UNA STORIA DI MARE a cura di Rebecca Guidi (parte prima)
genere: AVVENURA
Dopo un assedio di 53 giorni, dal 6 aprile al 29 maggio 1453, l’esercito ottomano, guidato dal giovane sultano Maometto II, conquistò Costantinopoli sconfiggendo l’esercito bizantino guidato dall’imperatore Costantino XI.
Cessava, così, l’Impero Romano d’Oriente, dopo 1058 anni dalla sua fondazione.
Finiva anche il Medioevo e iniziava l’era moderna.
In questo scenario, sulle orme di Ulisse, si svolsero le vite di numerosi personaggi approdati sulle rive dell’Adriatico, ad Ancona.
In particolare, una famiglia di profughi greci, accolti in un austero palazzo di ricchi mercanti.
Qui fiorì una profonda amicizia di due bambini, destinata a durare per tutta la vita, a dispetto di eventi drammatici che li costrinsero a separarsi ma non ad impedire, ad entrambi, di diventare uomini importanti nella vita della città.
(testo originale di Massimo Zenobi)
CAPITOLO PRIMO
Adriatico centrale, 23 settembre 1459
Manili Maruli era affacciato alla balaustra del castello di poppa e osservava come il bordo libero dello scafo fosse particolarmente basso per il carico di merci, di uomini e di dolore. Con un cenno del capo il sovracomito lo salutò scendendo la scaletta che portava al ponte di poppa, da dove comandò i subalterni a eseguire le manovre per l’avvicinamento. Mentre i marinai si occupavano di ammainare e serrare le vele, i vogatori non tardarono a prendere la cadenza sotto la sferza degli aguzzini. Sulle due file di panche, oblique rispetto ai bordi della nave, sedevano come in chiesa i rematori, in ragione di tre per ogni panca, tenendo il remo fuori dall’acqua e le braccia vicine al corpo; si tiravano in piedi, allungando e alzando le braccia, per arretrare e immergere la pala del remo; poi, puntando un piede sulla pedana dell’inginocchiatoio, si aggrappavano al remo con tutto il peso del corpo per dare la spinta, fino a ricadere all’indietro e tornare a sedersi sulla panca; e così via, ancora e ancora, fino all’estinzione del debito, o alla fine della pena, o per sempre. Manili era attratto dalla sincronica coreografia dei movimenti, gli richiamavano alla mente quelli dei fedeli nella liturgia della Santa Messa.
Oltre la sagoma bruna del Conero, sullo sfondo scuro della notte in fuga a ponente, il chiarore dell’alba alle sue spalle cominciava a illuminare in lontananza il profilo delle bianche, ripide falesie incastellate. Più avanti, il fuoco del Fanò, la lanterna, indicava la bocca del porto di Ancona. Era ormai giorno fatto quando la galea, tenendosi a distanza dalle ultime propaggini rocciose del colle Guasco affioranti a pelo d’acqua, disegnò un’ampia virata di prua e si dispose a entrare in rada.
Investita dal sole ancora basso del mattino, la città dispiegava a ventaglio la sua magnificenza, scendendo dai colli ad abbracciare lo specchio del suo porto. In mare, una miriade di imbarcazioni sparse per tutto il golfo – galee affusolate, cocche panciute, fuste, tartane, legni, bastimenti di ogni genere – era a testimoniare l’opulenza della libera Repubblica di Ancona. Tra le vele, nel cielo reso terso da un temporale notturno, stormi di uccelli circondavano le barche dei pescatori, quasi a voler partecipare di tanta ricchezza. Una moltitudine brulicante di vita avvolgeva l’intera città come la danza di mille api attorno al favo.
La galea avanzava lentamente mentre i due nocchieri manovravano tra le navi alla fonda. A sinistra sfilò il bastione posto a difesa del porto, all’estremità delle mura lungo il molo di settentrione. Quasi in fondo al molo si ergeva l’arco che nei tempi antichi l’imperatore Traiano aveva voluto donare alla città. In prossimità della banchina fu comandato di ritirare i remi, mentre gli ormeggiatori a terra e i prodieri a bordo si scambiavano le cime. Finalmente la nave diede fondo.
In alto, sopra il porto, sulla sommità del colle Guasco, la chiesa cattedrale di San Ciriaco dominava sulla distesa di case alte e strette, addossate l’una all’altra, irta di torri, guglie, campanili, che si inerpicava fin sopra il colle Astagno sul lato opposto. Era come se l’intera città fosse adagiata su un lenzuolo, con i quattro lembi sul colle dei Cappuccini e sull’Astagno da un lato, e dall’altro sul colle Guasco e la punta meridionale del porto. Più volte nel passato il lenzuolo era mutato in un sudario di morte – per i saraceni, le pestilenze o altre iatture – ma sempre l’operosa caparbietà degli anconitani aveva rapidamente ricoperto le macerie, come una sana, rigogliosa, pervasiva gramigna.
Forse proprio l’incombere incessante di un nemico aveva spinto la cittadinanza a dotarsi di un sistema difensivo così imponente. Sul lato del mare un alto muraglione, il Corridore, da un capo all’altro del porto sembrava fatto apposta per impedire alle case di scivolare in mare, ed era separato dall’acqua solamente da uno stretto camminamento che univa tra loro le rare portelle, angusti passaggi ai quali si accedeva direttamente dal mare tramite una corta gradinata triangolare. In posizione arretrata, una fila di torri di guardia trovava spazio in mezzo all’abitato, lungo il tracciato della via del Porto. Alle spalle della città una cinta di mura fortificate copriva l’intero lato della campagna. Le falesie a picco sul mare facevano il resto.
Dietro il Corridore, quasi per l’intera lunghezza si snodava la via Sottomare, che saliva dal porto e passava sotto alla loggia da poco costruita ad uso dei mercanti, alla moda delle città importanti di quei tempi, che tutti dicevano così bella da parere un palazzo di Venezia. Manili non l’aveva ancora vista, ma era proprio lì che avrebbe dovuto incontrare Demetrios Zenobios nel giro di qualche ora. Non aveva ben presente dove fosse la loggia – anche se i suoi archi si scorgevano distintamente dal porto – ma si ricordava bene di via Sottomare, per averci passato qualche momento piacevole l’ultima volta che era venuto in Ancona. Ma era successo anni prima, prima che succedesse tutto, prima che la sua esistenza, insieme a quella di altri milioni di persone, venisse sconvolta da uno di quegli eventi talmente sproporzionati e decisivi nella storia del mondo da meritare la distinzione tra un prima e un dopo, come la nascita di Nostro Signore.
Una volta imboccata via Sottomare, Manili poté allentare la concentrazione necessaria per orizzontarsi in una città straniera e si sentì libero di inseguire i tanti pensieri che gli affollavano la mente. La fortuna lo metteva di fronte a un nuovo sconvolgimento: avrebbe dovuto ricominciare da capo ancora una volta, e ogni nuovo inizio richiedeva energie sempre maggiori e spalle sempre più larghe, quando il tempo e le preoccupazioni le rendevano invece ogni giorno più curve. Cosa avrebbe fatto in Ancona? Sarebbero rimasti lì oppure sarebbe stata solo un’altra tappa di un esilio senza fine? Quali risorse lui e la sua famiglia erano in grado di mettere in campo? Con Zenobios si erano scritti più volte e gli aveva assicurato il suo aiuto, in nome dell’amicizia e di interessi comuni che tempo addietro avevano legato le due famiglie. Sarebbero stati accolti o semplicemente tollerati? Quando si erano trasferiti a Costantinopoli, cacciati dalla Morea, sembrava fosse stato suo nonno a tirar fuori, da qualche anfratto recondito, storie e sigilli e documenti che rivelavano al mondo come lui, un signorotto di campagna in una regione periferica, potesse vantare ascendenze nientemeno che fra gli antichi imperatori della prima Roma. I suoi figli e nipoti si erano facilmente assuefatti e immedesimati nel ruolo di rampolli della più nobile schiatta. Quanto a lui, Manili si considerava un uomo d’arme, abituato a non farsi troppe domande, anche se ogni tanto qualche dubbio lo sfiorava: soprattutto non si capacitava di come dei nobili di tale lignaggio fossero andati a cacciarsi in quella pietraia dove era sempre vissuta la sua famiglia. Diverso era invece il caso di Eufrosine, sua moglie: lei non aveva bisogno di appellarsi a vecchie pergamene, giacché la stirpe dei Tarcanioti a cui apparteneva, pagava da secoli un tributo di sangue alle cause dell’impero, lasciando una scia di morti sui campi di battaglia.
Manili era anche un uomo d’ingegno e dovette usarlo tutto, e precocemente, per sopperire alle necessità della famiglia e all’inettitudine di un padre imbelle. Sorretto dall’inattendibile blasone e prodigo di elargizioni – esito di losche trattative a cui gli Zenobios, sempre in cerca di lucrosi appalti statali, non furono del tutto estranei – era riuscito a introdursi presso la corte imperiale, dapprima come semplice funzionario, in seguito assumendo maggiori responsabilità, favorite dalla sua dimestichezza con le armi e con la disciplina militare. Era sugli spalti delle mura come ufficiale della guardia di palazzo, la notte in cui successe tutto.
Giunti in Dalmazia, Ragusa li aveva accolti senza riserve e con una certa curiosità. Era una comunità piuttosto piccola, i trascorsi imperiali e i racconti di palazzo avevano fatto presa sui notabili locali, come diversivo all’esercizio monotono delle virtù repubblicane, per cui non era stato difficile accreditarsi presso le autorità cittadine e ottenere qualche decoroso incarico di rappresentanza. In Italia però le cose sarebbero state più complicate. Nei tanti centri, grandi e piccoli, di cui era disseminata, il rinato interesse per la classicità e la curiosità per il mondo orientale erano già stati soddisfatti negli anni precedenti da una prima ondata di immigranti, che si qualificavano come eruditi e si erano proposti come precettori e insegnanti di greco. Tra gli appartenenti alle classi più agiate – quindi in grado di pagare per la propria istruzione – non era infrequente trovare persone che padroneggiavano il greco al pari del latino. Di fronte a platee smaliziate e poco impressionabili, non bastava più sciorinare qualche pagina di Omero per trovare un ingaggio. Aveva maggiori possibilità di successo sfruttando la secolare inclinazione a venire alle mani tra le città e i potentati della penisola italiana, in questo del tutto simile all’altra penisola da cui egli stesso proveniva. Forse un soldato con buone doti di diplomazia, tanto più se straniero e quindi neutrale rispetto alle beghe locali, sarebbe tornato utile a qualcuno dei tanti signori in lotta fra loro. Aveva sentito dire che il nuovo papa Piccolomini si stava adoperando a organizzare una coalizione di principi cristiani per muovere guerra contro quel pazzo criminale – maledetto sia il suo nome – che ora sedeva a Costantinopoli, lordando con la sua eresia blasfema i luoghi sacri e calpestando indegnamente il suolo della Patria. Sarebbe stato bello e giusto essere parte di quella santa impresa, e anche morire se necessario, per il suo successo. Se non il denaro o le terre, il lascito ai suoi figli sarebbe stato almeno l’odio inestinguibile per l’usurpatore e il dolce ricordo della Città delle Città, del Paradiso in Terra che non avevano mai visto, ma che era loro diritto sognare di rivivere.
Manili era talmente preso dai suoi pensieri che quasi non si accorse di essere giunto di fronte alla Loggia dei Mercanti. L’edificio era realmente magnifico come gli era stato detto. La posizione – quasi a mezz’aria fra il mare e la terra – le forme e la finezza delle decorazioni esprimevano l’orgoglio e la protervia di un’intera comunità e al tempo stesso mostravano qual era la fonte della sua ricchezza. Manili attraversò uno degli archi dal lato della strada e venne abbagliato dalla luce che entrava da quelli sul lato opposto prospiciente il mare. Non appena gli occhi si furono riabituati, lanciò uno sguardo attraverso l’ampio salone tentando di catturare qualcosa di familiare. Decise di scegliere a caso uno dei capannelli di gente che affollava il locale, si avvicinò e quasi urlando per sovrastare il vocìo di fondo domandò:
«Perdonatemi, conoscete messer Demetrios Zenobios?».
Uno degli astanti lo squadrò da capo a piedi prima di rispondergli:
«Il greco? E chi non lo conosce?».
«Per caso sapete dirmi dove posso trovarlo?».
«Non si vede spesso da queste parti. Di solito lui tratta gli affari a casa sua, se lo può permettere!» replicò, mentre gli altri confermavano annuendo.
«Provate a chiedere a quello là in fondo, vicino alla colonna» disse indicando un ragazzo ben piantato che sembrava intento a scrutare la folla in cerca di qualcuno.
«Lavora per lui, di certo saprà aiutarvi».
«Grazie, che il Signore ve ne renda merito!» rispose Manili mentre si congedava.
«Un altro greco… Tra un po’ non sapremo più dove metterli, tutti questi greci!» commentò a bassa voce uno dei presenti.
«Soprattutto se continuate a portarveli in casa e a sposarveli, come ha fatto tua figlia!» lo zittì quello che sembrava il più anziano del gruppo, tra le risate degli altri.
Quando Manili arrivò a pochi passi dal giovane, fu egli stesso a prendere l’iniziativa:
«Messer Manilio Marullo?».
«Sono io!» rispose lui, rincuorato.
«Mi chiamo Ermete. Il mio padrone, Demetrios Zenobios, ha mandato me per accompagnarvi verso la sua casa».
«Sono qui da solo, la mia famiglia sta aspettando al porto. Dobbiamo passare a prenderli».
Con un gesto della mano, Ermete lo invitò a precederlo. I due si incamminarono per via Sottomare e raggiunsero uno slargo di fronte alla portella di Santa Maria. Lì trovarono due donne, sedute su una panca, che intrattenevano due bambini, ciascuno con un pezzo di focaccia in mano. A pochi passi si affacciava la porta di una locanda.
«Alla buonora!» esclamò la più anziana tra le due non appena vide Manili, tirandosi su con la lentezza imposta dall’età e da una certa pinguedine.
«Gli uomini sono in taverna, come al solito…», aggiunse.
«Vado a chiamarli. Perché non siete entrate anche voi?» disse Manili.
«Sai bene che tipo di donne frequenta le locande. E poi ti pare un posto adatto a dei bambini?» rispose quasi stizzita la donna più giovane.
Riflettendo sulle parole della moglie e sulla sua naturale capacità di farlo sentire uno sciocco, Manili entrò nella taverna e ne uscì dopo qualche istante seguito da due uomini, un vecchio con una folta barba bianca da cui tentava di ripulire una macchia di unto, e un altro che sembrava la proiezione di Manili di lì a trent’anni, tanto gli somigliava. Ermete salutò i presenti con deferenza.
«Vi prego di seguirmi, la casa di kyr Demetrios non è lontana. Se posso aiutarvi con i bagagli, disponete pure di me».
Il piccolo gruppo si inoltrò per le vie della città con Ermete in testa – che teneva con una mano la maniglia di una cassa – affiancato da Filippo, padre di Manili, che reggeva la maniglia sul lato opposto. Seguivano Manili e sua madre Tomassa, poi Eufrosine, moglie di Manili, che tirava per un braccio il recalcitrante secondogenito Mikel. Chiudeva il gruppo Jan, il primogenito della coppia, che sosteneva l’anziano bisnonno, un Manili anche lui. Lungo il tragitto, alla vista del lugubre corteo di figure vestite di scuro che seguivano una cassa, a più di un passante venne d’istinto scoprirsi il capo in segno di lutto. La marcia era rallentata dalle continue soste, per dar modo al vegliardo di riprendere fiato oppure perché il piccolo Mikel una volta voleva essere preso in braccio e la volta dopo voleva scendere e camminare da solo. In cuor suo, a Ermete non dispiaceva fermarsi ogni tanto. La cassa si faceva man mano più pesante e Filippo – perseguitato per tutta la vita dalla fama di buono a nulla – si sarebbe fatto schiantare il cuore piuttosto che chiedere di riposarsi a quello che pensava essere un servo. Alla fine, ci volle una buona mezz’ora per coprire un tragitto di non più di mezzo miglio. Dovettero inerpicarsi sulle ripide rampe di scale che salivano dal porto fiancheggiando il Palazzo degli Anziani. Giunti in cima, discesero per qualche decina di passi lungo la via Maestra, che congiungeva la sommità del colle Guasco – luogo della vita religiosa – con la zona del piano, sede della vita civile della città. Forse Demetrios non ne era inconsapevole quando aveva scelto quel palazzo a mezza costa, all’angolo della piazza prospiciente la chiesa di San Francesco. Forse la scelta di un posto a metà strada fra l’alto e il basso, in equilibrio tra l’elevazione spirituale e la felicità terrena, a fianco di una chiesa ma con vista sul porto, era una dichiarazione di intenti sul modo in cui avrebbe voluto condurre la sua esistenza.
