, nuhcan…»

La guida indiana che in quel momento si trovava al mio fianco mi ha spiegato che quel ragazzo era nuhcan, sordo.

Non un ribelle, né un pericoloso sovversivo, solo un giovane spaventato che non poteva sentire ciò che gli veniva detto.

Mi sono lanciato per riferirlo agli altri, ma non ho fatto in tempo: il sergente Crawford, quel borioso contadino del Wyoming convintissimo di stare dalla parte della ragione e non da quella del più forte, convincimento rinvigorito come al solito da abbondanti sorsate di whisky, si è letteralmente scagliato sul povero indiano per farlo sottostare ai suoi ordini.

Non ho capito come, ma è partito un colpo.

E da lì l’inferno.

I due pivelli alle mitragliatrici, nel sentire lo sparo, sono stati presi dal panico, come se un manipolo di uomini disarmati, di donne, vecchi e bambini potessero costituire un pericolo a cui rispondere con tanto impeto.

Il campo è stato completamente falciato dai colpi delle Gatling.

I proiettili, nella loro totale e mortale ignoranza, non hanno risparmiato nessuno, abbattendo senza discriminazione bianchi e rossi, donne e bambini.

Solo una volta esauriti i colpi le mitragliatrici hanno taciuto.

Ma non le grida e i lamenti che hanno coperto tutto l’accampamento in una coltre straziante. Anch’io ho dato il mio contributo, senza ritegno alcuno, reggendomi la coscia trapassata.

Buttato faccia a terra potevo spaziare con lo sguardo solo per pochi metri, ma quello che vedevo mi bastava: corpi senza vita coprivano tutto il campo, col sangue che si allargava sotto di essi ad abbeverare una terra avida a cui sembrava non bastare mai.

A pochi centimetri da me, una madre esanime con ancora stretto al petto il fagottino di un bimbo a cui mancava la faccia.

Un innocente senza faccia.

Ho urlato ancora più forte, stavolta non per il dolore, ma per l’orrore.

Solo poco fa un infermiere mi ha riferito l’esito di tutto ciò.

Sono cifre raccapriccianti, per cui le trascriverò nude e crude, con la mano ferma, il cuore in trepidazione e la speranza di non farmi sottomettere né dall’emozione né dall’indignazione.

Dei 350 indiani ne sono usciti vivi in 51: 4 uomini e 47 tra donne e bambini.

Dei nostri, 25 sono rimasti sul campo.

Ho dormito poco e male.

Gli incubi mi hanno sopraffatto: continuavo a rivedere nei sogni quel bambino senza faccia.

Non aveva più il volto, non poteva parlare, eppure la sua domanda mi è riecheggiata nella testa, facendomi svegliare tremante e sudato.

Un’unica domanda: perché?

Non ho la risposta.

Dubito che qualcuno l’abbia, a meno che non sieda sugli alti scranni e manovri gli avvenimenti come un burattinaio senza scrupoli.

Ma in quel caso sarebbe sbagliata, trasfigurata dalla sete di potere e dalla lontananza dalla vita reale.

Mi chiedo come mai la mia anima sia più dilaniata dalla morte di trecento “selvaggi” che da quella dei miei compagni d’arme.

Anche qui, nessuna risposta.

Forse sono solo un uomo che riconosce la sopraffazione, che non riesce a stare dalla parte del più forte…

Forse sono solo un uomo che non dovrebbe essere qui, con la pistola al fianco e il fucile nella fondina della sella, ma disarmato a portare avanti un’idea di uguaglianza, di giustizia…

Di pace.

Forse.

Forse.

Il solito infermiere mi ha riferito che i Miniconjou superstiti sono qui a Pine Ridge, ammassati nella piccola chiesa.

Ammassati.

Questo è il termine che ha usato. Come se fossero sacchi di vettovaglie.

Volevo vederli.

Era una cosa che dovevo fare.

Sono riuscito a rimediare una stampella e, contro il parere del medico che mi consigliava di non alzarmi, sono arrivato alla chiesa.

Il pur breve tragitto non è stato per niente agevole, la ferita mi spediva fitte di dolore al cervello a ogni passo.

Mi è piaciuto pensare che fosse il mio personale Calvario, un modo di espiare colpe che non ho come individuo ma che sento pesarmi sulle spalle come rappresentante della razza umana.

Dopo un tempo che mi è sembrato infinito sono riuscito a varcare le porte del Tempio di Dio.

Ho visto le donne sedere composte sui banchi, cercando di dare conforto ai bambini. I più piccoli piangevano, i più grandi, quando mi hanno visto, si sono alzati, creando un muro tra me e le loro mamme e i loro fratelli. Sembravano pronti ad affrontarmi, come guerrieri in miniatura, scaraventati nel mondo degli adulti dalla tragedia che li aveva colpiti, induriti dall’orrore che avevano visto, strappati alla loro innocenza dall’ingiustizia di cui erano vittime.

Devono essere stati in qualche modo rassicurati dalla mia infermità, perché mi hanno concesso di arrivare zoppicante fino a ridosso dell’altare.

Lì, sotto la croce con quell’uomo sacrificatosi per noi e i nostri peccati, Piede Grosso era steso su un mucchio di coperte e faticava a respirare. Gli altri tre uomini lo circondavano, cercando di infondergli tutta la serenità possibile per il trapasso verso le Verdi Praterie che non doveva essere molto lontano.

Quando sono arrivato nel suo raggio visivo, il Grande Capo mi ha guardato con occhi spenti e, tra un attacco di tosse e l’altro, si è sforzato di dire qualcosa. Ho dovuto avvicinarmi alla sua bocca per capire ciò che diceva. Lui ha ripetuto, con voce ancora più flebile, una sola parola:

«Takuwe?»

Non ho avuto bisogno di nessuna guida indiana che me la traducesse, per capirne il significato, mi è bastato lo sguardo rassegnato di Piede Grosso.

Era la stessa domanda di quel bambino e che anch’io ho cominciato a ripetermi sempre più di frequente:

«Perché?»

Una domanda che qualsiasi essere umano farebbe bene a cominciare a porgersi, prima che sia troppo tardi.

Avrei voluto toccarlo, accarezzare il suo volto scavato dalle rughe sulla pelle della stessa consistenza del cuoio della mia sella, stringergli la mano ossuta. Non l’ho fatto, in quel momento ho temuto, anzi no, ho sentito che col contatto fisico avrei potuto inquinarlo, inzaccherare la sua aurea pura di grande e giusto uomo.

L’unico gesto che mi sono sentito di fare è stato alzare la mano in un saluto, o una benedizione, o una richiesta di scuse.

Non so.

Il Capo ha annuito e ha richiuso gli occhi.      

Non avevo altro da fare, lì.

Nel girarmi per tornare al mio letto e ai miei drammi interiori ho visto lo striscione che addobbava la navata sinistra della piccola chiesa. Un augurio buono per il periodo natalizio, ma disatteso per il resto dell’anno.

“Pace in terra agli uomini di buona volontà”.

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