La base di pietra bianca squadrata su cui si sviluppava il palazzo, faceva da spalla agli archi a sesto acuto posti sopra ognuna delle numerose porte, fatti di mattoni e impreziositi da una cornice di pietra bianca lavorata. Dalla base in pietra salivano i muri perimetrali in mattoni, su cui si aprivano due ordini di bifore, piuttosto piccole in rapporto alla superficie delle facciate. La sproporzione conferiva al palazzo un aspetto austero e massiccio, in contrasto con la slanciata e magnificente leggerezza del nuovo portale della chiesa che sovrastava la piazza. Dalla strada si intravedevano in alto i pilastrini della loggia a sostegno del tetto. L’edificio era al tempo stesso l’abitazione della famiglia e la base operativa di tutte le attività commerciali e ciascuna porta dava accesso a un locale adibito a una funzione specifica. C’era l’ufficio del contabile che teneva i registri delle movimentazioni delle merci, c’erano i magazzini in cui venivano conservate quelle di maggior valore e altri locali servivano per la vendita al dettaglio, in particolare dei panni, voce principale degli affari della famiglia.
Il portone che dava sulla piazza era spalancato. Quando erano ormai sulla soglia, schizzò fuori correndo un grosso gatto, rosso di pelo, inseguito da un ragazzino che gli urlava dietro: «Fermati, Saladino!».
«Theo, lascialo perdere!» disse dall’interno una voce potente.
Demetrios Zenobios torreggiava al centro del cortile, sovrastando i presenti di una buona spanna, le gambe ben piantate sul selciato ancora umido per la pioggia della notte prima e parzialmente nascoste dal mantello di lana.
«Kyr Manili, benvenuto nella mia casa. Avevo visto entrare in porto un bastimento ragusino che issava la bandiera di San Biagio e ho mandato a controllare».
«Vi ringrazio, kyr Demetrios. Effettivamente abbiamo viaggiato a bordo della galea di Blasio di Luca Caboga. Vi porto i suoi saluti» rispose Manili.
Demetrios sorrise.
«Caboga è un mio buon amico, l’ho incontrato di recente. Da decenni la sua famiglia commercia la cera che raccoglie in tutti i Balcani. Gente seria e operosa».
Poi lanciò una rapida occhiata al gruppo e disse:
«Ma sarete stanco per il viaggio, entrate pure a riposare. I miei servi si prenderanno cura di voi e della vostra famiglia. Parleremo a cena».
Si accorse di avere addosso due occhietti vispi e timorosi:
«E tu, piccolino, come ti chiami?».
Il bambino fece per avvinghiarsi alla gamba del padre affondando la faccia nel morbido panno della sua veste.
«Rispondi a kyr Demetrios!» lo esortò suo padre.
«Si chiama Mikel, non è così timido come sembra…» soggiunse.
D’un tratto, da dietro a una gamba di Demetrios sgusciò fuori un braccino che scostò di scatto il mantello per far spazio a una testolina bruna e riccioluta sopra un visetto paffuto, deformato in una smorfia che scopriva un sorriso sdentato.
«Io mi chiamo Kyriakos e ho sei anni!» esclamò il bambino.
La mano che suo padre gli mise sul capo lo ricopriva quasi interamente.
«Ecco il folletto che anima questa casa! Dove ti eri cacciato, brigante?» disse compiaciuto.
Il volto di Mikel riemerse dai panni e si illuminò. Pensò che anche lui aveva sei anni e dopo giorni di traversata e di noia interminabile, intravedeva la possibilità di passare del tempo con qualcuno che non fosse dieci, cento volte più vecchio di lui.
«Donna, indica la strada ai nostri ospiti» ordinò Demetrios.
Theodora chinò leggermente il capo in segno di assenso e di obbedienza e si incamminò verso una delle porte che davano accesso all’interno della casa.
«Seguitemi» disse.
Mentre attraversava il cortile seguita dalla famiglia di Manili Maruli, Theodora pensava che Demetrios era un brav’uomo, nonostante i modi a volte bruschi e perentori, e l’aveva sempre trattata con rispetto fin da quando, sedicenne, gli era stata concessa in sposa da suo padre. Era giunta più volte sul punto di amarlo, in qualche momento della loro vita coniugale, ma se n’era sempre ritratta in tempo per non dover patire le sofferenze dei suoi abbandoni e, forse, tradimenti. Demetrios Zenobios era un uomo in vista e i suoi mille obblighi e impegni lo portavano spesso lontano per tempi anche lunghi. Theodora ne era consapevole e nutriva per lui una profonda stima. Si era quindi concessa di occuparsi della casa, di cui era divenuta padrona assoluta e incontrastata, e lo stesso Demetrios si assoggettava di buon grado alle sue regole, quando era presente. Col tempo, la sincera devozione che Theodora aveva sempre mostrato nei suoi confronti, unitamente a un’intelligenza vivace, aveva indotto Demetrios ad affidarle – senza mai pentirsene – la cura dei beni di famiglia, di cui Theodora era divenuta amministratrice attenta e guardiana inflessibile.
La differenza di età non le pesava, piuttosto l’aspetto ancora vigoroso del suo uomo a dispetto della maturità le suscitava un senso di compiacimento, un moto di affetto che sapeva ricambiato. Non che una donna dal carattere forte e risoluto come il suo avvertisse il bisogno di essere rassicurata, ma l’idea di avere per marito un uomo di tale potere e prestigio la faceva sentire in pace. Del resto, non aveva più sedici anni – e neanche ventisei, a dire il vero – ma quanto aveva acquistato in saggezza ed esperienza non aveva perso nell’aspetto. Theodora era infatti una donna la cui bellezza precoce aveva attraversato gli anni quasi intatta, né i due figli nati dal matrimonio avevano in alcun modo alterato la sua figura, che si indovinava ancora snella sotto le vesti morbide e preziose. Il suo viso ambrato, irregolare e spigoloso, gli zigomi alti, il naso diritto e minuto che raccordava la bocca carnosa con due grandi occhi scuri, allungati e lucenti, richiamavano l’immagine di un’antica regina d’Egitto. Il gruppetto si avviò verso la scala che conduceva ai piani superiori. Prima di sparire dietro l’angolo, Mikel si voltò a dare un’ultima occhiata a Kyriakos, che nel frattempo era uscito dal suo nascondiglio.
Trascorso un paio d’ore, quando ormai stava facendo buio, tutti gli abitanti del palazzo si radunarono per la cena. I bambini più piccoli vennero affidati alle cure della governante e condotti nelle cucine, mentre gli adulti si disposero attorno al massiccio tavolo della grande sala. Nonostante la loro giovane età, a Jan e Theo fu permesso in via eccezionale di cenare con i grandi. Alle spalle di Demetrios, seduto a capotavola con la moglie a fianco, dentro a un grande camino crepitava un fuoco vivace, tanto insolito per il periodo quanto necessario per temperare il freddo.
Prima di iniziare a mangiare, ciascun commensale chinò il capo in segno di raccoglimento e si fece il segno della croce alla maniera orientale, cioè toccandosi prima la spalla destra con tre dita congiunte, simbolo della Trinità. Nonostante Demetrios disponesse di ingenti mezzi, i pasti serviti nella sua casa erano improntati alla massima frugalità. Taccagneria o parsimonia che fosse, non era certo la sua, poiché la materia ricadeva sotto l’inappellabile giurisdizione della moglie, come del resto tutto quanto attenesse alle faccende del palazzo. L’unico segno di agiatezza era un pane bianchissimo e fragrante, che veniva rifornito e consumato in quantità, forse più per il suo valore simbolico che non per quello nutritivo. In ogni caso, qualunque fosse l’entità e il numero delle portate, il pasto terminava immancabilmente con l’ipocrasso, un vino speziato e addolcito con il miele, per il quale Theodora aveva una vera passione, forse l’unica cosa nella sua vita misurata e regolare da cui doveva guardarsi per non eccedere. La cena si svolse tra scambi reciproci di sorrisi, mezze parole e cenni di cortesia, ma nessuno fino a quel momento aveva avuto voglia di aprire discorsi impegnativi, come se esistesse una volontà comune di bandire il dolore da quel luogo, almeno per qualche ora. La vaga atmosfera di attesa venne interrotta dalla voce del padrone di casa, che da ospite si sentì in dovere di guidare il cerimoniale. Si alzò in piedi levando la sua coppa prima in direzione di Manili, poi ruotando fino ad abbracciare gli altri commensali, e disse:
«Brindo a voi, amici miei, e rinnovo il benvenuto mio e della mia famiglia. Immagino le sofferenze che dovete aver patito in questi anni e che vi hanno condotto fino a qui. Solo il caso ha voluto che a noi tali sofferenze venissero almeno in parte risparmiate. Ci accomuna però il lutto per la Patria perduta. Ecco, sappiate – se ciò può esservi di conforto – che potete contare sul mio appoggio».
Alle parole di Demetrios, Manili sentì un brivido corrergli per la schiena: “potete contare sul mio appoggio” gli suonava più come una generica frase di circostanza che non l’espressione di una concreta volontà di aiutare. Magari le sue esperienze alla corte imperiale, costantemente lambita dagli intrighi di palazzo, lo avevano abituato a interpretare i significati reconditi, a leggere tra le righe, a cercare più tra i silenzi che non tra le parole, per cui stava semplicemente travisando il senso di quella che probabilmente era una semplice e sincera offerta di aiuto. E se non fosse così? E se i suoi sospetti fossero fondati? Non poteva permettersi di rischiare, non aveva attraversato l’Adriatico per una pacca sulla spalla. Doveva fare qualcosa. Si alzò in piedi, con il calice in mano, e replicò alle parole di Demetrios:
«Brindo a voi, mio ospite. Che il Signore ricompensi cento volte la vostra generosità. Voi avete ricordato le nostre sofferenze, ma voi stesso riconoscete di non averle vissute: mi perdonerete se io vi dico che solo chi le ha vissute può intendere. Lasciate dunque che sia chi le ha vissute a raccontarle».
Poi fece un lungo enfatico sospiro, rivolse uno sguardo alla moglie, prese fiato e iniziò a raccontare.
«Il ventotto maggio, mentre tutti aspettavano da un momento all’altro l’attacco finale, la Città era più bella che mai. L’aria era satura del profumo delle rose, che fiorivano a migliaia ad ogni angolo, in ogni spazio verde, su ogni muro. Era il mese della Madre di Dio, le chiese traboccavano di gente: quelli che non erano impegnati nella difesa delle mura o nella riparazione dei danni provocati dai bombardamenti, pregavano senza sosta per la salvezza del basileus e della città, oppure giravano per le strade in lunghe processioni dietro alle immagini sacre».
Una malinconia struggente trapelava dall’espressione di Manili. Il suo sguardo spaziava nella sala, come davanti a una visione terribile e grandiosa, di crudele e incomparabile bellezza. D’un tratto spalancò gli occhi, protese il capo e prese a fissare i commensali a uno a uno:
«Le bombarde non avevano mai sparato così tanti colpi durante tutto l’assedio. Quella più grande, gigantesca, era stata spostata davanti alla porta di San Romano e da lì sparava non più di sette colpi al giorno, ma erano enormi e quando andavano a segno demolivano interi settori delle mura. Dall’accampamento del Turco, che era lontano diverse miglia, quel giorno veniva un suono incessante di tamburi, pifferi e grida acutissime».
Per dare consistenza alle immagini, l’uomo accompagnava il racconto con ampi gesti, mimando ora la dimensione della bocca del cannone, ora il fragore dei colpi contro le mura, ora il battito dei tamburi di guerra.
«Io partecipavo attivamente alla difesa, ero dislocato dalle parti del palazzo imperiale. Quando mi resi conto che i turchi stavano ammassando le scale ai piedi delle mura, capii che l’attacco era imminente e mandai un messo fidato ad avvisare mio padre di portare tutta la famiglia a palazzo, e seguire attentamente le mosse dei mercanti veneziani che erano radunati lì, a difesa del settore. Ero sicuro che sarebbero stati i primi a essere informati e a mettersi in salvo. Io li avrei raggiunti appena possibile, se possibile».
Demetrios fece cenno a un inserviente di ravvivare il fuoco. I bagliori rossastri proiettati sul viso di Manili sembravano preludere alla battaglia imminente.
«Quella notte nessuno riuscì a chiudere occhio, tanta era l’agitazione. Intorno alle ore tre del nuovo giorno, il ventinove, Maometto si mosse con il suo esercito immenso, suddiviso in tre schiere che si stendevano lungo le mura di terra fino a dove arrivava lo sguardo. La prima schiera si lanciò all’attacco. Si capiva che erano degli irregolari, forse cristiani anche loro, male organizzati e male armati. Erano stati mandati al macello col solo scopo di farci stancare e consumare le munizioni. Dall’alto, cercando di proteggerci da una pioggia di frecce, noi li tempestavamo di proiettili di ogni genere. Molti tra quei disperati, vedendo i loro compagni cadere in gran numero, tentavano di indietreggiare, ma trovavano alle loro spalle la polizia militare che li falciava senza pietà per impedir loro di fuggire. Fu una carneficina».
Più di uno degli astanti rabbrividì al pensiero di quei corpi ammassati e sanguinolenti. A nessuno venne in mente di gioire per la sorte di chi, a tutti gli effetti, era un nemico, ma a cui il senso di pietà riconosceva come unico attributo la condizione di vittima.
«Per non darci il tempo di riprendere fiato, il Turco lanciò subito la seconda ondata. Stavolta era l’esercito regolare a dare battaglia. Oltre che dalle divise, si vedeva dal vigore e dall’accanimento con cui tentavano di arrampicarsi sulle scale, che i nostri puntualmente riuscivano ad allontanare dalle mura facendo precipitare quanti vi si trovavano sopra. Dopo ore di combattimenti furibondi, la linea teneva, e Dio sa quanti compagni vidi cadere intorno a me. In quei momenti non avevo paura: non c’era tempo, tutta l’attenzione era concentrata sulle azioni immediate, sui movimenti, sul respiro. Pensavo solo a sopravvivere».
L’uomo era in piedi, con un braccio alzato, immaginandosi ancora sugli spalti con la spada in pugno, a menare fendenti. L’ombra tremolante proiettata sul muro alle spalle di Manili ne moltiplicava la figura ed evocava le schiere dei guerrieri nel pieno della mischia.
«All’alba i superstiti della seconda schiera si ritirarono. Fu allora che arrivarono i giannizzeri. Eravamo sfiniti: alla vista di quella moltitudine di soldati – la cui ferocia e abilità erano ben note – accompagnati da alte grida e dal suono assordante dei tamburi, in molti si misero a pregare ad alta voce. Le campane a martello delle chiese di tutta la città richiamavano alle mura chi poteva, e alla preghiera chi non poteva».
I due giovanetti, Jan e Theo, stavano vicini, rannicchiati sulle seggiole. Ogni tanto Theo lanciava un’occhiata verso Jan per tentare di scorgergli in viso qualche emozione. In fondo lui era lì, si chiedeva cosa ricordasse di quei momenti terribili. Jan invece teneva gli occhi inchiodati sul padre, per il quale nutriva un’ammirazione incondizionata.
«In seguito, non ho mai saputo cosa accadde veramente. Giungevano notizie che dalle parti di San Romano un ampio tratto delle mura era stato diroccato dalle bombarde e si era creato un varco nel quale i giannizzeri tentavano di infilarsi, ma le difese stavano reggendo e fino a quel momento erano riuscite a tener loro testa. Il fronte si spezzò all’improvviso come un ramo secco», disse, e accompagnò le ultime parole con il gesto di ruotare i pugni serrati. Ai presenti parve di sentirlo veramente, il rumore di quel ramo, mentre si rompeva.
«Ancora oggi non si sa da dove riuscirono a entrare, né se davvero fossero già entrati. Sta di fatto che questa fu la notizia che si sparse fulmineamente e determinò l’abbandono precipitoso delle difese. Tutti quelli che avevano combattuto eroicamente fino a poco prima – e io tra loro – pensarono che la Città delle Città era perduta e che bisognava correre a mettere in salvo sé stessi e le proprie famiglie».
Il volto di Manili era ormai ridotto a una maschera contorta, mentre rievocava i momenti della profanazione del Paradiso in Terra, e anche la figura parve rattrappirsi, richiudersi, come per celare la vergogna di essere stata anch’essa violata.
«Erano le prime ore del mattino quando la fiumana di soldataglia, esasperata per l’attesa e smaniosa di bottino, si riversò per le strade di Costantinopoli. E iniziò il saccheggio. Quello che vidi mentre correvo verso il porto, da allora lo rivedo ogni notte che ha fatto Iddio».
Mentre pronunciava quelle parole, a bassa voce, Manili volse lo sguardo a terra. Per quanto potesse essere stato marginale il suo ruolo in quella tragedia, per quanto la sua condotta fosse stata irreprensibile, ugualmente narrare quei fatti era come rivivere l’umiliazione del fallimento, come sentire ancora su di sé il peso di una sconfitta totale e inappellabile, come rinnovare la consapevolezza di aver perso tutto.
Dopo una breve pausa, il racconto riprese concitato:
«Mi ero tolto di dosso tutto ciò che poteva farmi identificare come un soldato e mi stavo dirigendo verso il quartiere veneziano costeggiando le mura dal lato del Corno d’Oro. Non avevo idea di dove si trovassero i miei familiari, speravo solo che avessero seguito le mie indicazioni. Incontrai tanta gente che correva in senso opposto al mio e capii dagli sguardi pieni di orrore che stavano fuggendo da un pericolo concreto. Feci appena in tempo a infilarmi in un vicolo quando una torma di turchi urlanti con le armi levate mi passò a fianco senza accorgersi di me. Dalla foggia degli abiti si vedeva che erano marinai, evidentemente scesi dalle navi per prendersi la loro parte di bottino».
Subito incrociò lo sguardo della moglie mentre diceva:
«Mi corse un brivido alla schiena pensando alla mia famiglia, temevo di averli mandati proprio tra le braccia del nemico».
La donna, seduta accanto a lui, gli prese la mano per rassicurarlo.
«Uscendo dal vicolo mi volsi a guardare la scia di morte e di devastazione che quella masnada aveva lasciato dietro di sé. Chi usciva di casa attirato dalle urla veniva abbattuto senza neanche rendersene conto. Le donne – serve e padrone, nobili e schiave – venivano tirate fuori dalle case, legate tra loro per il collo e trascinate via brutalmente. Fui costretto a fare un ampio giro verso l’interno per evitare le torme di turchi che seguitavano a salire dal porto. Le strade erano cosparse di cadaveri smembrati e sconciati dalle spade. Mentre correvo, più di una volta scivolai a terra per quanto sangue c’era sul selciato».
Una commozione intensa si era impadronita dei presenti: ciascuno pensava con sgomento a quanti di quei miseri corpi potessero appartenere a un congiunto, a un conoscente, e la tristezza per gli estranei diventava dolore per i propri cari e finiva nella disperazione per sé stessi, per la propria condizione, per un mondo che era loro e che non esisteva più. Alcuni cercavano di contenersi nonostante gli occhi lucidi tradissero l’emozione, altri singhiozzavano senza ritegno. Tomassa, la madre di Manili, pregava ad alta voce sgranando il rosario. Il racconto riprese:
«Quando riuscii finalmente ad affacciarmi sul Bosforo in prossimità della grande catena, mi resi conto che tutti gli equipaggi turchi erano scesi a terra, lasciando la flotta incustodita. Quindi anche le navi cristiane erano rimaste prive di sorveglianza, e gli sparuti equipaggi – ormai decimati – le stavano già armando per prendere il largo. Centinaia di persone si ammassavano sulla banchina, spingendosi disperatamente per salire sulle piccole imbarcazioni che facevano la spola con le galee alla fonda nella rada. Molti si tuffavano in mare tentando di raggiungere le navi a nuoto e per lo più andavano a fondo, gravati dai vestiti; altri annegarono cadendo dal molo per la ressa».
L’immagine dell’acqua dovette richiamare al narratore un senso di arsura, per cui si interruppe per bere del vino da una coppa.
«Mentre mi facevo largo tra la calca cominciai a chiamare il nome di mia moglie. Avevo poche speranze di far sentire la mia voce sopra a tutta quella confusione, ma la fortuna – o forse qualche Santo – mi venne in aiuto. Dopo aver urlato ancora una volta “Eufrosine, Eufrosine Tarcaniota!” sentii una mano posarsi sulla spalla. Mi voltai e riconobbi il giovane chierico che il giorno prima avevo mandato ad avvertire mio padre, il quale mi urlò:
“La tua famiglia è a bordo di una delle grosse di Alvise Diedo veneziano!”.
“Dio sia lodato! Dove sono dirette?” risposi.
“A Venezia!”.
“E tu?” gli chiesi. La risposta era nel suo sguardo rassegnato. Mentre si allontanava in direzione della Città gli gridai: “Il Signore ti accompagni!”».
Poi mise una mano sulla spalla della moglie, abbozzando un sorriso amaro e malinconico. Il contatto sembrò placare la sua foga:
«Col cuore più leggero mi adoperai per cercare un imbarco anche per me e riuscii a salire su una galea sottile diretta a Ragusa. Contavo sulla maggiore velocità di quel tipo di imbarcazioni per precedere le galee di Diedo e sperare che anche loro facessero scalo a Ragusa. Purtroppo, i ragusei dovettero fare uno scalo intermedio, per cui arrivammo a Ragusa con qualche giorno di ritardo. Fortunatamente trovammo le galee veneziane alla fonda davanti al porto. Non appena la nostra nave sfilò di fianco alle galee, mi precipitai sul castello di poppa e urlai con quanto fiato avevo in gola: ʽMaruli! Maruli!ʼ».
Pronunciò il suo nome con tono più acuto, portando la mano di fianco alla bocca per amplificare il suono.
«Ero veramente provato dal viaggio. Non avevo nulla con me e quel poco cibo che avevo ricevuto a bordo mi era stato dato unicamente perché ero tra i valorosi che avevano difeso la Città. Appena sbarcato, ricordo che cercai subito una fonte e mi rinfrescai come potevo. Poi mi sedetti nei paraggi con la schiena contro un muro e mi addormentai».
L’uomo, esausto, accompagnò le sue ultime parole lasciandosi cadere sullo schienale della seggiola e chinando il capo sul petto. Per tutto il tempo, Eufrosine aveva tenuto gli occhi sul viso del marito mimandone le espressioni, e muovendo le labbra come se fosse lei a suggerirgli le parole di quella storia, di cui peraltro sapeva tutto. Quando lo vide sopraffatto dall’emozione, gli venne in aiuto e proseguì il racconto:
«Fu così che lo trovammo, anche se stentavamo a riconoscerlo, per quanto era smagrito e sudicio. Suo padre gli si avvicinò, lo chiamò, lo scosse, mentre io guardavo con orrore la sua veste lorda di sangue: quando aprì gli occhi lo implorai di dirmi dove fosse ferito, e faticai a convincermi che era incolume. Poi scoppiò a piangere, apertamente, senza vergogna».
Manili guardava la moglie con una dolcezza inconsueta, traccia di quell’affetto che di tanto in tanto affiorava nel loro matrimonio burrascoso. Quando lei tacque, riprese la parola:
«Ci stabilimmo a Ragusa. Poche settimane dopo il nostro arrivo nacque Mikel. Iniziai a costruire relazioni con i notabili del posto e riuscii ad accreditarmi presso le autorità della Repubblica, le quali mi affidarono incarichi in alcune missioni diplomatiche. Tra queste, presi parte alle trattative per il rinnovo dei trattati commerciali con la Repubblica di Ancona. Ricorderete, kyr Demetrios, che feci la vostra conoscenza in quella circostanza».
Demetrios confermò con un cenno del capo.
«L’attività di tessere relazioni comportava la partecipazione a eventi importanti per la comunità. Ora, accadde che, durante un ricevimento, un notabile eccessivamente galante apostrofasse Eufrosine con apprezzamenti pesanti, e lei reagì come ci si aspetta da una nobildonna di stirpe reale, assestando due sonori ceffoni al raguseo intraprendente. Lo scandalo che ne seguì determinò il nostro progressivo isolamento, al punto che decidemmo che era il caso di lasciare Ragusa e tentare altrove, nuovamente esuli. E ora siamo qui».
Dopo che Manili ebbe terminato il suo lungo racconto, per un tempo indefinito il crepitio del fuoco nell’ampio camino fu l’unico suono che si udì nella sala. Quando Demetrios iniziò a parlare, il tono sommesso della voce tradiva il suo turbamento.
«Erano i primi giorni di febbraio. Avevo sentito dire da alcuni mercanti veneziani di Trebisonda che il giovane padishah era un autentico invasato e aveva giurato che non avrebbe avuto pace fino a quando la Città delle Città non fosse stata sua, a costo di ridurre il suo impero sul lastrico. Mi resi conto che stavolta non avevamo molte possibilità di respingere i turchi con le nostre misere forze, né potevamo aspettarci che le potenze dell’Occidente accorressero in nostro aiuto. I veneziani e i genovesi confidavano di poter continuare indisturbati i loro traffici anche se Costantinopoli fosse caduta, per cui non avevano interesse a entrare in contrasto aperto con i turchi. Dal canto suo il Papa, nonostante fosse riuscito a piegare il basileus al ricatto della riunificazione delle Chiese, non era però in grado di mobilitare forze sufficienti».
Il suo racconto non aveva la drammaticità e la forza di quello di Manili. Dalle parole e dall’espressione di Demetrios filtrava un dolore composto, misurato, misto a una sorta di pudore per essersi sottratto al dovere di contribuire alla difesa della Città.
«Decisi allora che era tempo di lasciare tutto e portare in salvo il bambino e Theodora, che avrebbe partorito di lì a poco. In pochi giorni facemmo i preparativi per la partenza. Sistemai i conti, feci predisporre delle lettere di cambio con alcuni notai di Pera e riuscii a trovare un passaggio, sborsando una cifra esorbitante, sulla galea di Piero Davanzo veneziano. Ci imbarcammo la sera del ventisei. Sfruttando i venti favorevoli, la nave riuscì a forzare il blocco insieme ad altre sei, che si sparpagliarono per l’Egeo una volta raggiunto il mare aperto. La nostra nave fece vela per Venezia. Quel bastardo di un veneziano l’aveva riempita all’inverosimile. Il viaggio fu orribile, tra il freddo, la puzza, i lamenti e il mare grosso. Erano con noi Eirene, la nutrice di Theo, ed Ermete, il garzone che avete conosciuto. Riuscimmo a imbarcare anche un unico baule, ed Ermete ci rimase sopra come uno stilita per tutto il viaggio, con il coltello alla cintola bene in vista ad ammonire i malintenzionati».
Mentre li nominava, guardava a uno a uno i suoi compagni di viaggio, tutti presenti nella sala, rivolgendo a ciascuno un sorriso benevolo, appena accennato.
«Quando la nave fece scalo a Ragusa scendemmo a terra per poi ripartire qualche giorno dopo alla volta di Ancona. Kyriakos nacque una settimana dopo il nostro arrivo. Un po’ alla volta, con l’aiuto di Nostro Signore – che ha voluto benedirci facendo prosperare le nostre attività – e di alcuni amici, siamo riusciti a rimetterci in sesto. E ora siamo qui».
Dopo che ebbe finito di parlare, Demetrios, rimase con gli occhi fissi sulla coppa che aveva di fronte, al punto che Theodora gli poggiò una mano sul braccio e inclinò impercettibilmente la testa di lato, come per invitarlo a condividere i suoi pensieri.
«Non è niente, sono solo stanco» mormorò l’uomo, coprendo con la sua mano quella della moglie per rassicurarla.
Stava mentendo. A malapena il suo sbrigativo resoconto notarile era servito a dissimulare il suo vero stato d’animo, ma il racconto di Manili aveva ravvivato in lui le scintille mai spente che covavano sotto cumuli di cenere e di macerie, e ora un incendio potente divampava incontrollato. Era un mercante, il cinismo era parte delle dotazioni di chi per mestiere rischiava i suoi averi e a volte anche la vita. Nonostante ciò, si era sempre sforzato di vivere rettamente, per pietà degli uomini più che per il timor di Dio. Fin da bambino gli era stato insegnato a perseguire la felicità terrena, per sé e per gli altri, con le opere e l’ingegno, e che spettava all’uomo, e non a Dio, il posto al centro dell’universo. Quel Dio che tutto vede e perdona, ma mai del tutto, aveva fatto del Turco lo strumento inconsapevole della sua punizione. Lo stesso Dio prepotente e rancoroso che avrebbe distolto lo sguardo mentre gli infedeli profanavano le chiese, le donne, la vita stessa, gli aveva mostrato quella notte quanto effimere e fragili fossero alla fine le sue convinzioni.
Quella notte era scappato.
Nostra signora la Paura aveva trionfato sulle virtù civili, sulla felicità comune, sui sani princìpi e sui buoni propositi. Alla prova dei fatti l’istinto di conservazione aveva prevalso, le pulsioni primordiali dell’animale braccato avevano preso il sopravvento. Il vago senso di inquietudine di quei giorni, mentre l’immenso esercito del Turco serrava il cappio inesorabile attorno alla Città, si era all’improvviso tramutato in panico. Non ci fu alcuna parvenza di nobiltà d’animo né di altruismo nella sua decisione – non il parto imminente della sua giovane moglie, né la vita di suo figlio – ma unicamente la cieca e squallida volontà di salvare sé stesso. Dolorosamente ricordava di aver perfino indotto suo padre ad assolverlo da quel supremo atto di vigliaccheria, voleva sentirsi dire che era la cosa giusta da fare. Suo padre lo aveva rassicurato e allo stesso tempo gli aveva impartito l’ultima dura lezione, scegliendo invece di restare.
Il ricordo del commiato sul molo gli serrava la gola come allora. Theòdoulos aveva preso in braccio il nipote e gli aveva detto:
«C’è qualcosa che il piccolo Theo vuol dire al vecchio Theo?».
«Nonno!» aveva esclamato il bambino mentre lo fissava con gli occhi grandi di sua madre.
Lo aveva baciato sulla fronte e gli aveva passato attorno alla testa una stringa di cuoio sottile da cui pendeva un anellino.
«Era di tua nonna. Ti avrebbe adorato. Conservalo, ti porterà fortuna».
Poi, dopo aver consegnato il bambino alla balia, aveva preso le mani di Theodora tra le sue, dicendole:
«Figlia mia, non ti ho mai detto quanto ti sono grato per aver onorato la nostra casa con la tua presenza. Abbi cura di te, e di loro, e del bambino che porti in grembo».
Lei era rimasta in silenzio, con le lacrime che le rigavano il bel viso triste.
Alla fine, suo padre gli aveva poggiato le mani sulle spalle, dicendo:
«Demetrios, figlio mio, non rattristarti per me. Sono vecchio, qualsiasi cosa accada, ho vissuto abbastanza e non ho rimpianti. Ti ricordi quante volte abbiamo parlato delle virtù degli antichi, e di come sarebbe stato migliore e più giusto un mondo regolato da quelle leggi? Ecco, abbiamo l’occasione di dare sostanza ai loro insegnamenti: io restando qui, nella terra dei padri, ad affrontare la morte forse solo con un minimo di anticipo, e tu ad affrontare un viaggio pericoloso, per piantare il seme in un’altra terra, dove poter rinascere».
Ricordava bene l’espressione serena di suo padre, mentre pronunciava le sue ultime parole:
«Andate, ora. Che gli dèi vi proteggano».
Nei sei anni trascorsi da quando si erano stabiliti in Ancona, aveva intrapreso un suo personale cammino di espiazione, nel tentativo di sgravarsi dal macigno che lo opprimeva e in omaggio a chi aveva scelto di restare, giocandosi tutto e tutto perdendo. Le cospicue ricchezze accumulate – frutto dell’esercizio abile e avveduto della mercatura attraverso una rete commerciale solida e ben sviluppata – gli avevano guadagnato entrature importanti presso le autorità di molti degli stati che si affacciavano sull’una e sull’altra sponda dell’Adriatico, e usava la sua influenza e le sue risorse per aiutare il maggior numero possibile di coloro che dividevano con lui la sorte irrimediabile di esule in perpetuo, che mai potrà tornare in patria perché la patria non esiste più.
Lunghi minuti seguirono nel silenzio gelido e denso della sala.
«Torneremo?» chiese Jan al padre, al cui fianco era rimasto in piedi per tutto il tempo.
«Torneremo, certo!» gli rispose Manili, mentre lo circondava con il braccio.
«Torneremo» ripeté guardandolo con gli occhi velati, che gravavano di malinconia un sorriso appena accennato.
Fu allora che Demetrios, di ritorno dai suoi pensieri, si rivolse a Manili:
«Le vostre sofferenze sono le mie sofferenze, la mia famiglia sarà la vostra famiglia. Alloggerete qui per tutto il tempo che vorrete e non ci sarà più nulla da temere».
Poi si alzò, lasciando intendere che era ora di ritirarsi.
Nell’atto di congedarsi, mentre accennava un inchino, Manili chiuse gli occhi sospirando e quando li riaprì mandò all’indirizzo del suo ospite uno sguardo carico di gratitudine.
Quella notte, con Theodora rannicchiata a fianco che mai fino ad allora aveva sentito più vicina, Demetrios fissava insonne il soffitto del baldacchino che sovrastava il letto e si lasciava attraversare dai pensieri senza opporre resistenza. S’immaginava che fosse solo il suo cuore pesante d’affanno a tenerlo schiacciato a terra e a impedirgli di volare via, risucchiato da un turbine di suoni, di grida, di immagini, e tra le immagini balenava il volto sorridente di Ciriaco.
CAPITOLO SECONDO
Chio, 21 agosto 1412
Sul molo un uomo, voltato di spalle, stava ripiegando una rete con gesti rapidi e precisi.
Quando gli fu vicino, Theodoulos Zenobios assestò ridendo una poderosa manata tra le scapole di una schiena scheletrica, le ossa ricopiate da una pelle concia come il cuoio. L’uomo si scosse spostando d’istinto il peso del corpo macilento sul piede in avanti per non cadere. Ritorse la testa di lato, mostrando una fila di denti marci adombrata da un naso adunco e sottile, che divideva a stento le orbite infossate in cui guizzavano due pupille di un azzurro purissimo.
«Vecchio, ogni anno ti trovo più gobbo!» strillò Zenobios sguaiatamente.
«E voi non perdete mai le buone maniere, padrone…» biascicò l’altro, raddrizzandosi per quanto poteva.
Il viso rugoso e affilato, cotto dai riflessi del sole di tanti mari in cui si era perso e arso dalla salsedine e dalla fatica, serbava i tratti di un’antica fierezza. Le guance scavate erano cosparse di una lanugine bianca, troppo rada per potersi chiamare barba, che correva ai lati del viso verso la sommità del capo fino a nascondersi sotto un cencio troppo lurido e malconcio per potersi chiamare berretto.
«Yorgos, amico mio! Come te la passi?» domandò Theodoulos, mentre scuoteva vigorosamente la mano che l’uomo gli aveva teso incautamente e che era letteralmente sparita nella sua.
«Ancora reggo, con l’aiuto di Dio» rispose.
Quando non era imbarcato sulle navi di Theodoulos Zenobios, Yorgos faceva il pescatore e di tanto in tanto prestava sé stesso e la sua barca a traffici non propriamente leciti. Nonostante ciò, si reputava pur sempre un uomo pio, a suo modo, convinto com’era che tutti i patimenti sofferti fino ad allora gli avevano già acquistato meriti presso Dio bastanti a garantirgli ugualmente la salvazione dell’anima. La sua vita era disseminata di disgrazie: la famiglia sterminata dalla peste, che ogni dieci o vent’anni batteva il Mediterraneo per portarsi via chi era scampato la volta prima; il tracollo della sua un tempo florida attività commerciale; una strana malattia delle ossa che ne aveva frustrato la vigoria fisica; tutte queste cose insieme l’avevano sprofondato in un abisso freddo e buio. Quando, esausto e annichilito dalle prove che il destino gli aveva imposto, la fede non bastava più e si era ridotto a domandarsi se davvero fosse così abominevole per un fervente cristiano il pensiero di rinunciare al dono più grande che Dio gli aveva concesso, fu allora che una mano tesa, la stessa mano enorme che ora stava stritolando la sua, gli era venuta in soccorso. Theodoulos lo aveva ripescato e issato a bordo, gli aveva ridato un lavoro, una casa e, ciò che più importava, la dignità. Non la fede, o almeno non la fede in Dio, che ne era uscita irrimediabilmente incrinata: la luce abbagliante di un tempo si era affievolita in un pallido riflesso opaco. La fede negli uomini, quella sì: l’esempio di Theodoulos lo aveva cambiato profondamente. Le preghiere estenuanti, le liturgie statiche e vuote, fumigate d’incenso e tronfie di ori, avevano ceduto spazio a una forma essenziale di religiosità, fatta di compassione per il prossimo, di gesti concreti, in cui Dio restava una vaga presenza sul fondale di una sacra rappresentazione della vita, sacra al di là di Dio, nonostante Dio.
Theodoulos era un uomo imponente. Il sole del pomeriggio proiettava la sua ombra sulle tavole del molo e Yorgos ci entrava dentro come in una custodia. La geografia del suo volto era fatta di tratti grossolani, se presi a uno a uno, ma il paesaggio d’insieme dava un’idea di grande armonia. Un naso gibboso campeggiava in mezzo a una faccia tondeggiante, sormontata da una fronte ampia e solcata da rughe profonde, che era racchiusa a mezzogiorno tra due sopracciglia scure e a settentrione da una folta chioma, incanutita precocemente, di capelli mossi e ravviati all’indietro. Gli occhi, nerissimi e vivaci, segnati dalle occhiaie di una vita intensa, e le labbra sottili – tra cui si scopriva una fila di denti bianchissimi in risalto sulla pelle abbronzata – concordavano in un’espressione naturalmente incline al sorriso.
«Quando ti deciderai a liberarti di questa botte sfondata che tu chiami barca?» ridacchiò Theodoulos. Poi, assumendo un’espressione seria, aggiunse:
«Ho bisogno del tuo aiuto».
«Comandate, padrone».
«Ho fatto scalo a Chio perché ho ancora posto nella stiva e avevo promesso un carico di mastice ad alcuni miei clienti in Città. Sai che qui sono in affari con la maona dei genovesi, anche se pare che si diano il cambio a crearmi sempre una quantità di grattacapi. Conosci la pece che fanno qui, sulle montagne dell’interno, dalle parti di Anavatos: manda un odore che dà alla testa! Per poterla stivare avevo chiesto di metterla al chiuso nei barili o nelle casse, altrimenti l’equipaggio si lamenta che non riesce a respirare, e invece me l’hanno fatta trovare dentro ai sacchi, avvolta negli stracci».
Un ghigno comparve all’angolo della bocca sdentata di Yorgos, mentre continuava ad armeggiare con le reti.
«Quando ho fatto notare che non erano quelli gli accordi, mi hanno risposto che per averla nei barili avrei dovuto pagare una differenza. In principio ho risposto che non era un problema, poi mi è venuto lo scrupolo di chiedere di quanto sarebbe stata questa differenza: alla fine costava più l’imballo della pece! È più forte di loro, questi genovesi ce l’hanno per vizio di prenderti per il collo, quelli di Pera fanno lo stesso! Intendiamoci, non che i veneziani siano da meno, ma se non altro hanno il garbo di avvisarti prima!».
Mentre Theodoulos proseguiva con la sua intemerata sull’etica del commercio e sulle differenze tra la statura morale dei greci e dei latini, Yorgos, che pareva aver ascoltato distrattamente senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro, lo interruppe dicendo:
«Ci penso io».
Zenobios lo fissò.
«Ci penso io,» ripeté Yorgos «troverò io i barili».
«Vedi, non è una questione di denaro, è il fatto di dover cedere a un ricatto che mi fa infuriare. Non voglio dargliela vinta, cascasse il mondo!»
Si fermò un istante, poi proseguì con tono più pacato:
«Bravo, Yorgos, amico mio. Ti conosco da tanto tempo eppure ogni volta mi stupisco per la tua sagacia».
«Anch’io vi conosco da tanto tempo, padrone», replicò il marinaio, guardandolo con un sorriso appena abbozzato.
«So già dove trovare i barili. Conosco un artigiano che fabbrica delle botticelle per l’aceto, dovrebbero essere adatte. Ma è a Emporios, quasi sulla punta meridionale dell’isola, ve le porterò con questa botte sfondata che io chiamo barca».
«Senza i barili non posso partire e non ho altro da fare, tanto vale che venga con te. Se ti arrischi a sfidare la sorte su questa zattera, io non sarò da meno» scherzò Theodoulos mentre saltava a bordo.
Il vento rinforzava. Mentre stavano terminando di assicurare alla barca con una fune le quattro botticelle appena acquistate, Yorgos annusava l’aria preoccupato. La tempesta si stava avvicinando da mezzogiorno, non sarebbero riusciti a tornare al porto in tempo, pensava.
«È un azzardo prendere il mare adesso, padrone».
«Animo! Non avrai paura di quattro gocce d’acqua, spero! Che razza di marinaio sei? Tra non molto farà buio, non vorrai che rimaniamo inchiodati fino a domani in un posto come questo!» gli urlò Theodoulos per coprire il rumore del vento.
Non immaginava che Yorgos non aveva paura per sé. Era morto talmente tante volte che una in più o in meno non avrebbe fatto differenza. I temporali estivi da quelle parti, improvvisi e violentissimi, portavano distruzione e sofferenza per mare e per terra e in qualche modo sentiva su di sé il peso di quei patimenti. E soprattutto temeva per Theodoulos, che – per vie tortuose e sconosciute dello spirito – considerava la sua unica famiglia.
Non appena uscirono dalla rada, le prime gocce di pioggia iniziarono a cadere, mentre il mare agitato si impadroniva della barca.
Uno scoglio, illuminato dal sole basso a ponente, si stagliava contro il cielo nero a qualche miglio di distanza a mezzogiorno. Poco più in là, si intravedeva la sagoma di una grossa nave da carico altalenare fra le onde altissime. Uno dei due alberi si era spezzato a metà e il troncone divelto, trattenuto dal sartiame, era rimasto sospeso a mezz’aria sopra il ponte di poppa. Sull’altro albero, ancora in piedi, sventolavano i brandelli della vela squarciata. Da come girava su sé stessa, si capiva che la nave non governava più. La risultante delle sue traiettorie quasi casuali correva lungo una linea che terminava inesorabilmente contro le rocce dell’isolotto.
«Guardate laggiù!» urlò Yorgos, che era balzato in piedi indicando la nave col braccio teso.
«Disgraziati, devono avere il timone spezzato!».
Si voltò un istante a scrutare il viso del compagno, poi tirò a sé la barra e invertì la rotta.
«Yorgos, per l’amor di Dio, dove stai andando? Ci ammazzeremo!» strillò Theodoulos.
«In mare il fratello aiuta il fratello. Chi può saperlo meglio di te!» replicò seccamente l’uomo.
Theodoulos rimase interdetto. Per la prima volta da quando si conoscevano, Yorgos gli aveva dato del tu. E capì. Non era un momento qualsiasi, era la resa dei conti. Le distanze erano annullate, le differenze appiattite: ciò che restava era l’essenza dell’uomo e l’eterno confronto con la natura e con sé stessi che affratella la gente di mare. Era il momento in cui o ci si salvava tutti o non si salvava nessuno. Era il momento di mostrare di che materia siamo fatti e di capire che siamo fatti della stessa materia. Provò vergogna per aver pensato di poter sfuggire a quel momento. Senza parlare si spostò sul banco e sistemò un remo nello scalmo, mentre Yorgos stava ammainando la vela, ormai inservibile, prima che il vento la strappasse via. Presero a remare verso lo scoglio, voltandosi ogni tanto per controllare la direzione. Il mare grosso sollevava la barca e molti dei colpi andavano a vuoto. In mezzo all’oscurità e sotto la pioggia battente, Yorgos sorprese sé stesso a pregare.
Erano ormai a meno di un miglio quando il fracasso dello schianto sovrastò il fragore sordo del mare. Si voltarono di scatto per guardare le onde accanirsi sul relitto, e risucchiare i rottami dagli scogli per poi tornare a sbatterli sulle rocce appuntite. E non era solo legno quello che affiorava tra la schiuma: tra le pietre, a un paio di braccia sopra la linea del mare si scorgeva un corpo, proiettato sulla parete dalla violenza delle onde. Un altro galleggiava a faccia in giù poco lontano. Tutto intorno migliaia di frammenti, grandi e piccoli, si spandevano danzando sul filo dell’acqua. Tra quella cupa desolazione, a non più di cento braccia di distanza spiccava uno straccio rosso, adagiato sul bordo di quello che sembrava il coperchio di una botte. Yorgos notò immediatamente che il pezzo di legno non galleggiava in piano, ma era inclinato, come se fosse sbilanciato da un peso. Comprese immediatamente che lo straccio era una persona e urlò: «Là!».
I due ripresero a remare furiosamente e in poco tempo riuscirono a portare la barca a poche braccia di distanza, proprio mentre lo straccio aveva preso a scivolare lentamente in acqua. Senza neanche riflettere, Yorgos si tuffò con agilità insospettata e in poche bracciate raggiunse il punto in cui lo straccio si era appena inabissato. Anche lui sparì sotto la superficie. Theodoulos seguiva la scena con apprensione dal bordo della barca, cercando di tenerla accostata il più possibile. Poco dopo vide riemergere il viso di Yorgos con a fianco quello paonazzo di un giovane apparentemente privo di sensi. Vedeva la bocca di Yorgos muoversi ma non riusciva a sentire nulla per il rumore. Pensò allora di lanciargli una cima, ma l’unica che vedeva a portata di mano era quella che teneva ferme le botticelle. Sciolse rapidamente i nodi, formò una specie di cappio e lo lanciò verso Yorgos, che si stava tenendo a galla come meglio poteva. Non appena fu sicuro che Yorgos aveva imbragato il ragazzo in qualche modo, si mise a tirare per issarlo a bordo. Mentre era intento ad adagiarlo sul fondo della barca, all’improvviso una raffica di vento più forte fece volare fuori bordo una delle botticelle. L’urlo disperato di Theodoulos accompagnò l’impatto contro il cranio di Yorgos. Fece appena in tempo a cogliere sul volto dell’amico gli occhi rovesciati all’indietro e la bocca spalancata in un’espressione di stupore. Si lanciò in acqua in modo scomposto, ma l’uomo era già sprofondato. Si immerse una prima volta e riemerse dopo un tempo interminabile, gridando il nome dell’amico. Si immerse una seconda volta e poi una terza, e ogni volta per un periodo sempre più breve, ansimando sempre più affannosamente. Riprese fiato, si immerse ancora. Quando tornò in superficie, si rese conto che ormai Yorgos era perduto. Abbandonò la testa all’indietro, mentre la pioggia gli lavava via le lacrime dal viso. Rimase per un po’ in quella posizione con gli occhi chiusi. Poi gli tornò in mente il ragazzo. Doveva prendersi cura di lui. Una vita per un’altra vita, altrimenti sarebbe stato tutto inutile. Si aggrappò al bordo della barca, cercando le forze per issarsi sulle braccia. Poi, facendo leva sui gomiti, scalciò con una gamba fino a portarla oltre la murata e ruotando il busto verso l’interno si lasciò cadere sul fondo, naufrago di fianco a un altro naufrago.
Rimase disteso fino a quando non cominciò ad avvertire il morso del freddo. Intanto aveva smesso di piovere e il mare si era calmato. La tempesta si era dileguata con la stessa rapidità con cui era comparsa, lasciandosi alle spalle un senso di irreparabile sciagura. Intirizzito, ancora fradicio d’acqua, Theodoulos si mise a sedere e si accorse che la barca si era allontanata di molto dallo scoglio e stava facendo buio. Sciolse la vela e prese posto a poppa, di fianco alla barra del timone. Gettò uno sguardo sul passeggero e constatò che era sicuramente vivo, dato che nel frattempo si era rannicchiato su sé stesso e ora sembrava dormire profondamente. Non distingueva il colore del viso, ma indovinò nella penombra che, da paonazzo che era, fosse tornato alla normalità.
La barca veleggiava verso settentrione su un mare ormai tranquillo. La linea di costa si distingueva a fatica per il buio. Theodoulos pensava che l’immagine di Yorgos, con quell’espressione soddisfatta mentre lo osservava dall’acqua tirare a bordo il ragazzo, lo avrebbe accompagnato a lungo, forse per sempre. Paradossalmente in quella situazione, era lo sguardo di un uomo sereno. Aveva forse trovato la pace giusto un attimo prima di morire.
Perso tra mille pensieri e rimorsi, non si era accorto che nel frattempo il passeggero si era messo a sedere sul fondo della barca e lo fissava. Pensò che non doveva avere più di una ventina d’anni. Si osservarono a lungo, poi gli domandò:
«Come ti chiami, ragazzo?».
L’altro lo guardava imbarazzato.
«Di’, hai perso la lingua nel naufragio?».
Si chiese perché lo stesse offendendo. Non era lui che aveva scelto di finire contro gli scogli, e nemmeno aveva lanciato lui la botticella in testa a Yorgos.
Il giovane allargò le braccia in segno di impotenza.
«Ah, sei straniero! Sei un latino? Nomen?».
L’altro si illuminò.
«Ciriaco!» disse, portandosi al petto la mano aperta. Rimase un attimo a pensare, poi tentò di nuovo: «Kyriakos!».
Poi rivolse il braccio verso di lui.
«Come mi chiamo io?».
A Theodoulos venne in mente che il significato del suo nome era ‘schiavo di Dio’. Un servo gli aveva appena mostrato come si può essere liberi, anche di morire, che è il destino dell’uomo quello di essere libero. Pensò che mai più sarebbe stato schiavo, né di Dio né di altri.
«Theo, chiamami Theo».
«Theo» replicò Ciriaco.
«Grazie… Theo» aggiunse, con un’espressione di gratitudine sincera.
Theo teneva fra le mani il berretto di Yorgos. Senza un motivo, lo mostrò all’altro:
«Yorgos… frater… meus…».
«Frater» ripeté il giovane, poggiandogli commosso una mano sulla sua.
Piansero, che ognuno aveva i suoi morti da piangere.
Era ormai notte fonda quando entrarono in rada. La barca pescava così poco che riuscì a superare, sfiorandola appena, la pesante catena semisommersa che veniva tirata di notte per bloccare l’accesso al porto. I due avevano ancora addosso i panni fradici d’acqua, e il freddo del meltemi li tormentava da ore. Non appena furono a terra, Theo si piegò su sé stesso, come per un pugno alla bocca dello stomaco. Quando si raddrizzò, guardò Ciriaco e lo invitò con un gesto a seguirlo.
«Vieni con me» gli disse, mentre l’altro teneva tremante le braccia raccolte sul petto.
Seguendo il profilo del molo, reso visibile dal chiaro di luna, raggiunsero la sagoma scura di una grossa nave attraccata poco più avanti.
«Kyr Theodoulos!» si udì chiamare dal ponte e Theo riconobbe la voce del sovracomito. Dopo qualche attimo di trambusto a bordo, la passarella toccò il molo con un tonfo a pochi passi dai due.
Mentre saliva, Theo si voltò verso Ciriaco e si accorse che esitava. Comprese il suo disagio: in effetti, l’ultima volta che era salito su una nave, ne era disceso in malo modo. Allungò allora un braccio e gli offrì la mano, che l’altro afferrò, rinfrancato. Theo si ricordò improvvisamente che aveva fatto lo stesso gesto con Yorgos tempo addietro.
Il sovracomito si fece loro incontro tenendo le braccia spalancate:
«Kyr Theodoulos, state bene? Che sollievo vedervi! Eravamo preoccupati, non sapevamo più cosa pensare!».
Theo non era in vena di cerimonie e replicò seccamente:
«Sto bene, grazie. Questo è il mio amico Kyriakos. Trovateci dei panni asciutti e qualcosa da mangiare».
Il sovracomito indietreggiò con un inchino e prese a dare disposizioni agli inservienti.
Dopo la cena, il sonno li colse in maniera così fulminea da non dar loro neanche il tempo di sistemarsi per la notte.
L’indomani Theo, in piedi sul ponte di poppa, si scaldava al primo sole del mattino. Il sogno, o l’immagine, o il fantasma di Yorgos lo aveva tormentato per tutta la notte. Lo supplicava con le mani protese, come se tentasse di comunicargli qualcosa, suscitandogli una pena infinita. Theo si era svegliato con un senso di angoscia nel cuore, e con il pensiero che forse Yorgos, alla maniera degli antichi, reclamasse una degna sepoltura per poter entrare nell’Ade. Forse la sua ombra lo invocava a liberarlo dal luogo in cui era rimasta intrappolata.
D’improvviso rientrò in cabina, prese con sé la sua bisaccia, un otre d’acqua e scosse per un braccio Ciriaco, che stava ancora dormendo.
«Vieni con me, dobbiamo fare una cosa».
I due si incamminarono fuori dal centro abitato, lungo la piana che si estende all’interno dell’isola verso mezzogiorno. Il sole implacabile di agosto li obbligava a fermarsi spesso per dissetarsi o riparare all’ombra di un albero. Dopo un paio d’ore piegarono verso la costa e il sentiero iniziò a salire tra le sterpaglie e la vegetazione sempre più scarsa. L’unico sollievo veniva dal levarsi di una brezza leggera, che spirava costante fischiando dal mare. Dopo un’altra ora buona di cammino, la strada andava spianando e annunciava la sommità del monte. Lo spettacolo del mare si spalancava sotto i loro occhi. In lontananza, oltre l’estrema punta meridionale dell’isola, si scorgeva lo scoglio maledetto del naufragio. Theo si avvicinò al ciglio del dirupo che piombava nel mare sottostante. Stette un po’ a guardare l’orizzonte, poi prese a recitare con voce potente:
Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον, ὃς μάλα πολλὰ
πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσε·
πολλῶν δ’ ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω,
πολλὰ δ’ ὅ γ’ ἐν πόντῳ πάθεν ἄλγεα ὃν κατὰ θυμόν,
ἀρνύμενος ἥν τε ψυχὴν καὶ νόστον ἑταίρων.
Quando alla fine tacque, chinò il capo e rimase in raccoglimento per qualche minuto. Poi aprì la sacca che portava con sé ed estrasse il berretto di Yorgos. Mentre lo lanciava verso il mare, Ciriaco lo udì mormorare:
«Vecchio, hai dimenticato questo…».
I due rimasero l’uno di fianco all’altro a guardare l’orizzonte.
«Ora sediamoci» disse Theo.
Mentre era ancora in piedi e si stava sfilando la tracolla della bisaccia, il ragazzo lo precedette e si mise a sedere prima di lui.
Theo si voltò di scatto e inchiodò Ciriaco con uno sguardo torvo, che si mutò presto in un’espressione beffarda, carica di disprezzo:
«Dovevo immaginarlo, cosa vuoi aspettarti da un latino…».
«Non è come credi» rispose Ciriaco in un greco perfetto.
Theo scoppiò, rosso in volto per la rabbia:
«E com’è, allora? Che ne sai tu di come o cosa credo io? Il mio amico è morto per salvarti la vita, non certo per lasciare che ti prendessi gioco di me! Dovevamo lasciarti affogare insieme agli altri!».
Ciriaco attese che l’altro si calmasse e tentò di spiegarsi:
«Theo, rifletti: come facevo a sapere che non fossi un pirata, che non mi avessi tirato a bordo per vendermi come schiavo, o per chiedere un riscatto o Dio sa per quale altro proposito? Che vantaggio potevo avere a far finta di non capire, se non quello di conoscere le tue intenzioni, sperando che me le svelassi tu?».
Theo dovette ammettere che in effetti non aveva tutti i torti. In quell’istante non poté fare a meno di pensare a Ulisse, che aveva detto a Polifemo di chiamarsi ‘Nessuno’, e fu preso da un vago senso di ammirazione per l’ingegno del ragazzo.
Ciriaco proseguì:
«L’ho fatto solo per paura, non intendevo offenderti».
«Magari non ti chiami neanche Ciriaco…» rispose Theo, ormai senza convinzione.
«Mi chiamo Ciriaco Pizzecolli, vengo da Ancona. Ero imbarcato come scrivano sulla nave di mio zio, stavamo tornando da Alessandria quando siamo incappati nella tempesta. La mia è una famiglia di mercanti, ho ventun anni e non mi ricordo il giorno in cui iniziai ad avere a che fare col mare e coi commerci. Quel poco di greco che so l’ho imparato per strada, al porto, sentendo i miei parenti trattare i loro affari, o dai marinai delle navi alla fonda».
Man mano che il giovane parlava, l’espressione rabbiosa di Theo si mutava in curiosità.
«Mio padre morì che avevo sei anni. La mia famiglia cadde in disgrazia e mia madre si spezzò la schiena per sfamare noi figli. Ho ricevuto quel tanto di istruzione che serviva ad andar per mare, e a far di conto per vendere e comprare. Panni, frutta, carta, granaglie, pellame, spezie, qualsiasi cosa avesse un valore per qualcuno, per me ne aveva sempre un po’ di più. Col tempo ho acquisito una certa abilità e oggi sono in molti ad affidarmi i propri affari».
Dunque, è un mercante anche lui, pensò Theo, sorpreso da ciò che andava scoprendo, ma mi riesce difficile credergli, per quanto è giovane: alla sua età i giovani hanno i sogni in testa, non i conti!
Come intercettando i suoi pensieri, il ragazzo seguitò:
«La mercatura è per il decoro della mia famiglia e della mia città, ma non è quello che voglio fare veramente. Ho accettato qualsiasi lavoro pur di poter viaggiare, cogliendo ogni occasione possibile per vedere posti nuovi, per incontrare genti diverse. Io sono ignorante, Theo, e non so neanche la differenza tra il desiderio di conoscere e la semplice curiosità. Non ho letto molti libri, ma ce n’è uno che mi è particolarmente caro: un lungo poema, composto da Dante, un fiorentino, più di cent’anni fa. In un punto parla di Ulisse, che andava per mare esortando i suoi compagni a cercare la conoscenza: ecco, Theo, io sento dentro lo stesso desiderio, io voglio essere come Ulisse».
Si fermò a guardare la faccia pensosa dell’altro, poi aggiunse:
«Perdonami, ti sto annoiando con i miei vaneggiamenti».
In realtà Theo era turbato. In quel ragazzo c’era qualcosa che lo inquietava. Si interrogava su chi fosse veramente. Troppe coincidenze: lo straccio rosso, l’unico superstite, il sorriso di Yorgos, lo stratagemma, e adesso Ulisse… Coincidenze o presagi? Chi si nascondeva dietro a quello sguardo intelligente? Era forse un messaggero, che veniva ad annunciargli il ritorno degli antichi dei? Oppure era un dio egli stesso? Hermes in persona, ad esempio…
Esteriormente, Theo era sempre stato quello che si dice un buon cristiano; professava la fede e non mancava di osservare i precetti e i riti della Chiesa greca, per abitudine se non per convenienza. In cuor suo però si era convinto che fosse stata proprio la religione cristiana a minare le fondamenta dell’Impero, talmente proiettato verso una visione ascetica e spirituale del mondo, da trascurare la dimensione terrena e lasciarla, imbelle, in mano alla volontà e all’intraprendenza degli occidentali e dei turchi. Non era così al tempo in cui guerrieri forti e risoluti solcavano il mare color del vino con navi veloci, sotto l’occhio vigile di dèi sempre pronti a interferire nelle faccende umane.
Quando riemerse dai suoi pensieri, estrasse dalla bisaccia un pezzo di formaggio, ne tagliò una grossa fetta e la allungò al compagno, dicendogli:
«Tieni, mangia».
Fece lo stesso con una pagnotta di pane.
Al termine di quell’eucaristia pagana, si levò in piedi e guardando l’orizzonte recitò:
«O Dea, aiutami a raccontare dello sfortunato naufrago che prese con l’ingegno la città di Troia, e di molti popoli conobbe il pensiero e le usanze, e in mare patì grandi sofferenze, cercando invano di salvare la vita ai suoi compagni».
Ciriaco poggiò le mani a terra, come folgorato. Quindi la cantilena ipnotica, in una lingua sconosciuta, che aveva ascoltato prima era l’Odissea! Capì in quel momento di aver preso parte a una sorta di cerimonia funebre, a un rito pagano di sepoltura in mare. Ma in modo inequivocabile quei versi parlavano di lui: in quel momento, Ciriaco era Ulisse. Il segno che aveva atteso per anni giungeva inaspettato – in cima a un monte, come a Mosè sul Sinai – da qualcuno che aveva giudicato gretto e ignorante: ignorante come un falegname di Nazareth.
Theo riprese:
«Omero è nato qui, su quest’isola. L’Odissea parla di un uomo che torna a casa, è la storia di noi gente di mare».
Mentre il vento gli scompigliava i capelli, il suo sguardo abbracciava il profilo bruno della vicina costa anatolica, e gli altri scogli roventi sparsi in mezzo al mare, una lastra scintillante di metallo forgiato da un sole potente e impietoso.
«Guardati intorno,» disse poi allargando le braccia, «da qui non sembra di essere su un’enorme nave in mezzo al mare? E se salissimo su una montagna ancora più alta, non sembrerebbe tutta la Grecia un’enorme nave in mezzo al mare? In verità non importa quale sia il porto o la bandiera, la nave è la stessa nave».
«Omero, da cieco, vedeva nel cuore degli uomini e insegnò ad Ulisse a vedere nelle loro menti. Lo fece curioso, scaltro, sfrontato, testimone di un tempo in cui la conoscenza e la saggezza erano un dono ambito, e agli uomini era concesso di competere con gli dèi».
«Come conosci l’Odissea?» chiese ad un tratto il ragazzo.
«Gli antichi ci parlano, Ciriaco, continuamente. Abbiamo dimenticato quale debito di gratitudine ci lega a loro».
«Insegnamela, Theo».
«Ragazzo, io sono ignorante, non ho nulla da insegnarti che tu non sappia già. Dalle mie parti ci sono molte più chiese che scuole».
«E poi non sono cieco» concluse con una smorfia.
Discesero il monte lentamente, senza parlare. C’era da credere però che ciascuno stava pensando all’altro, al modo in cui le loro esistenze si erano incrociate.
Nel tardo pomeriggio, non appena furono in vista delle prime case del centro abitato, Theo ruppe il silenzio e chiese a Ciriaco:
«Conosci qualcuno qui a Chio?».
«No,» rispose l’altro, «ma so che esiste una comunità anconitana».
Risultava anche a Theo, ma non aveva idea di dove fosse. Per strada fermò un uomo che aveva l’aria di essere un mercante. Era un immancabile genovese e fu Ciriaco a porgli la domanda. Seguendo le indicazioni ricevute, si trovarono ben presto di fronte al portone di un palazzetto, non lontano dai magazzini del porto. Venne ad aprire un uomo anziano, vestito con abiti pesanti per la stagione.
«Dite».
«Cerco il console della Repubblica di Ancona» disse Ciriaco.
«Davanti a voi. Chi siete?».
«Sono Ciriaco Pizzecolli, del fu Filippo. Conoscerete senz’altro Ciriaco Salvatici, mio nonno».
Il viso del vecchio si illuminò:
«Ma certo! Il famoso Salvatici! Ciriaco… mi ricordo di te, credo di averti anche tenuto in braccio, una volta».
L’uomo si scosse dai ricordi e disse ai due:
«Ma entrate, vi prego!».
Ciriaco si voltò verso Theo, che si affrettò a respingere l’offerta educatamente:
«Vi ringrazio, ma è meglio che vada».
«Perdonatemi, vi raggiungo tra un attimo», si scusò Ciriaco con il console.
«Bene… a quanto pare dobbiamo separarci…» disse Theo, visibilmente imbarazzato.
Ciriaco era commosso. La sua mano tesa fu ghermita da quella di Theo.
«Ricorderò questo giorno come uno dei più importanti della mia vita. Non puoi neanche immaginare quante cose ho imparato in così poco tempo da te, che dici di essere ignorante».
Infine, aggiunse: «Verrò a Costantinopoli, e se non sarai tu, allora andrò a cercare qualcun altro che mi insegni l’Odissea».
Stette qualche istante in silenzio, poi disse con voce flebile:
«Grazie».
Le ultime parole furono di Theo:
«Sono certo che ci rivedremo».
E mentre gli lasciava andare la mano, non poté fare a meno di aggiungere:
«Amico mio».
Mentre camminava verso il porto, Theo pensò a come avesse fatto Ciriaco a sapere che veniva da Costantinopoli. Non gli sembrava di averglielo mai detto, né del resto gli aveva mai detto di chiamarsi Zenobios. Come sarebbe riuscito a rintracciarlo, una volta lì? Non se ne diede gran pena: conoscendolo, Ciriaco avrebbe trovato il modo.
Gli restava ancora una cosa da fare prima di partire. Entrò in una delle taverne affacciate sul porto e chiese agli avventori chi di loro conoscesse Yorgos. Un giovanotto, due guance rubizze, con indosso un camicione sudicio che forse in passato era stato bianco, si fece avanti. Theo lo squadrò e gli chiese:
«Lo conosci bene?».
«Ma certo! Siamo grandi amici, io e Yorgos! Siamo cresciuti insieme. Quante donne abbiamo fatto disperare…».
«Sei un dannato bugiardo, Yorgos avrebbe potuto essere tuo padre,» lo gelò Theo, «ma se non altro sei intraprendente».
Poi lo squadrò e gli disse:
«C’è la sua barca ormeggiata a metà del molo piccolo. Prendila tu, è tua. A lui non serve più. Speriamo invece che la vicinanza con l’acqua serva a te a star lontano dal vino, e magari anche a lavarti…».
L’altro strabuzzò gli occhi, incredulo. Theo aggiunse:
«In cambio però farai una cosa per me. A bordo troverai tre botticelle: portale al molo grande, alla galea di Theodoulos Zenobios. Poi potrai andartene in pace».
Tra mille inchini, il giovanotto si precipitò fuori dal locale.
Già che si trovava lì, Theo si fece servire una coppa di vino. La levò in aria, ma si rese conto che in quel momento non gli veniva in mente nulla o nessuno a cui brindare. Contrariato, posò la coppa sul banco e si mise a pensare. Si sorprese che la prima immagine a venirgli in mente fosse quella di Demetrios, il figlio dodicenne di cui era padre orgoglioso. E non quella di Yorgos. Se n’era andato. Era uscito dalla sua testa per entrare nell’Ade o chissà dove. Allora levò nuovamente la coppa e disse con tono sommesso:
«Buon viaggio, amico mio».
Poi si aprì in un sorriso:
«Figlio mio, sto arrivando».
Tracannò il vino tutto d’un fiato e si incamminò soddisfatto verso la sua nave.
Costantinopoli, 11 ottobre 1418
Il sole di un terso mattino autunnale inondava di luce la grande sala del trono, riverberando sui mosaici policromi, in un balenio di ori e di sete cangianti. Addossato alle poderose mura di Teodosio, nella parte di ponente della Città, il palazzo delle Blacherne era da secoli la sede della corte imperiale. Il palazzo era in realtà un complesso di edifici di varie dimensioni distribuiti su un’area piuttosto ampia, che ogni nuovo imperatore dei Romei si premurava di rinnovare e abbellire. Se le Blacherne erano il centro del potere politico, almeno nelle sue forme esteriori e di rappresentanza, il cuore delle attività economiche era il porto, o, meglio, i porti, dato che la felicissima posizione e la conformazione naturale di Costantinopoli la rendevano un unico, immenso porto, da sempre crocevia di traffici di merci e di uomini e luogo d’incontro di culture diverse. Era appunto a quegli uomini, divisi da culture diverse ma accomunati nell’intento di spolpare la carcassa in disfacimento dell’Impero, che il basileus intendeva rivolgersi.
In fondo alla sala, vestito di tutti i paramenti e simboli del potere, stava Manuele II Paleologo, con al fianco l’imperatrice Elena Dragasse e il figlio primogenito Giovanni, erede al trono. Aveva di fronte una platea di circa duecento persone, in rappresentanza delle tante nazioni – genovesi, veneziani, catalani, pisani, fiamminghi, anconitani – che per vari motivi, tutti di interesse, gravitavano attorno alla Città. Era stato invitato anche un gruppetto di mercanti turchi, a dimostrazione dell’ecumenica volontà di pace che era alla base del messaggio politico del basileus.
Ormai sulla soglia dei settant’anni, Manuele aveva dedicato la sua vita al disperato tentativo di frenare la lenta agonia dell’impero, dilaniato da lotte dinastiche interne, ormai ridotto – da padrone del mondo conosciuto qual era – a potenza regionale, e neanche di prima grandezza: ma soprattutto aveva speso molte delle sue energie nel contrastare la rinnovata esuberanza dei turchi, che metteva in discussione la sopravvivenza stessa dello stato. Il prestigio enorme di cui ancora godeva il basileus, simbolo della continuità con la Roma dei cesari, era una delle poche risorse rimaste, un capitale morale che di tanto in tanto Manuele cercava di convertire in moneta per portare sollievo alle cronicamente disastrate finanze dello stato. Era un politico esperto, abilissimo nell’usare le sue riconosciute capacità comunicative e diplomatiche, affinate in anni di viaggi e di estenuanti trattative con i principi di mezza Europa. La cornice decisamente spettacolare dell’evento giocava il suo ruolo, giacché neanche i più cinici tra i mercanti convenuti potevano dirsi immuni dal fascino dello sfarzo e del cerimoniale di corte. Oltre alle onnipresenti autorità religiose, anche i mercanti greci erano rappresentati nell’assemblea, e del loro gruppo faceva parte Theodoulos Zenobios, uno dei più in vista, accompagnato dal figlio diciottenne Demetrios. Nonostante la giovane età, il ragazzo aveva già da tempo affiancato il padre nelle sue attività e ne condivideva gli ideali e le aspirazioni.
Il discorso di Manuele esordì con espressioni di compiacimento – attendersi un ringraziamento sarebbe stato vano, giacché era inconcepibile che un imperatore rendesse grazie ad altri che a Dio – per la presenza di così tanti convenuti, anche se sapeva bene che un invito del basileus non era cosa che si potesse rifiutare.
Destreggiandosi tra un passo dei Vangeli e una citazione classica, tra un’allegoria e un aneddoto agiografico, Manuele attingeva a tutte le sue abilità retoriche ed espressive. Argomentava sulla fratellanza tra gli uomini, uniti nella fede in Cristo, e alla pace non solo come bene in sé, ma come fondamento del benessere dei popoli. La pace era non solo auspicabile, ma anzi necessaria per poter garantire la floridezza del commercio e dei traffici marittimi.
L’assemblea ascoltava in perfetto silenzio le parole del basileus, scandite con voce ferma e suadente. A un passaggio del discorso, in cui si alludeva alla prosperità dell’impero, dal gruppo dei veneziani si levò una sorta di risata soffocata, seguita da un commento, pronunciato a bassa voce nell’acustica perfetta della sala: «Quanti giri di parole per bussare a quattrini…».
La frase si udì così distintamente che il principe ereditario si vide costretto a reagire, balzando in piedi indignato: «Come osate, villano!».
Il basileus lo richiamò bonariamente:
«Suvvia, Giovanni, non vi alterate. Siamo certi che messer Contarini non intendesse offendere nessuno. Solo uno stolto metterebbe in pericolo – per il gusto di una battuta di spirito – il beneficio degli appalti dell’esercito di cui gode, pur sapendo con quale facilità possono passare di mano».
Un mormorio di approvazione si diffuse tra i presenti, divertiti dall’arguzia del sovrano.
«Perdonate, mio signore» si risolse a fare ammenda il mercante con un profondo inchino.
Il basileus riprese rivendicando il ruolo di Costantinopoli quale faro di civiltà fin dai tempi più antichi e polo di attrazione per gli uomini e le merci. La sua prosperità era quindi essenziale per poter dare continuità alla sua missione civilizzatrice e favorire il commercio e gli scambi tra i popoli. Pertanto, per i motivi precedentemente menzionati, sostenne che era un privilegio quello che veniva loro offerto di poter concorrere al sostentamento delle opere portuali attraverso l’accettazione di nuovi dazi sui traffici marittimi e si attendeva che la sua proposta sarebbe stata accolta con entusiasmo. Mentre pronunciava quelle parole, Manuele teneva lo sguardo fisso sul sagace Contarini, aspettando di coglierne una qualche smorfia di compiacimento per avere intuito con largo anticipo quale fosse il fine ultimo di tutta la messinscena. Ma dopo esser stato redarguito così aspramente, il veneziano era rimasto immobile come una biblica statua di sale e non aveva più osato alzare lo sguardo, né scambiare una sola parola coi vicini.
Al termine, la formula della benedizione che utilizzò il sovrano per congedare i suoi ospiti suonava piuttosto come una inquietante minaccia:
«Che la Santa Madre di Dio, protettrice di questi luoghi, estenda il suo sguardo su di voi e vigili sulle scelte che siete chiamati a operare».
Mentre uscivano dal palazzo passando in mezzo a due file di guardie, Theo e Demetrios si scambiavano le loro impressioni. Theo commentava con preoccupazione che la sfrontatezza dei latini si era fatta intollerabile e trovava emblematico il fatto che al veneziano non fosse stato torto un capello, quando in altri tempi non avrebbero esitato a imprigionarlo seduta stante.
Il giovane Zenobios, ammesso per la prima volta alla presenza del sovrano, era rimasto impressionato dal suo carisma:
«Chiunque vedesse Manuele capirebbe da solo, anche senza conoscerlo, che è lui il basileus».
Padre e figlio continuavano nei loro discorsi, quando una voce li raggiunse alle spalle:
«Chi aiuterà il povero Ulisse…».
Prima ancora di voltarsi, Theo spalancò gli occhi per lo stupore.
La persona che si trovò di fronte era un giovane uomo, elegantemente vestito di un abito di panno color rosso vivo, come rosso era il cappello che aveva in capo, calzato a fatica sopra un nido di capelli neri e ispidi. Dietro ai lineamenti resi appena più duri e taglienti dalla maturità, al viso leggermente più allungato, Theo riconobbe lo stesso sguardo vivace di un tempo.
«Ciriaco! Che mi venga un colpo!» esclamò.
Sentì subito l’impulso di abbracciarlo, ma dovette ammettere con sé stesso che provava una sorta di imbarazzo e non sapeva bene come comportarsi. Erano trascorsi ormai sei anni dall’ultima volta in cui si erano visti, per cui era normale che la familiarità col tempo fosse andata affievolendosi. Considerando anche che quella era stata non solo l’ultima, ma anche l’unica volta in cui si erano visti, l’imbarazzo era ancor più giustificato. Se poi aggiungiamo che quell’unica volta si erano frequentati per un solo giorno, c’era da stupirsi del contrario! E allora cos’era che li legava, al punto che era lì lì per abbracciarlo? La risposta gli uscì da dentro, facile e spontanea: era l’intensità delle emozioni condivise in quell’unico giorno, elementari come la vita e la morte, talmente forti che la maggior parte degli uomini non le avrebbe mai provate in un’intera esistenza.
L’indecisione durò giusto un attimo, e si risolse in un abbraccio poderoso, a tal punto che l’altro riuscì solo con un certo affanno a rispondere:
«Theo… amico mio… il tempo non può nulla contro di te!».
Non appena si fu liberato dalla stretta, continuò:
«Per tutta l’udienza ho cercato di attirare la tua attenzione, ma ero sul lato opposto della sala e non potevo muovermi».
«Questo è mio figlio, Demetrios».
Ciriaco scrutò i due in cerca di somiglianze.
«Che bel giovane! Speriamo che, oltre alle spalle larghe, abbia preso da te anche la saggezza».
«Vi ringrazio, signore». Demetrios si sentì in dovere di intervenire. «Mi sforzo ogni giorno di seguire gli insegnamenti di mio padre, anche se da anni ripete che non ha mai incontrato nessuno dotato di intelletto pari al vostro. Vi nomina talmente spesso che a casa vi consideriamo come uno della famiglia. È per me un onore e un piacere conoscervi».
Sveglio, il ragazzo… pensò Ciriaco mentre guardava l’espressione compiaciuta di Theo.
Demetrios aveva la stessa corporatura del padre, ma i tratti del viso erano ingentiliti dalle fattezze di Anna, sua madre, morta nel darlo alla luce. Theo aveva così due motivi per amarlo: uno come figlio, l’altro come ritratto vivente dell’adorata moglie scomparsa.
«Un uomo notevole, il basileus. E magnifico oratore anche! Non ho mai sentito nessuno batter cassa in modo così magniloquente…» disse Ciriaco sghignazzando.
Theo gli chiese quale fosse il motivo per cui si trovava a Costantinopoli.
«Dunque non credi che io sia qui per rivederti?» fece Ciriaco con aria sorniona.
«Se lo dici, ti crederò».
«A dire il vero mi è stato offerto di accompagnare un mio parente, Filippo Alfieri, che si insedierà tra pochi mesi come console del collegio dei mercanti anconitani, e ho colto l’occasione per venire a trovarti».
«Qualunque sia la ragione, o la comitiva, d’ora in poi sarai nostro ospite. Ho detto» tagliò corto Theo.
Ciriaco scrutò la sua espressione semiseria e replicò:
«Immagino di non avere scelta… Passo a recuperare il mio bagaglio a casa del console».
«Demetrios, accompagnalo e assicurati che non gli manchi nulla».
Il figlio assentì con un cenno e si incamminò, seguito dall’ospite.
Ciriaco rimase in casa degli Zenobios per alcuni giorni e passò molto tempo con Demetrios, che trascurava le sue incombenze – col tacito assenso del padre – pur di ascoltare i suoi racconti mentre lo accompagnava in giro per la Città.
Di ritorno dal loro vagabondare, solitamente Ciriaco faceva spazio sulla tavola e squadernava i fogli di appunti della giornata sotto gli occhi affascinati di Demetrios. Una sera, vedendolo completare alcuni suoi disegni, volle provare anche lui. Dopo un po’ che lo osservava, Ciriaco esclamò:
«Sei bravo! Hai una buona tecnica, si vede che sai tenere la penna in mano».
Dopo aver ripreso a riordinare i mucchi di appunti e disegni sparsi sul tavolo, a un certo punto attirò l’attenzione del ragazzo:
«Demetrios, guarda questo foglio attraverso la luce».
Gli fece notare il simbolo che era comparso in un angolo del foglio apparentemente uniforme.
«Un cavallo!» esclamò Demetrios meravigliato.
«Si chiama filigrana,» rispose l’altro, «è una tecnica che permette di variare lo spessore della carta: dove è più spessa passa meno luce e risulta più scura, viceversa dove è più sottile passa più luce e rimane chiara. Ogni bottega di cartaio ha il suo simbolo».
Poi disse rivolto a Theo:
«Conosci la carta di Fabriano? Ne hai mai commerciata?».
«Ne ho sentito parlare, ma in questi ultimi tempi sono i panni il nostro affare principale».
«Secondo me non dovresti trascurare la carta, ho visto aumentare la richiesta di anno in anno. Per il porto di Ancona ne passa una quantità imponente, non so neanche come facciano a produrne così tanta».
Mosso come sempre dalla smania di condividere le sue conoscenze, Ciriaco si sentì in dovere di aggiungere qualche dettaglio:
«Fabriano è a un paio di giorni di viaggio da Ancona, sulla strada per Roma. La sua carta è senz’altro la migliore in commercio. La fanno con gli stracci, pestati da macchine azionate dall’acqua del fiume. Ma l’ingrediente che la rende particolare è il carniccio, da cui ricavano una sorta di colla con cui trattano la superficie. È eterna, anche i notai si sono convinti a usarla al posto della pergamena».
«Vedo che, oltre che un estimatore, sei anche un ottimo cliente!» ironizzò Theo, che se ne stava in disparte all’altro capo del tavolo, accennando alle pile di fogli.
«Qualcuno, non ricordo chi,» disse Ciriaco lanciandogli uno sguardo complice, «una volta mi disse che gli antichi ci parlano. Con lo studio, con l’esperienza e soprattutto con il tempo, ho capito in che modo ci parlano. E ho cominciato a trascrivere quello che dicono».
Poi, rivolto al giovane Zenobios, gli chiese:
«Sei fiero di tuo padre, Demetrios?».
«Certo!».
«E ne hai ben donde, ragazzo mio».
«E del padre di tuo padre? Sei fiero anche di lui?».
«Non saprei, non l’ho mai conosciuto».
«Se ha cresciuto un uomo come tuo padre, non doveva essere una persona da poco, non credi?».
«Immagino di sì…» rispose Demetrios, che lo osservava perplesso.
«Quindi, anche senza conoscerlo, ti senti fiero di lui per ciò che ha fatto in vita».
«E allo stesso modo, saresti fiero di mio padre?».
Il ragazzo lo guardava stupito, non nascondendo un certo disagio.
“Ma che domande sono queste?” pensava, “Come faccio a essere fiero di una persona che non conosco? E poi, anche se lo conoscessi, non potrei essere fiero di qualcuno con cui non ho nulla a che fare!”.
Immaginando i suoi pensieri, Ciriaco aggiunse:
«Starai pensando che è una domanda assurda, ma ti prego di provare a rispondermi ugualmente. Tutto ti sarà più chiaro non appena avrò concluso il mio ragionamento».
«No, credo di no, senza nulla togliere a vostro padre, ma non so nulla di lui e non mi sento di esprimere giudizi».
«Purtroppo non riuscirai mai a colmare la mancanza, dato che morì tanti anni fa».
Theo da lontano ascoltava distrattamente il discorso dei due e aveva cominciato a interessarsi alla scena, curioso di capire dove volesse andare a parare.
«E cosa provi per il basileus Manuele?» proseguì Ciriaco.
Demetrios rifletté un istante e rispose:
«Ammirazione, direi».
«Bene, quindi stiamo dicendo che si può provare ammirazione per qualcuno di cui si conoscono le opere».
«Puoi dire di essere fiero di lui?».
«In un certo senso, sì. Sono fiero che lo Stato sia governato da un sovrano come lui».
«Quindi puoi dire di esserne fiero perché senti di avere qualcosa in comune con lui, cioè per il fatto di appartenere allo stesso stato, di condividere una stessa identità. Se invece che greco tu fossi, che so, turco o pisano, forse lo ammireresti ugualmente, ma non ne saresti fiero. Giusto?».
«Suppongo di sì».
«In conclusione, stiamo dicendo che siamo fieri di qualcuno quando la conoscenza delle sue opere ci suscita ammirazione e allo stesso tempo ci sentiamo accomunati all’oggetto della nostra ammirazione».
Ciriaco tacque, lasciando Demetrios in sospeso, ma subito riprese:
«Volgiamo ora il nostro sguardo agli antichi. Camminiamo ogni giorno tra le loro opere, studiamo i loro scritti, seguiamo i loro insegnamenti, al punto che parlare di semplice ammirazione è quasi sminuirne l’importanza. Ma dimmi, Demetrios, a che titolo possiamo dirci fieri di loro?».
Il giovane, ormai inesorabilmente catturato nella tela che Ciriaco gli andava pian piano avviluppando intorno, era passato dal disagio della diffidenza alla bramosia di contribuire all’esito finale.
«Noi siamo i loro discendenti, gli eredi della loro tradizione» rispose prontamente.
«Quando parli di noi intendi tu e io? Oppure tu e i tuoi concittadini? Dove finisce quel noi?».
Il ragazzo aveva ripreso a fissarlo, interdetto. Era sul punto di azzardare una risposta, ma si era ormai reso conto che qualsiasi risposta sarebbe stata sbagliata.
«Vedi,» disse Ciriaco in tono solenne, «siamo finalmente arrivati al nodo centrale della questione. Credimi, credetemi se vi dico che dalla nostra capacità di sciogliere questo nodo dipende il futuro di noi tutti».
L’atmosfera nella stanza si era fatta pesante. Ciriaco ora aveva la piena attenzione dei due Zenobios.
«I tuoi antichi, sono i miei antichi? In definitiva, possiamo concludere che le nostre radici sono le stesse? Io non sono greco, perché allora dovrei esaltarmi ascoltando le avventure di Ulisse? Perché dovrei sentirmi fiero di fronte alla maestà del Partenone o alla miracolosa perfezione di una statua di Fidia? Eppure, in cuor mio io sento che tutte quelle cose mi appartengono. Sono convinto che se Omero non fosse mai esistito, se l’Odissea non fosse mai stata scritta, io sarei diverso, noi tutti saremmo diversi».
Demetrios era ormai affascinato dal rigore della logica di Ciriaco e cominciava a capire perché il padre lo avesse in tanta considerazione.
«È vero,» continuò l’anconitano, «tu parli greco, ma sei tanto distante da Atene quanto un latino come me e in verità hai lo stesso diritto che ho io di considerarti un discendente di Platone o di Talete, allo stesso modo in cui San Costantino, il vostro primo basileus ton romaion, era uno tra i tanti imperatori romani».
Il discorso di Ciriaco parve giunto al suo epilogo. L’uomo levò l’indice al cielo e con tono veemente dichiarò:
«Intendo dire che la discendenza non è il sangue, non il luogo: è l’eredità dello spirito che ci fa guardare il mondo con gli stessi occhi».
Poi, quasi borbottando tra sé e sé, si mise a camminare per la stanza:
«E noi come li onoriamo? In che modo ci mostriamo degni della loro eredità? A Roma ho visto io stesso i marmi dei templi ormai vuoti, un tempo sacri agli dèi, trasformati in calce per il capriccio di potenti altezzosi e ignoranti… Del resto avevamo già ripudiato quegli dèi, troppi e troppo litigiosi, sempre pronti a contendersi la fedeltà degli uomini e a trovare un pretesto per tradirla. Li abbiamo rimpiazzati con un dio solo, onnipotente e distratto, onnipresente e lontanissimo».
L’uomo sembrava parlare per sé stesso, quasi noncurante dell’uditorio. Ad un tratto si bloccò nel bel mezzo della sala, e muovendo l’indice a mo’ di rimprovero, ammonì:
«Ma non è da un dio che possiamo aspettarci la salvezza, è un ruolo che compete agli uomini. Così come custodiamo il patrimonio di nostro padre, allo stesso modo dovremmo custodire quello di coloro che ci hanno preceduto. Salvare la nostra eredità vuol dire salvare noi stessi».
Poi tacque, come esausto, quasi spaventato dalle sue stesse parole.
Demetrios, visibilmente turbato, guardava verso un punto indefinito nella stanza. Theo invece lo fissava senza un’espressione, al punto che Ciriaco si risolse a dire:
«Perdonatemi, ho parlato troppo. Considerate le mie farneticazioni come un esercizio di retorica di un rozzo mercante che si atteggia a intellettuale».
L’imbarazzo si sciolse quando Elena entrò nella stanza e mise le mani sulle spalle di Demetrios, seduto vicino all’entrata, annunciando che la cena era pronta.
Oltre all’amore sconfinato per quel ragazzo di cui si era presa cura fin dalle prime ore di vita, Elena condivideva con Theo anche molto altro. Demetrios guardava a lei con lo stesso rispetto e con la stessa tenerezza che avrebbe riservato a sua madre.
Anna aveva chiesto alla sorella di stabilirsi in casa per assisterla nel periodo del parto. Dopo la tragedia, Elena era semplicemente rimasta. Per mesi Theo si era trascinato da solo il dolore immenso per la perdita della moglie. Poi si rese conto che il dolore non era una sua esclusiva, che anche altri soffrivano per la perdita o avrebbero potuto soffrire per la sua assenza. L’amore di Elena per il bambino si era come espanso nella casa e lentamente lo aveva contagiato. Una sera bastò che lei gli prendesse una mano tra le sue. Theo posò l’altra su quell’intreccio e non ci fu più bisogno di dire altro. Quel nodo era un’accettazione reciproca, una promessa di fedeltà che in tanti anni non sarebbe mai venuta meno. Dal canto suo, Elena sapeva che non avrebbe mai preso il posto di Anna, né lo voleva, e gli perdonava la catenina con un suo anellino che portava sempre al collo. Sapeva anche che sarebbe stata nient’altro che una concubina agli occhi della gente e che lo scandalo di comparire in pubblico a fianco di Theo non sarebbe stato perdonato neanche a un uomo potente e rispettato come lui. Ma non le importava. Conosceva il suo cuore e le bastava.
Costantinopoli, 19 luglio 1444
Elena stava fieramente in piedi al fianco di Theo, nei fatti madre orgogliosa dello sposo che, nonostante l’età matura, restava pur sempre il suo bambino, e nei fatti finalmente sposa di suo padre davanti al mondo. Theo le porgeva il braccio. La sua grande mano, posata delicatamente sopra quella di Elena, era come il sigillo su un legame che in tanti anni non si erano mai dati pensiero di definire e che era solo loro – non avendo trovato ragione di essere consacrato davanti a Dio – unione benedetta ogni giorno con piccole attenzioni, impercettibili gesti di quotidiana tenerezza, protetti dall’intimità della loro casa. La vecchiaia li aveva colti insieme, in apparenza senza danno per Theo. Elena si era invece lentamente indebolita e il declino della sua salute aveva finito per costringerla a letto. Quel giorno era riuscita ad alzarsi con grande sforzo, consapevole che avrebbe potuto esserle fatale, ma era così determinata che nulla al mondo le avrebbe impedito di partecipare al matrimonio di quello che considerava a tutti gli effetti suo figlio.
Osservava il profilo di Demetrios e notava che negli anni era andato sempre più assomigliandole, tanto che nessuno, all’oscuro della sua vera storia, avrebbe dubitato che fosse veramente suo figlio. Le piaceva pensare che la ragione di ciò non fosse solo l’intermediazione naturale di Anna, ma che in qualche modo anche certi tratti esteriori, oltre a quelli del carattere, potessero trasmettersi per vicinanza, per l’abitudine a stare insieme.
Percorrendo il volto di suo figlio, lo sguardo si posò su quello di Theodora, a un passo da lui. Era splendida. Avvolta in abiti sfarzosi, il mento sollevato, lo sguardo calmo e diritto, portava in viso l’espressione di una tale sfrontata sicurezza da incutere una sorta di timore in chi la guardava. Elena era vissuta nella venerazione per Demetrios, ma non per questo negava a sé stessa l’evidenza di una fanciulla poco più che adolescente in sposa a un uomo dell’età di suo padre. Si accorse però che, dagli angoli della bocca, leggermente incurvati verso l’alto in un sorriso appena abbozzato, trapelava un’idea di felicità. Non immaginava che era proprio un altro padre quello che Theodora andava cercando. Il suo era un uomo meschino, a tratti persino crudele, per il quale la nascita di lei, quarta di quattro figlie femmine, era stata solamente l’ultima iattura che si abbatteva sulla sua casa. Poi, quando la bellezza non comune di Theodora iniziò a prendere forma, si ingegnò a trarne profitto esibendola in ogni occasione si presentasse per far incapricciare qualche rampollo di famiglia danarosa o altolocata, meglio ancora se dotata di entrambe le qualità. In effetti uno stuolo di pretendenti aveva bussato alla sua porta, ma la ragazza era sempre riuscita cocciutamente – al prezzo di lividi e castighi – a tener testa alle insistenze del padre e, con una scusa o con l’altra, li aveva liquidati a uno a uno. Non che tra loro non vi fosse qualche buon partito o persona degna, ma era l’indegnità stessa di suo padre a renderle insopportabile qualsiasi imposizione venisse da lui. Fu invece lei a scegliere Demetrios.
Accadde che si trovava nei pressi di uno dei tanti mercati della Città, in compagnia di una serva con un grosso cesto sul capo. Passarono accanto a un uomo alto, ben vestito e ben piantato, intento a parlare con altre due persone che sembravano ascoltarlo con interesse. Proprio in quel momento la serva inciampò su una pietra sconnessa e per mantenere il cesto in equilibrio stava per ruzzolare a terra. L’uomo si accorse all’istante di quanto stava accadendo e con un gesto repentino riuscì miracolosamente ad afferrare il cesto, ma non fece in tempo a sostenere la donna.
«Vi siete fatta male?» le disse.
Theodora osservava la scena e rimase colpita dal gesto e dal riguardo con cui l’uomo trattava una semplice serva. Era proprio quella forma di rispetto spontaneo e disinteressato che avrebbe voluto per sé.
«No, sto bene, grazie» rispose la donna.
«Ecco il vostro cesto» aggiunse l’uomo mentre l’aiutava a sistemarlo nuovamente sul capo.
«Sono certa che se al mio posto ci fosse stata la mia padrona, avreste preso lei invece del cesto!» commentò impertinente la serva.
«Se siete lesta nelle faccende per quanto sciolta avete la lingua, la vostra padrona è davvero fortunata!» scherzò l’uomo mentre incrociava lo sguardo di Theodora. Lei rise coprendosi la bocca con la mano. Mentre si allontanava insieme alla serva, si voltò fugacemente a guardarlo. Bastò che quello sguardo durasse un attimo di troppo per perdere Demetrios irrimediabilmente.
Di aspetto gradevole, di ingenti sostanze, Demetrios era quello che si dice un buon partito. Fin da giovane non gli era mai mancato il modo o l’occasione di destare l’interesse di più di una donna, giovane o matura, nubile o sposata che fosse. Riusciva così ad appagare con il minimo coinvolgimento le sue pulsioni carnali, mantenendo pur sempre una sua etica, senza illudere con promesse d’amore eterno né peraltro illudersi di averlo trovato. Quella successione di legami effimeri, a volte illeciti, aveva col tempo allontanato la prospettiva del matrimonio. Un paio di volte ci era anche andato vicino, ma si era ritratto in tempo sull’orlo del baratro dell’infelicità, come soleva ripetere. Demetrios era una persona intimamente onesta, non pensava all’infelicità propria quanto a quella della sua eventuale futura sposa. Sollecitato sul tema, argomentava di essersi talmente assuefatto alla condizione di scapolo che la malcapitata avrebbe avuto a soffrire per il modo disordinato in cui conduceva la sua vita. E poi considerava contro natura l’obbligarsi a vivere sotto lo stesso tetto, giacché non voleva né imporre a qualcuno la sua presenza né tantomeno dover giustificare la sua assenza. E ancora, il modello di armonia conviviale offerto dai suoi genitori, che aveva costantemente avanti agli occhi, lo avrebbe costretto a continui confronti e non era sicuro di poter accettare per sé nulla di meno. Ma tutto il gran filosofare era in realtà solo una cortina dietro cui si celava l’origine delle sue ritrosie. Era la paura, allo stesso tempo causa ed effetto, parte di quelle profondità oscure del suo carattere che non riusciva a dominare. Demetrios non si poteva definire un vigliacco, al contrario, si era distinto in varie occasioni per il coraggio, mai oltre i limiti dell’incoscienza. La paura, sano istinto di conservazione per i più, era in lui invece come un fiume che rompeva gli argini all’improvviso, travolgendo qualsiasi barriera la ragione tentasse di opporgli. E allora non c’era legge, non c’era patria, solo l’istinto primordiale a sopravvivere, a scappare, a mettersi in salvo. Demetrios ne era consapevole e per questo non voleva essere causa di infelicità per gli altri. Ma quell’istante di troppo nello sguardo di Theodora non gli aveva lasciato scampo. Non ricordava di essersi mai innamorato in età adulta, e nemmeno da giovane ricordava di esser mai stato colto all’istante da un desiderio così travolgente, da una passione tanto violenta. Fu così che, in un supremo atto di egoismo, si determinò a condannare all’infelicità perpetua quella giovane donna.
La rivide dopo qualche giorno, più o meno nello stesso punto, scortata dalla serva del cesto, dopo che, per caso, aveva preso a passare e ripassare da quelle parti. Quando fu abbastanza vicino, salutando con un cenno del capo, si rivolse alla domestica:
«Dove avete lasciato il vostro cesto?».
La donna lo guardò, poi si girò verso la ragazza e rispose con un tono talmente alterato da suggerire di non credere a una parola di quanto stava dicendo:
«Temo di averlo smarrito da qualche parte! Torno indietro a cercarlo. Padrona, non vi muovete da qui…».
Rimasti soli, Demetrios prese l’iniziativa:
«Qual è il vostro nome, signora?».
«Mi chiamo Theodora, Kyr Demetrios».
«Mi conoscete, quindi».
«Ho le mie amicizie».
A un passo da lei, Demetrios cercava di dominarsi, ma dentro di sé era sconvolto. Si sforzava di guardarla negli occhi, magnifici, ma non riuscì a sostenere il suo sguardo se non per qualche istante. Abbandonata ogni decenza, si perse ad esplorare ogni particolare del suo viso, come se volesse imprimerselo nella memoria, e a perlustrare le parti esposte del suo corpo e a immaginare quelle nascoste. La voleva, con tutte le sue forze.
«Verrò a parlare a vostro padre» gli uscì di getto.
Theodora, per nulla turbata, come se avesse appena sentito la cosa più naturale di questo mondo, replicò:
«Lo conoscete?».
«Non crederete di essere l’unica ad avere delle amicizie…».
La famiglia di Theodora viveva in un palazzotto silenzioso e malandato, sulla cui facciata scrostata era rimasto qualche fregio come unico segno di fasti passati. Non molto distante si ergeva quello degli Zenobios, invece brulicante di attività, solido – come solido era il patrimonio della famiglia – e costruito con la sobrietà propria di quell’orgoglioso ceto mercantile il cui dinamismo teneva ancora in vita una società ormai asfittica e immobile.
Demetrios aveva di fronte il padre di Theodora, un ometto dall’aspetto insignificante, al punto che veniva da chiedersi come avesse potuto un fiore tanto leggiadro sbocciare da una pianta così modesta. Nonostante ciò lo trattava in un modo talmente educato e formale da risultare altezzoso, come a voler rimarcare la distanza tra un nobile qual era, sebbene decaduto, e un plebeo, che per di più alla sua età aveva ceduto alla debolezza di invaghirsi di una ragazzina e che – colpa grave sopra tutte – era dannatamente ricco. Se è vero che Demetrios non aveva mai avuto gran dimestichezza nel trattare le donne, trattare con gli uomini era invece il suo mestiere. Saltando ogni preambolo, andò diritto al punto: chiese la mano di Theodora ed espose succintamente le condizioni da includere nel contratto di matrimonio. Il discorso fu così chiaro, il tono così perentorio, i termini così favorevoli che all’uomo non rimase altro da fare se non mandare a chiamare la figlia, informarla della sua decisione e presentarle il suo promesso sposo.
Per volontà della famiglia di Theodora, ansiosa di assaporare gli effetti del riacquistato prestigio, il luogo designato per le cerimonie di fidanzamento e di matrimonio era la chiesa della Theotokos Pammakaristos, una delle più importanti della Città. A detta loro, la scelta aveva un carattere sentimentale, per via di una parentela – vera o presunta non è dato sapere – con Michele Glabas Tarcaniota, protostrator di un Paleologo, ivi sepolto oltre un secolo prima insieme alla moglie, in una cappella che lei stessa fece costruire e decorare per onorare la memoria del marito. Theodora aveva raccontato a Demetrios la storia dei due, e la devozione con cui la vedova, fattasi monaca, aveva chiesto a un poeta di comporre una lamentazione per il suo sposo e l’aveva fatta incidere tutto intorno al perimetro esterno della chiesa. Sebbene indifferente a quel raro esempio di fedeltà coniugale, Demetrios non aveva avuto nulla da eccepire sul luogo, ma si era riservato di decidere la data del matrimonio, in maniera tale da dare al suo testimone speciale il tempo di organizzarsi.
Il rito del fidanzamento si svolse nel nartece della chiesa, alla presenza di un folto gruppo di invitati plaudenti. I futuri sposi camminarono fianco a fianco fino a giungere davanti al prete, il quale li benedisse, li incensò con un turibolo e diede a ciascuno un cero acceso. Poi si fece consegnare gli anelli, li infilò all’anulare della mano destra degli sposi e li scambiò per tre volte tra l’uno e l’altra, a intendere con quel gesto lo scambio continuo tra i coniugi destinato ad arricchirli reciprocamente nel corso della loro vita insieme. Quasi ipnotizzato dal salmodiare incessante del prete, Demetrios osservava come anche il dettaglio in apparenza più insignificante della divina liturgia non fosse mai casuale. Si domandava quale mente umana potesse aver mai elaborato un sistema così complesso di simboli, di litanie, di richiami ai testi sacri, di gesti codificati minuziosamente, ma soprattutto si chiedeva il perché di tutto ciò. Si domandava quale dio potesse compiacersi per tutti quegli arzigogoli, dal significato così traslato e recondito da sfuggire ai più e forse anche a chi li compiva. Si ritrasse con orrore da quell’empito blasfemo, reso ancor più riprovevole dalla situazione, si guardò intorno, come per accertarsi che nessuno avesse percepito i suoi pensieri eretici, e cercò di concentrarsi sulla cerimonia, che ormai volgeva al termine.
Il matrimonio fu celebrato alcune settimane più tardi nel parekklesion, la cappella laterale della stessa chiesa, splendente di mosaici dorati, popolati da figure di santi e profeti. Demetrios e Theodora stavano sotto la cupola del Cristo Pantokrator, al centro di un grande tappeto che simboleggiava la loro casa, il focolare domestico che li attendeva. Di fronte si aprivano le grandi finestre dell’abside, sormontate da un’altra rappresentazione del Figlio di Dio, il Cristo Hyperagathos, con a fianco le figure della Vergine e del Battista. Lungo la parete alla loro sinistra, si apriva l’arcosolio che custodiva le spoglie del protostrator e della sua vedova monaca, uniti in vita e per l’eternità. Accompagnato da preghiere e litanie, il prete legò tra loro con un nastro le mani degli sposi. Poi i testimoni posero sul loro capo le due coroncine nuziali, simbolo della sovranità che la Chiesa concedeva loro di esercitare in casa propria. Il padre di Theodora le aveva imposto per testimone una lontana parente, un’anziana dama curva e grinzosa che bazzicava i palazzi imperiali – non era noto a che titolo – la quale faticò non poco a metterle la corona sul capo.
Elena fissava il viso scarno del testimone di Demetrios, per assicurarsi la cui presenza già una volta suo figlio non si era fatto scrupolo di rinviare il matrimonio. Ciriaco Pizzecolli, ormai per tutti Ciriaco d’Ancona, era una celebrità di quei tempi. Personaggio pubblico, amico intimo di papi e imperatori, frequentatore delle corti più illustri d’Europa e forse anche della Sublime Porta, era lui la vera attrazione dell’evento. Elena notava come Ciriaco fosse stato una presenza costante nei discorsi di Theo prima e poi anche di Demetrios, cresciuto nel mito alimentato dall’ammirazione del padre, al punto da venerarlo come una sorta di nume tutelare della famiglia. A Elena non piaceva l’influenza che Ciriaco esercitava sul figlio e guardava con sospetto alle idee strane che gli aveva inculcato, soprattutto in tema di religione. Già sapeva che, dietro al rispetto delle forme e dei precetti, Theo aveva altri modi per nutrire lo spirito e non li avrebbe certo delegati alla Chiesa o al suo apparato. Ma Demetrios era affar suo. Era stata proprio lei, che per la morale comune viveva nel peccato, a farne un modello di devozione e rettitudine, almeno ai suoi occhi, ed era angustiata per vederlo subire il fascino di un uomo in odore di empietà. Quanto a Ciriaco, non concepiva come un uomo potesse trascorrere la vita a vagabondare senza requie per il Mediterraneo, sfruttando passaggi da chiunque, in cerca di cocci senza valore da trattare come reliquie di quell’idea di antichità che andava vagheggiando. Avrebbe trovato più comprensibile, sebbene abominevole, che si occupasse di predare le reliquie dei santi, come ci si aspetterebbe da un latino, piuttosto che svilirle preferendogli qualche pezzo di marmo, da destinare all’adorazione dei signorotti italiani con la passione per i culti esoterici. Per non parlare poi della sua mania di scrivere lettere a centinaia, a chiunque, e di riempire fogli a migliaia, con disegni, appunti e storie fantasiose. Soprattutto queste ultime la preoccupavano: non aveva mai capito se parlasse sul serio quando affermava che la tal ninfa gli aveva impedito di raggiungere un luogo, oppure che il dio talaltro lo aveva ben consigliato nel concludere un affare. Quella sua ostinazione a condire la realtà con elementi mitologici la metteva in sospetto che a volte veramente si perdesse tra il vero e l’invenzione e così, in bilico tra due mondi, fosse lì lì per uscir di senno. Elena si meravigliava con sé stessa per una specie di risentimento che le montava dentro, ora che sentiva la vita scorrere via, all’idea di lasciare suo figlio, anche se ormai vecchio, esposto all’influenza di quell’uomo. Si rasserenò rimirandoselo ancora una volta, mentre a pochi passi da lei stava bevendo il vino dalla coppa insieme alla sua sposa.
“Ma sì,” alla fine pensò, “scacciamo i cattivi pensieri, almeno in un giorno come questo. Dopotutto, il mio compito è finito: da oggi c’è un’altra donna a prendersi cura di lui. Siate felici, figli miei”.
Il prete prese gli sposi per le mani unite dal nastro e li guidò per tre giri attorno al centro del parekklesion, seguiti dai due testimoni che tenevano le coroncine sospese sul loro capo. Al termine il nastro fu sciolto e tra le benedizioni, le preghiere e l’esultanza dei presenti, Demetrios e Theodora divennero marito e moglie.
Elena morì pochi giorni dopo il matrimonio, serenamente, circondata dalla sua famiglia. Ciriaco aveva allungato la sua permanenza a Costantinopoli per restare accanto a Theo in quel momento difficile. Si prodigava per dargli sostegno e cercava di intrattenerlo con le sue storie, parlandogli per ore degli argomenti più disparati. Theo lo seguiva distrattamente di tanto in tanto, più per creanza che per reale interesse.
«I miei discorsi ti annoiano, Theo?».
L’altro rispose non nascondendo un certo imbarazzo:
«Ciriaco, ti parlerò sinceramente. Apprezzo molto i tuoi sforzi, ma sono giorni che mi riempi la testa di storielle a cui non riesco ad appassionarmi. Le cose che mi racconti potresti raccontarle a chiunque altro in una normale conversazione, non trovo nulla di personale nelle tue parole. In questo momento ho bisogno di un amico vero, non di una maschera o di un animale da compagnia. Ci conosciamo da più di trent’anni, eppure mi accorgo che dopo tutto questo tempo so poco o nulla di te. Chi sei veramente, Ciriaco? Un mercante? Un erudito? Un politico? Un ciarlatano? Perché non mi parli di questo?»
Ciriaco sospirò col capo chino, poi alzò lo sguardo verso l’altro, fece una lunga pausa e gli parlò:
«Hai ragione, Theo. Io sono un po’ tutte le cose che hai detto. Ho speso la vita a lottare per un unico ideale. Tutti vogliono cambiare il mondo, da giovani. Io volevo fare di più: volevo resuscitarlo. Volevo rimpiazzare le brutture degli uomini di oggi con le virtù degli uomini di un tempo. Volevo salvare il loro mondo perfetto dall’oblio!».
Theo fu sorpreso da quell’inatteso slancio di sincerità: allora poggiò i gomiti sulle ginocchia, e con le mani raccolte, a capo chino come un prete che si appresta ad ascoltare la confessione di un fedele, si dispose a ricevere quella dell’amico. Con l’impeto che gli era proprio, Ciriaco si aprì:
«Ero pervaso da una tale esaltazione e nutrivo una tale fiducia nelle mie capacità – convinto com’ero che avrebbero compensato la mia inesperienza – da stimare grandemente per difetto l’enormità del compito che mi attendeva. Ho creduto di poter controllare forze più grandi di me e di giocarle a mio favore per assecondare i miei scopi. Non c’è potente della Terra che io non abbia frequentato, non uno che abbia respinto i miei buoni uffici. Con tutti ho scambiato, mercanteggiato, facendomi dell’uno referenza per l’altro, e intanto sperimentavo gli effetti della contiguità con il potere».
Il suo viso si rabbuiò:
«Il potere corrompe, Theo. Ti acceca coi bagliori sinistri di una luce mortifera, sordida, che insudicia tutto ciò su cui si posa. Ho finito per lordarmi anch’io con bassezze di cui non avrei mai pensato di essere capace. Ho barattato la saggezza, il coraggio e la rettitudine con la menzogna e il sotterfugio. Insomma, ho infranto i principi stessi per i quali stavo combattendo».
Theo taceva, consapevole degli sforzi del suo amico e della sofferenza che quelle parole, quelle ammissioni, gli causavano. Seduto di fronte a lui, Ciriaco gli mise una mano su un ginocchio e gli disse:
«Di una cosa però puoi essere certo, Theo. Non posso dire di essere sempre stato pienamente sincero, ma a te non ho mai mentito. Credimi, se ti ho taciuto qualcosa l’ho sempre fatto per proteggere te e la tua famiglia. Vedi, la mia immagine pubblica, la mia popolarità mi servono a restare in vita, a scoraggiare i tanti nemici che mi sono guadagnato in questi anni».
Zenobios strinse gli occhi, come per mettere a fuoco le parole dell’amico. Ciriaco spiegò:
«Perché pensi che io annoti minuziosamente ogni più piccolo avvenimento? Qual è il motivo di tutte le lettere che scrivo? Perché sia chiaro a chiunque progettasse di farmi del male che, solo a leggere le mie carte, sarebbe facile risalire all’autore del gesto e al suo mandante. Io non faccio altro che spargere tracce ovunque, nella speranza che bastino a dissuadere i malintenzionati. Perché mi muovo di continuo in modo così imprevedibile e non resto mai a lungo nello stesso luogo? Per non dar tempo a nessuno di organizzare alcunché a mio danno».
Theo lasciò cadere la testa in avanti e sussurrò: «Amico mio, perdonami… non immaginavo…», ma con una mano Ciriaco gli fece cenno di non interromperlo. Il tono della sua voce si fece accorato:
«Ti sei mai chiesto perché non ho una famiglia? Mi crederesti così insensibile all’abbraccio di un figlio o al calore di una casa, magari nella mia Ancona, in cui alla fine tornare? Ma come troverei il coraggio di allontanarmi dai miei affetti ogni volta, sapendo di esporli così al pericolo che colpiscano me attraverso loro? Theo, anch’io vorrei che le mie fossero solo ossessioni, ma quando la sera mi svesto rivedo le cicatrici sul mio corpo a ricordarmi le volte in cui sono stato sul punto di perdere la vita. In nessuno dei miei scritti troverai traccia di ciò, poiché non voglio che la scia del mio sangue attiri i predatori, come accade agli animali».
Theo lo fissava con un’espressione corrucciata. In tutti quegli anni non aveva mai nemmeno sospettato che la vita del suo amico potesse essere un tale inferno.
«Da buon mercante, la mia salvezza materiale è avere sempre qualcosa da vendere. Ciriaco il viaggiatore, l’antiquario, è anche Ciriaco il messaggero. Sarò al sicuro fino a quando ci sarà qualcuno pronto a credere di poter ricavare un vantaggio da me. Ma la mia salvezza è al tempo stesso la mia condanna, poiché mi impedisce di uscire dal gioco. Il giorno in cui dovessi finire nell’ombra sarei morto. La mia salvezza spirituale, la mia redenzione è invece nell’opera che sto portando avanti».
Theo era affranto.
«Per il tuo bene, promettimi di dimenticare quanto sto per dirti» continuò Ciriaco.
L’altro assentì con un cenno del capo.
«Ricorderai che Demetrios decise con grande scandalo di rinviare il matrimonio solo pochi giorni prima della data stabilita. Fu per causa mia, volle darmi il tempo di incontrare il basileus Giovanni per riferirgli ciò che avevo udito in Adrianopoli alla corte del Turco. Il sultano è in gran difficoltà perché si trova a fronteggiare una grave ribellione interna ed è disposto a tutto pur di evitare l’apertura di un altro teatro di operazioni. Il giovane Vladislao re di Polonia e d’Ungheria si è lasciato tentare e sta trattando una pace separata in cambio di concessioni generose. È una mossa ingenua, che testimonia però quanto il fronte cristiano sia diviso. Quello turco è un impero giovane, assetato di conquista, con cui ogni promessa di pace duratura è in realtà solo una tregua. È inutile farsi illusioni, perché ciò che è costretto a cedere oggi, se lo riprenderà domani con gli interessi».
«Ciriaco,» lo interruppe Theo mettendogli una mano sopra un braccio, «ascoltami bene: io sono qualcuno qui, e ho i mezzi e le conoscenze per garantirti la tua sicurezza. Resta, penserò io a proteggerti».
L’altro mise la propria mano sulla sua, e rispose:
«Theo, amico mio, temo che tu non abbia ben capito le dimensioni del gioco in cui mi trovo invischiato. Ti sono sinceramente grato per la tua offerta, ma temo che neanche tu sia al sicuro qui. E poi è proprio questo il momento di maggior pericolo, sarei un vigliacco a ritirarmi adesso. Per tutti questi anni ho lavorato a costruire e diffondere l’idea che è l’Impero il vero custode delle radici della nostra civiltà, quindi, per scongiurare il pericolo che l’eredità del passato sia dispersa, è necessario assicurare la sopravvivenza dell’Impero».
Poi tentò di infondere un po’ di fiducia nell’amico, lasciando intendere che la sua combattività era tutt’altro che sopita:
«Bisogna rimanere saldi nei propri principi e confidare, se non in Dio, almeno nella saggezza degli uomini. Sai che sono in confidenza con papa Eugenio fin da quando era legato pontificio in Ancona. Fui io a convincerlo della necessità di una soluzione definitiva per fermare l’avanzata ottomana, dando la sponda a idee che stavano maturando in ambienti vicini alla corte imperiale. L’autorità papale è l’unica capace di mettere insieme forze sufficienti a contrastare le mire del Turco. Ma il prezzo che il papa ha imposto ai Romei per lanciare una crociata è la ricomposizione dello scisma della chiesa d’Oriente, un atto che ancora oggi, a sei anni dal concilio che disputava la questione, appare a molti di voi come il supremo tradimento e la resa al ricatto dei perfidi latini».
Theo si sentì in dovere di commentare:
«Tu mi conosci, non sono un uomo di fede e non mi intendo di queste cose, ma la scelta di umiliare un intero popolo è stato un errore colossale, che pagheremo tutti nei secoli a venire».
L’altro replicò:
«Forse hai ragione, ma la posta in gioco era così alta che un prezzo simile era parso accettabile. Serviva anche a togliere un pretesto ai tanti principi cristiani smaniosi di mettere le mani su nuove terre, poco importa se di cristiani o d’infedeli, e a incanalare le ambizioni personali in una crociata».
«Da queste parti sappiamo bene come finiscono le vostre crociate», commentò in tono sarcastico Theo.
Ciriaco lo ignorò e riprese:
«Altri, come le repubbliche marinare, Venezia in testa, mantengono un atteggiamento ambiguo: da una parte mostrano a parole tutto il loro fervore e la loro devozione alla Santa Chiesa, dall’altra non hanno in realtà nessuna voglia di mettere a repentaglio le proficue relazioni commerciali con i turchi. La crociata stenta a prendere forma, quindi. Se non corriamo ai ripari, la mossa avventata di Vladislao potrebbe essere la prima crepa nello schieramento cristiano, destinata ad allargarsi se i principi fiutassero aria di bottino senza neanche dover combattere. Per l’Impero sarebbe la fine, e con esso perderemmo irrimediabilmente il patrimonio di secoli di storia».
Ciriaco distolse lo sguardo dal viso di Theo e prese a fissare un punto nel vuoto, come per mettere a fuoco i suoi propositi.
«Non ci sarà un’altra occasione come questa, bisogna fare in modo che Vladislao rigetti il trattato e forzare perché si arrivi presto allo scontro».
L’espressione di Theo mostrava tutta l’angoscia che avevano suscitato in lui le parole dell’amico:
«Ma come può un uomo solo rovesciare una situazione così intricata?».
Ciriaco si rese conto di averlo turbato e volle rassicurarlo:
«Per fortuna ci sono uomini potenti che hanno a cuore le sorti dell’Impero. Io mi limito a indicare la strada, a suggerire la prossima mossa alle persone giuste. Devo scrivere al cardinal Cesarini, per questi casi estremi ha in serbo un argomento di cui la Chiesa si serve da secoli per ridurre i sovrani inquieti alla ragione».
«E sarebbe?».
«La scomunica».
Alcuni giorni dopo, mentre teneva d’occhio i domestici intenti a sistemare su un carro il suo bagaglio, Ciriaco stava prendendo congedo dagli Zenobios. Aveva di fronte Theo e Demetrios, mentre Theodora, un po’ più in disparte, seguiva la scena in modo discreto.
«Grazie ancora per la vostra ospitalità impareggiabile» disse stringendo le mani di Theo tra le sue.
«Siamo noi a ringraziarti per averci onorati con la tua presenza. Questa sarà sempre la tua casa, qui troverai rifugio ogni volta che vorrai».
«Non ne avete abbastanza di sentire i vaneggiamenti di un vecchio pazzo sognatore?» replicò Ciriaco, suscitando le risa degli altri. Poi tornò serio e aggiunse:
«Voi siete i miei amici più cari, la famiglia che non ho mai avuto e che avrei voluto avere. Vi porto nel cuore».
Theo replicò:
«Ciriaco, riguardati. Auguriamoci che i tuoi disegni vadano a buon fine».
L’altro rispose guardandolo fisso negli occhi:
«Si preparano tempi incerti. Valutate ogni possibilità».
Poi, come per sdrammatizzare, disse a voce alta:
«Miei novelli sposi, ho una cosa per voi».
Theodora si avvicinò a Demetrios mentre Ciriaco tirava fuori un foglio dalla sacca che aveva a tracolla.
«È un componimento sulle gioie dell’amore coniugale. Come sapete è materia a me ignota, ma ne ho sentito dire un gran bene. Spero vi sia di ispirazione o almeno che apprezziate il gesto…».
Demetrios prese in mano il foglio, vergato con una calligrafia impeccabile. Lo scritto terminava con la sigla ʽK.A.ʼ, Kyriacus Anconitanus. Nella luce del mattino si intravvedeva in trasparenza una figura.
«Il cavallo!» esclamò Demetrios, mentre Theodora lo guardava divertita.
«È una storia di tanti anni fa, te la racconterò» le spiegò il marito.
«Ora è tempo di andare. Mi aspettano sull’isola di Thasos, poi credo che andrò a trovare Giustiniani a Chio, ma non ho un programma preciso».
«Come sempre…» disse Theo.
«Già, come sempre» confermò l’altro.
«Numquam Kyriacus quiescit».
CONTINUA
UNA STORIA DI MARE a cura di Rebecca Guidi
genere: AVVENTURA